Qualche legittimo interrogativo.
Si può arrivare rapidamente all’unità politica dell’Europa? No, oggi come oggi è impossibile. Fatto sta che una cosa del genere non si è mai vista nel passato. Anche se il grande impero romano e quello molto piú piccolo di Carlo Magno unificarono una parte del continente, anche se Napoleone e Hitler ne conquistarono una porzione cospicua per brevi periodi…
Ci sentiamo davvero europei? Esiste in Europa una «leggenda», un’epopea capace di generare e alimentare il sentimento di appartenenza a una patria comune? No, non esiste. E l’allargamento dell’Unione a paesi che non sembravano del tutto pronti a farne parte, unito all’eclisse del tandem franco-tedesco, ha ulteriormente annacquato l’immagine della costruzione europea.
C’è forse, fra i paesi terzi, qualcuno che prenda in considerazione l’Ue come interlocutore politico-economico credibile? No, per gli americani come per i cinesi o i giapponesi, i brasiliani o gli indiani, continuano a esistere la Germania, la Gran Bretagna, la Francia, l’Italia, la Spagna…
Sono davvero cosí profondi gli elementi di diversità che separano i vari paesi, e in particolare il Nord dal Sud dell’Europa? Sí, effettivamente si tratta di popoli molto differenti, abituati per secoli a combattersi fra loro, a organizzare la loro esistenza secondo regole e gerarchie di valori spesso incompatibili. Ma anche a produrre cose diverse che, se scambiate, migliorano il benessere di tutti. Fino alla nascita dell’euro, lo sfruttamento positivo delle diversità è stato alla base dell’idea di integrazione economica come motore dello sviluppo. Una moneta unica, al contrario, richiede che le diversità siano ridotte al minimo, possibilmente eliminate. La grande sfida dell’Europa è conciliare diversità e uguaglianza.
Che succederebbe se domani l’Italia uscisse dall’euro? Potremmo stampare moneta, svalutarla, aumentare le esportazioni, riempire i nostri alberghi di turisti stranieri. Ma si tratta di una medaglia che in brevissimo tempo rivelerebbe un’altra faccia, molto meno allegra. Piú inflazione, piú debito, meno ricchezza. No, meglio tenerci ben stretta la moneta unica, e avanzare con cautela e fermezza sulla strada della costruzione europea.
La frittata di Lenin.
Questo libro, nato nell’imminenza delle elezioni europee del maggio 2014, cerca di rispondere con argomenti razionali alle domande che i cittadini si pongono, ben piú numerose e complesse di quelle appena citate. Vuol essere una sorta di pamphlet, cioè un breve saggio molto «discorsivo» e senza la piú lontana pretesa di esaustività, il cui obiettivo è di attaccare a viso aperto – anche se con serenità, senza gridare – qualcuno o qualcosa. Il suo scopo non è di prendere di petto la demagogia populista dei cosiddetti euroscettici, bensí di offrire argomenti a sostegno dell’Europa in una prospettiva nuova, piú concreta di quella spesso propagandistica che negli ultimi decenni ha appesantito gli argomenti degli europeisti, in particolare di quelli italiani.
Molti oggi pensano che l’Unione europea possa uscire dalla sua crisi solo accelerando un processo di integrazione politica che viene considerato come ineluttabile, e sicuramente portatore di progresso. Tale modo di ragionare ci ricorda la struttura concettuale che ha guidato una parte non trascurabile degli abitanti di questo pianeta fra il 1917 e il 1989, dalla presa del Palazzo d’Inverno al crollo del muro di Berlino. Una struttura secondo la quale le cosiddette «contraddizioni del sistema», nonché lo scontro frontale borghesia-proletariato, avrebbero prodotto l’inevitabile crollo del capitalismo e il trionfo di una civiltà superiore: la società socialista. Cosí il corso della Storia veniva affidato all’inesorabilità di un dispositivo economico-sociale che prometteva, come esito finale, un mondo perfetto.
Si attribuisce a Lenin la famosa frase secondo cui «Per fare una frittata bisogna rompere delle uova», citata anche in James Gelvin, Il conflitto israelo-palestinese. Cent’anni di guerra (Einaudi, Torino 2007). Ossia: il fine giustifica i mezzi, per fare la rivoluzione e costruire un mondo migliore, bisogna lasciare da parte gli scrupoli umanitari, e tagliare molte teste. Ma era buona la frittata di Lenin? Non erano forse state rotte un po’ troppe uova? Oggi tutti sappiamo che la presa del Palazzo d’Inverno e la vittoria dei bolscevichi non erano affatto scontate, e che l’epilogo dell’avventura non è stato esaltante.
La maggior parte degli europeisti odierni vedono il compimento dell’unità politica dell’Europa come la meta fatale cui certamente dovranno condurci oltre due millenni di destino comune. Ma possiamo essere cosí sicuri di una predestinazione del genere? Secondo uno schema semplicistico ma diffuso, dalla conquista di questo traguardo deriveranno benefici immensi e incontestabili: non soltanto la realizzazione di un sogno «angelista» di fraternità tra portoghesi e polacchi, greci e olandesi, ma anche il raggiungimento di uno sviluppo economico e sociale equilibrato, armonioso. Davvero possiamo essere certi che la frittata derivante dal frettoloso sacrificio delle sovranità nazionali, che costarono un tale investimento di passione e di sangue, sarebbe un capolavoro gastronomico?
Permangono molti attriti primari, «di pancia», anche ai massimi livelli rappresentativi delle varie identità culturali europee, benché forse si manifestino con maggiore franchezza fra paesi non proprio coincidenti con il vastissimo territorio dell’Unione, o con quello un po’ meno vasto della zona euro. A seguito di una frase polemica attribuita al portavoce del presidente russo Vladimir Putin nel corso di un G20 svoltosi a San Pietroburgo nel settembre 2013, il premier britannico David Cameron risponde in modo assai poco diplomatico, anzi furioso che «la Gran Bretagna sarà pure un’isoletta, ma ha salvato il mondo dal fascismo, abolito la schiavitú e inventato tutto quello che c’era da inventare». Dopo aver insistito su alcuni temi di eccellenza britannica come la letteratura, la filosofia, la musica, la diplomazia, l’economia e l’arte militare, Cameron conclude con queste suggestive parole, palesemente piú ispirate dal nazionalismo che dalla sensibilità europeista: «Sfido chiunque a trovare un paese con una storia piú fiera, un cuore piú grande e una maggiore capacità reattiva».
La costruzione europea potrà avere un solido futuro soltanto a condizione di difenderla in modo razionale, spazzando via i luoghi comuni che hanno finito per renderla poco credibile, e mostrandone tutti gli elementi di gracilità: a partire dal suo lungo e accidentato percorso storico-culturale, per arrivare alle varie fasi della tortuosa vicenda politico-economica che abbiamo vissuta dal dopoguerra a oggi. Questo nuovo approccio è oggi quanto mai urgente, in un continente la cui immagine istituzionale senz’anima rimane abbastanza inafferrabile per il grosso pubblico e che non ha nulla di particolarmente attraente per i media, in un continente dove la tendenza ormai dominante è di accusare proprio le istituzioni europee per l’altissima disoccupazione giovanile, per un tenore di vita che sembra peggiorare invece di migliorare.
Tutti ricordiamo l’epoca abbastanza recente in cui la grande maggioranza degli italiani tendeva a vedere nei progressi della costruzione europea la panacea di tutti i mali, come se il passaggio progressivo dei poteri a Bruxelles avesse potuto comportare l’automatica soluzione di tutti gli storici problemi della Penisola (squilibrio Nord-Sud, criminalità organizzata ecc.). Oggi invece avviene esattamente il contrario. Quando si è obbligati a constatare che un certo problema, soprattutto di natura economico-finanziaria, fatica a trovare la sua via d’uscita, la gente mette l’Europa sul banco degli imputati, dividendosi in due tendenze opposte: qualcuno vorrebbe che l’Unione scomparisse di colpo, come una micidiale malattia infettiva da sgominare al piú presto, altri pensano invece che soltanto a condizione di compiere un salto drastico e immediato verso l’integrazione politica l’Unione potrà continuare a svolgere un ruolo positivo.
Unità politica necessaria, ma impraticabile a breve.
In effetti, molti ritengono che l’Unione sia ormai arrivata a un bivio, e possa uscire dalla sua crisi solo accelerando un processo di integrazione politica. Ma se l’obiettivo è quello di avere piú Europa, come si può pensare che un’identità comune europea possa formarsi rapidamente, nel mezzo di una crisi cosí profonda?
In questo piccolo libro viene compiuta un’analisi impietosa di tale ragionamento, mettendo anzitutto in rilievo la debolezza dell’identità culturale europea tramite una galoppata storica che va dall’antichità greco-romana alla breve stagione dell’impero carolingio, dalla nascita degli stati nazionali alle vicende davvero tutte nazionali della lunga avventura colonialista, dalla Prima guerra mondiale (ovvero «il suicidio dei padroni del mondo») alla ferocia distruttiva dello scontro fra la Germania nazista e le democrazie alleate con l’Unione Sovietica.
L’analisi dei messaggi lanciati dai diversi apostoli veri o presunti dell’idea europea, da Lully a Saint-Pierre, da Immanuel Kant a Giuseppe Mazzini, da Victor Hugo fino al celeberrimo Manifesto di Ventotene redatto da Ernesto Rossi e Altiero Spinelli nel 1941, suggerisce l’immagine di un nobile progetto caratterizzato però da un’evidente fragilità.
Ma soprattutto, che cosa significa in concreto la teoria secondo cui per uscire dalle attuali difficoltà sarebbe urgente il grande salto verso un’unione politica che palesemente non costituisce un’ipotesi plausibile nel breve termine? Un modo non astratto per affrontare questo punto delicato consiste nell’esaminarlo alla luce della vera grande crisi esistenziale dell’Europa, quella che stiamo tuttora vivendo: la crisi dell’euro.
L’idea che l’euro avrebbe automaticamente determinato una crescente integrazione culturale si è rivelata un’illusione. La sua crisi ha messo in evidenza il conflitto fra l’Europa delle diversità nazionali – che era stata il punto di forza di un’integrazione economica incarnata nel mercato unico – e la necessità di convergenza fra politiche nazionali, scaturita dall’integrazione monetaria. Le diversità strutturali fra i vari paesi dell’Unione, e in particolare fra Nord e Sud, si sono trasformate da fonte di prosperità in fonte di debolezza, a seguito dell’introduzione dell’euro e successivamente della crisi finanziaria internazionale. Si tratta oggi di operare una nuova trasformazione, facendo in modo che le diversità ridiventino fattori di ricchezza anziché di conflitto.
La crisi dell’euro non ha soltanto messo in luce le carenze tecnico-istituzionali della concezione iniziale della moneta unica, ma anche posto in discussione la possibilità stessa di collaborare fra paesi cosí diversi, in presenza di un triangolo infernale: mercato senza guida; governi nazionali incapaci di gestire la crisi e di collaborare secondo una volontà collettiva; cittadini che hanno perso progressivamente la fiducia nelle promesse dell’Europa di piú lavoro e piú benessere. Rimane del tutto legittimo quindi chiedersi come potrebbe essere gestita, a lungo termine, la moneta unica senza una guida politica unitaria.
E inoltre: come potrebbero essere fronteggiati il peso politico, la capacità di attrarre investimenti, la concorrenza commerciale di grandi entità come gli Stati Uniti, la Cina, l’India da parte dei paesi di piccola o media dimensione che compongono il mosaico europeo? Come promuovere il prodotto europeo senza una politica di sostegno di dimensioni continentali?
Occorre allora dare concretezza all’idea di un’integrazione politica che un giorno permetta ai governi di definire strategie di lungo periodo, guidare i mercati e migliorare le prospettive di vita delle popolazioni. Il progetto di un’unità dell’Europa non può restare affidato a una presunta «ineluttabilità del bene», ma corrisponde invece a esigenze oggettive: economiche, commerciali, e anche etiche... Angosciata da una crisi che per la prima volta da secoli promette alle nuove generazioni un avvenire meno prospero delle precedenti, l’Europa è davvero di fronte all’alternativa fra l’unità e il declino.
Si tratta di ripensare il concetto di benessere dei cittadini: non solo crescita, ma anche equità, sostenibilità ambientale, partecipazione alla vita civile. Si tratta insomma di consolidare l’Europa su obiettivi comuni nuovi ma anche molto concreti, alla cui definizione e realizzazione le diverse culture possano tutte contribuire, per tracciare con gradualità e costanza il percorso verso un’unità politica possibile.
Un po’ di ottimismo.
Infine, lo spirito critico non deve farci dimenticare alcuni punti fermi assai positivi che la costruzione europea, benché lontana dall’essere davvero compiuta, ha reso possibili. Come ricorda Hans Magnus Enzensberger nel suo recente Il mostro buono di Bruxelles (Einaudi, Torino 2013),
[...] dal 1945 fra gli Stati che fanno parte dell’Unione europea non si è piú avuto un solo conflitto armato. Quasi l’intera vita di un uomo senza guerra! Un’anomalia della quale il nostro continente ha di che essere orgoglioso.
Si potrebbe anzi affermare che dal 1945, quasi a voler cancellare un troppo sanguinoso passato, gli Stati dell’Ue si siano pressoché astenuti dall’uso delle armi anche al di fuori del perimetro europeo. Principali eccezioni: le guerre francesi in Indocina e in Algeria, altri interventi di Parigi nelle ex colonie africane, l’azione militare britannica per mantenere il controllo delle isole Falkland, la partecipazione di alcuni paesi compresa l’Italia ai due interventi americani in Iraq.
Certo, la pace è uno dei beni piú preziosi. Al tempo stesso, se vogliamo spingere la nostra riflessione fino in fondo, non possiamo purtroppo dimenticare che proprio le memorie comuni – spesso dolorose – di guerre combattute contro nemici esterni hanno contribuito in ogni tempo a definire e consolidare l’identità collettiva dei popoli. Paradossalmente, la patria europea rimane distante dalla sensibilità popolare anche perché non ha mai conosciuto una vera «prova del fuoco». Dovrà conquistare la sua credibilità per altre vie: forse costruendo un valido modello di collaborazione economica e politica fra realtà socioculturali diverse.
Continua Enzensberger:
Possiamo rallegrarci, anche di una serie di piacevolezze nelle quali non sono in gioco la vita o la morte. Ormai sono diventate cosí ovvie che quasi non le notiamo piú. Chi ha meno di sessant’anni non può ricordare com’era laborioso, dopo la Seconda guerra mondiale, mettere piede in un paese confinante. Un viaggio all’estero era impensabile senza una lunga e complicata battaglia burocratica. Chi voleva oltrepassare un confine doveva presentare lettere di invito autenticate e compilare richieste di visto in triplice copia, per ottenere dei permessi di soggiorno c’erano da superare complicate disposizioni valutarie e una dozzina di altri ostacoli. Per far arrivare un libro dall’estero, era necessaria una meticolosa procedura presso l’Ufficio centrale delle dogane. Voler ricevere un vaglia dalla Francia o pagare una fattura in Spagna sembrava quasi un affare di stato, impossibile da realizzare senza una pletora di timbri ufficiali. Tutto questo oggi è soltanto un pallido ricordo.
Ma perfino sulla spinosa questione dei privilegi dei funzionari dell’Unione, periodicamente evocati dalla stampa euroscettica con toni che ricordano quelli usati da Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella nei riguardi della «casta» politica italiana, la penna brillante di Enzensberger riesce a gettare una luce abbastanza amena:
Piú che muovere rimproveri ai funzionari di Bruxelles, si vorrebbe in realtà prenderli sotto la nostra protezione. Non è certo piacevole trascorrere una settimana di sessanta ore in un clima di impopolarità, tra conflitti interni, blocchi...