1. Zenone e lo stoicismo antico.
Platone e Aristotele ebbero le loro scuole, l’Accademia e il Peripato. Ci occupiamo ora delle altre importanti scuole filosofiche successive ai due grandi autori, che si svilupparono storicamente nell’epoca a partire dalle conquiste di Alessandro Magno e nel mondo ellenistico successivo alla sua morte che arriva sino alla nascita dell’Impero romano. Alessandro Magno, educato da Aristotele, condusse a dissoluzione la città-stato greca e in particolare il grande esperimento dell’Atene classica ma al contempo portò la cultura greca in un vasto arco di mondo. Le scuole filosofiche ellenistiche – tra cui la continuazione di Accademia e Peripato, il cinismo, l’epicureismo, lo scetticismo e lo stoicismo – si sviluppano in questo nuovo mondo, che scorre lungo vari secoli, dove è scomparsa la centralità della città e dove le vicende degli esseri umani sono collocate in domini politici e in orizzonti culturali di vasta scala1. Ma sono anche le scuole filosofiche che avranno fortuna nella Repubblica e soprattutto nell’Impero romano, modificando la stessa nozione di filosofia, resa meno tecnica e piú adatta all’interesse di uditori e clienti disparati, lasciando in eredità contenuti e modelli nuovi. In questo capitolo prendiamo in esame due concezioni influenti, lo stoicismo e l’epicureismo.
Lo stoicismo fu una corrente di pensiero variegata di cui offriamo qualche rapida considerazione in particolare sul suo fondatore, Zenone di Cizio (c. 334/333 - c. 263/262 a.C.), che ebbe tra i suoi successori principali Cleante (331-232 a.C.) e Crisippo (c. 280 - c. 204 a.C.)2. Le opere di costoro sono andate perdute e sono rimaste solo testimonianze successive. Il quadro complessivo presentato da Zenone è sempre quello finalistico ma appare ora come il logos che, sulla scia del Timeo platonico e del caratteristico paragone con le arti, è l’artefice, il forgiatore, dell’intero mondo e al contempo il principio che pervade la natura (SVF I 160 e 161)3. Da queste testimonianze appare perciò una concezione provvidenzialistica che non fa distinzione tra la natura governata da un principio secondo un suo ordine e la natura che fa resistenza rispetto a tale ordine. Questo principio è anche indicato, in particolare nelle testimonianze che ci reca Cicerone, come la legge naturale (SVF I 162). Nelle testimonianze sulla dottrina di Cleante gli è attribuito un inno a Zeus in cui lo invoca con queste parole: «onnipotente, signore della natura, che governi ogni essere secondo la legge». Zeus governa il logos che dà ordine al cosmo ma i mortali malvagi fuggono da questo logos, «non guardano alla legge universale di dio, né danno ascolto a chi renderebbe la loro vita serena secondo ragione» e si perdono lungo una catena di mali. L’inno termina pregando che Zeus liberi gli esseri umani dall’ignoranza: «scacciala dall’anima e fa sí che alfine si incontri la sapienza a cui tu stesso ti affidi per governare il tutto secondo giustizia» (SVF I 537, pp. 237-39). Nelle testimonianze sulla dottrina di Crisippo ritroviamo questa nozione di legge di natura, che rompe con la tradizione platonica e aristotelica, introducendo l’idea che l’etica vada ricondotta a comandi e divieti fondati su una legge che è quella che regola il logos del mondo. Secondo quanto riporta Marciano, Crisippo, nella sua opera La giustizia, scrive:
Bisogna che la legge sia sovrana di tutte le cose, divine o umane. Deve sovrastare tutte le realtà buone e cattive e su di esse esercitare potere ed egemonia; deve fissare i canoni del giusto e dell’ingiusto e, per i viventi che stanno per natura in società, comandare quel che va fatto, e vietare quel che non va fatto (SVF III 314, p. 1123).
E ancora in un’altra testimonianza:
Questo mondo è […] una grande città retta da una sola costituzione e da una sola legge. È il Logos della natura quello che comanda le azioni che devono essere compiute e vieta quelle che vanno evitate (SVF III 323, p. 1127)4.
In questo quadro la natura diventa il fine della condotta. Secondo Diogene Laerzio, «Zenone per primo nella sua opera Della natura dell’uomo definí fine il vivere in accordo con la natura, cioè vivere secondo virtú, poiché la natura ci guida alla virtú», e attribuisce a Crisippo la tesi secondo cui
il fine è costituito dal vivere secondo natura, cioè secondo la natura singola e la natura dell’universo, nulla operando di ciò che suole proibire la legge a tutti comune, che è identica alla retta ragione diffusa per tutto l’universo ed è identica anche a Zeus, guida e capo dell’universo (Diogene Laerzio, VII 87-88, p. 330).
Per quanto ci dicono queste testimonianze, Zenone semplifica il quadro platonico e aristotelico e torna a Socrate e al suo intellettualismo, che tuttavia rivede collocandolo dentro il quadro della natura. Il fine è il vivere in modo coerente (homologoumenōs), secondo un’unica ragione e senza contraddizioni (riporta Diogene Laerzio: SVF I 179), ma tale coerenza della ragione riguarda la comprensione della natura. Zenone mette in primo piano il sapiente, che è colui che per tutta la vita e in tutto ciò che fa vive secondo virtú, può realizzare ciò che è e si dispone conformemente alla scelta (SVF I 216), ed è quindi capace di dominare le passioni, intese come giudizi errati, impulsi sovrabbondanti, disfunzioni, malattie della ragione, di cui ravvisa quattro generi: dolore, paura, desiderio e piacere (SVF I 208, 211)5.
Tuttavia, distingue il sapiente dall’individuo che agisce per dovere: una nozione che Zenone indica con il termine di kathēkon (ciò che è conveniente, appropriato), tradotto da Cicerone con officium e acquisito nella tradizione successiva come dovere6. I doveri hanno un carattere intermedio fra l’agire rettamente e il peccato (SVF I 231). Diogene Laerzio sostiene che Zenone fu il primo a usare questo termine. La definizione di dovere che riporta Stobeo (ma si tratta di una testimonianza tarda del V secolo d.C., che risente dell’evoluzione interna dello stoicismo) è la seguente:
la coerenza nella vita, l’azione che è dotata di una giustificazione ragionevole. […] Questo si applica perfino ai viventi privi di ragione, perché anch’essi in un certo modo agiscono coerentemente con la propria natura (SVF I 230, p. 107).
Il dovere è legato qui alla coerenza con la ragione intesa come rapporto con ciò che è naturale. La natura appare come un termine di riferimento chiaramente in opposizione a Platone ma anche in contrasto con il modo sofisticato in cui Aristotele aveva descritto le attività e virtú umane come naturali. Le varie riprese dello stoicismo faranno tesoro di questo appello provvidenzialistico alla natura.
Crisippo introduce ulteriori importanti specificazioni. I doveri non sono propriamente né mali né beni: sono raccomandati dalla ragione e quindi utili. Stobeo cita come esempi convolare a nozze, discorrere, fare ambasciate, che la ragione raccomanda ma che non sono azioni perfette secondo virtú (SVF III 494). Perciò, restituire un debito è un dovere, ma restituirlo con giustizia è un’azione retta che caratterizza il sapiente (SVF III 498), laddove la giustizia, come le altre virtú, indica una condizione di perfezione nell’uso della ragione e nel coordinamento di tutte le componenti dell’anima. Possiamo perciò fare qualcosa che rispetta il dovere ma controvoglia e con ciò compiere un’azione che non è retta (SVF III 518). Nella distinzione fra le virtú e i doveri troviamo una prima importante incrinatura dell’etica della virtú che caratterizza in parte Platone e interamente Aristotele, che sarà ripresa dallo stoicismo romano.
Vivere con ragione secondo natura significa vivere una vita felice (si tratta perciò di una concezione eudemonistica), ma tale felicità dipende dalla capacità di distinguere i beni legati alla virtú – saggezza, coraggio, temperanza, giustizia (SVF I 200-1) –, contrapposti ai mali del vizio (dissennatezza, viltà, intemperanza, ingiustizia), e distinti dagli indifferenti (adiaphoros), alcuni dei quali sono preferiti o avversati a seconda dell’utilità e della loro tendenza a favorire le necessità naturali (SVF I 190-95). I beni hanno un valore assoluto e quindi non sono preferiti (secondo un criterio che consente la graduazione e il confronto), mentre sono preferiti gli indifferenti scelti dal ragionamento in vista dell’utilità e delle necessità. Essi tuttavia hanno un’affinità con i beni e Stobeo porta l’esempio della reggia: il re non può dirsi un preferito mentre lo sono alcuni tra i suoi sudditi (SVF III 128). Il criterio con cui gli indifferenti sono preferiti è molteplice secondo Diogene Laerzio: ciò che contribuisce alla vita equilibrata della ragione; alla vita secondo natura; l’equità nello scambio di merci. Certamente, aggiunge, sono degni di essere preferiti, nel campo della mente, le doti naturali, la capacità tecnica, il progresso e simili; nel campo del corpo, la vita, la salute, il vigore, la buona costituzione, la bellezza e via dicendo; tra le circostanze esterne, la ricchezza, la fama, le nobili origini e cosí via (Diogene Laerzio, VII 105-6). I doveri (in particolare nell’elaborazione successiva di Crisippo) hanno a che fare proprio con gli indifferenti che sono preferiti in base a tali criteri.
In collegamento con la dottrina degli indifferenti vi è anche la concezione, sviluppata a partire da Crisippo, di ciò che è affine, familiare e che conviene agli esseri umani per natura, che è espresso tramite il concetto di oikeiōsis. Cosí Diogene Laerzio attribuisce a Crisippo la dottrina secondo cui il primo impulso di un animale è la propria conservazione perché la natura gliela rende cara, propria (oikeios). La natura ha conciliato anche gli esseri umani con la propria costituzione, ma in quanto dotati di ragione essi plasmano e educano l’istinto (Diogene Laerzio, VII 85-86). In questo modo viene sviluppato un allargamento di ciò che ci è affine. Esso si estende 1) dalla conservazione di sé e dalla salute, alla ricchezza, alla reputazione, assieme alle virtú che consentono di cercare queste cose indifferenti in modo appropriato, 2) all’identificazione con la famiglia, gli amici, la patria, secondo cerchie sempre piú ampie fino all’intero cosmo, e 3) alla scoperta dell’ordine e dell’armonia dei propri atti in cui consiste il sommo bene7.
In merito alla psicologia morale, gli stoici antichi e in particolare Crisippo (per quanto ci è lasciato nelle testimonianze) elaborano una concezione complessa di cui ricordiamo alcuni elementi centrali, che sono costituiti dalla rappresentazione (phantasia) a cui possiamo negare o dare il nostro assenso (sugkatathesis) e da cui si sprigiona (in quest’ultimo caso) l’impulso (o lo slancio, l’inclinazione e cosí via; SVF III 169-71). Tra gli stoici romani è Epitteto (c. 50 - c. 135 d.C.) a riprendere in modo particolare questa concezione che la attribuisce a Zenone: «l’essenza del bene [consiste] nell’uso conveniente delle rappresentazioni» (Diatribe, I.20, 15-16). Egli, in particolare, tornando a questa dottrina, illustra come la vita virtuosa possa essere ricondotta all’uso delle rappresentazioni, qualcosa che è sempre in nostro potere, rendendoci cosí liberi nei confronti delle cose che ci capitano8. Ma è l’intero stoicismo romano che considera l’etica come un lavoro sul modo in cui reagiamo e sull’atteggiamento nei confronti dei fatti, che perdono la loro inaggirabilità morale (se cosí possiamo dire) e sono ricondotti alle possibilità trasformative della mente.
Osserviamo in conclusione che nella distinzione fra la virtú e gli indifferenti è chiara l’influenza di Socrate con la sua tesi intellettualista a favore dell’autosufficienza della virtú, ma anche del cinico Diogene di Sinope che aveva radicalizzato l’insegnamento socratico liberandosi dal peso della dottrina e professando la filosofia come esposizione della propria vita contro le convenzioni della società. Questi aspetti cinici, del tutto estranei al quadro di un’etica cittadina ordinata come quella di Platone e di Aristotele, ma anche dello stoicismo maturo, si trovano ascritti alla prima opera di Zenone, la Repubblica, in cui la dottrina degli indifferenti è condotta su binari cinici: non solo professando uno stile di vita sobrio che fa a meno di larga parte degli indifferenti, attenendosi a quelli secondo natura (SVF I 239), ma che dissolve i divieti piú profondi come l’incesto e il cannibalismo (che Aristotele aveva incluso tra i piaceri bestiali), decostruisce la complessa etica erotica (considerando indifferenti l’età e il genere) e rifiuta l’educazione dei giovani (SVF I 249-50, 254, 256, 259).
2. Cicerone.
Passiamo quindi a esaminare Cicerone (106-43 a.C.)9. Egli fu per larga parte della sua vita un avvocato, un retore e un uomo politico, e la sua ampia produzione strettamente filosofica è stata scritta nell’ultima decade della sua vita e in larghissima parte negli anni del ritiro dalla vita pubblica sotto la dittatura di Cesare (46-44)10. Dopodiché gli eventi precipitarono con l’assassinio di Cesare alle Idi di marzo e la costituzione del secondo triumvirato. Antonio, che Cicerone aveva duramente attaccato nelle sue Filippiche, ora alleato di Ottaviano, il figlio adottivo di Cesare che Cicerone aveva difeso, lo mise in testa nelle liste di proscrizione a cui seguí l’assassinio. Filosoficamente Cicerone si dichiarò fedele allo scetticismo neoaccademico ma di fatto trasse ispirazione da diverse scuole nelle differenti opere. In quelle etiche e politiche, in particolare nell’ultima, I doveri (De officiis, 44 a.C.), rielabora concezioni stoiche soprattutto con riferimento al cosiddetto stoicismo intermedio di Panezio11 – il cui libro sui doveri (andato perduto) sostiene di seguire in larga parte – e di...