
- 400 pagine
- Italian
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Informazioni su questo libro
La vita di Lucia si intreccia con quella del figlio da lei concepito, partorito e ucciso. Una tragica vicenda che rimanda a quelle di moltissime donne dell'epoca e che si situa nel quadro delle concezioni dell'identità umana e dei rituali elaborati per fissare i confini tra i vivi e i morti. Grazie a un'esemplare ricerca condotta nelle direzioni piú diverse, la sorte di una madre e quella del suo piccolo risultano inestricabilmente legate ai modi in cui la cultura dell'epoca affrontò un problema centrale nella storia delle nostre civiltà: se esista e in che cosa consista la speciale natura dell'essere umano.
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Informazioni
Parte seconda
Gli attori: persone e non persone
LA MADRE
Un fatto è certo: al termine di questa sommaria rassegna del modo in cui nell’infanticidio si è ravvisato un reato di suprema gravità e delle forme in cui lo si è perseguito, non possiamo dire di avere capito meglio la storia di Lucia Cremonini. Abbiamo davanti un quadro delle definizioni giuridiche, delle pratiche di giustizia e delle costruzioni intellettuali nate intorno ad esse. Ne abbiamo tratto la conseguenza che Lucia Cremonini si trovò a vivere in una fase tra le piú aspre della lotta contro l’infanticidio, quella che individuò il delitto in questione come qualcosa di pertinente esclusivamente alla madre e che pur usando sistemi di dissuasione fondati sull’esempio di pene terrificanti, ne intravide i limiti. Ma rimane insoddisfatta una domanda: chi era Lucia Cremonini? Quale fu la sua vita, quali i suoi sentimenti, quali le ragioni del suo gesto? Per ora, confusa nella folla delle infanticide, i suoi tratti individuali restano vaghi e incerti.
Capitolo primo
«Una figliola grande, giovane fatta»
Il tempo ha cancellato, con la vita di Lucia, la maggior parte delle cose da lei fatte, dette o pensate. Se non avesse commesso il delitto di infanticidio e non fosse stata investita dalla luce della giustizia criminale la sua vita sarebbe trascorsa senza lasciar traccia. Ma anche cosí non è molto quel che sappiamo.
Conosciamo il suo nome. Da qui possiamo partire. Il nome è la traccia che lega i segni lasciati da una vita, il filo d’Arianna che permette di ripercorrere a ritroso i passi fatti nel labirinto dell’esistenza.
È stato detto giustamente che convergono sul nome e da esso si dipartono tante linee fino a comporre «una sorta di ragnatela a maglie strette» da cui l’osservatore ricava come il disegno del «reticolo dei rapporti sociali in cui l’individuo è inserito»1. Ma un reticolo di rapporti basta a definire un individuo? La domanda va ben al di là dei confini della conoscenza storica: e nello stesso tempo la investe direttamente, ne mette a prova le ambizioni, ne interroga la pratica. Il nome è un buon termine da cui partire per cercare la risposta: è qui che ci imbattiamo fin dall’inizio in quel misto di ripetitivo e di originale che caratterizza ogni individuo. Chi nasce è – almeno per la nostra cultura – un individuo al tutto nuovo, inconfondibile con gli altri: suoi e di nessun altro sono i momenti della sua nascita e della sua morte. Ma il nome che gli viene dato non è solo suo: e sicuramente non lo era ai tempi in cui nacque Lucia.
Era nata il 29 settembre 1686 a Manzolino, nella pianura tra Modena e Bologna e aveva ricevuto non uno ma due nomi: Lucia Maria2. Le furono attribuiti il giorno stesso della nascita nel corso del rito cristiano del battesimo, nella chiesa parrocchiale di San Bartolomeo. I nomi furono scelti probabilmente dai genitori, dal padre, Nicola, o dalla madre, Caterina Testoni (che fu l’unica nel corso del processo a usarli tutt’e due per parlare della figlia); o forse furono indicati dai padrini, Giuseppe Maria Mantelli ed Elena Mattioli. La madre non fu presente al battesimo perché cosí volevano regole antiche: resa impura dal parto, nessuna madre poteva entrare in chiesa prima di un tempo determinato e di un rito tradizionale di purificazione. Era cosí che le regole folkloriche dei riti di passaggio avevano stretto alleanza coi sacramenti cristiani. E se altre culture europee avevano cominciato a sciogliere quell’alleanza, essa valeva ancora nei riti religiosi delle campagne padane3. Il padre poteva accompagnarla e probabilmente lo fece, anche se la nascita di una figlia femmina non era considerato un motivo di festa. Era il padre, a ogni buon conto, che indicava il nome. Quelli che furono scelti per lei non erano originali né volevano esserlo: l’originalità del segno, il possesso tendenzialmente esclusivo di un appellativo capace di suggerire immediatamente uno speciale individuo non apparteneva a quella cultura. La scelta era guidata da un criterio completamente diverso, quello di rinnovare nel nome qualcuno che era già vissuto sulla terra: poteva essere il ricordo di un avo che tornava cosí in qualche modo a rivivere nell’essere che portava il suo nome; ed era comunque l’atto di memoria supplice e di domanda di protezione rivolto allo spirito di un santo, quello che poteva garantire l’aiuto piú efficace. Nella cultura cristiana i santi avevano preso quasi del tutto il posto che in altre culture spettava alle figure protettive degli antenati. Erano i nomi dei santi che venivano invocati nei momenti rituali: non solo davanti alle difficoltà della vita ma anche semplicemente nell’atto quotidiano di addormentarsi la sera. Il loro ricordo tornava infine nelle raccomandazioni dell’anima, quando e se si redigeva il testamento, o nelle preghiere per i morenti. Dovendo trovare patroni popolari e ritenuti potenti, si finiva col ripetere per lo piú gli stessi nomi. Di regola, nei paesi cattolici una donna portava quello della Madonna. Questo fu il nome dato alla bambina di Nicola Cremonini, con l’aggiunta di quello di una santa popolarissima: protettrice della vista, cioè del senso di gran lunga piú importante nella percezione comune, tanto bastava per renderla importante nel panorama delle patrone disponibili per le neonate (a santa Lucia, a Bologna, era dedicata la chiesa del potente ordine dei Gesuiti).
Scelto col criterio della ripetitività quel nome doveva accompagnare l’essere umano nel corso della vita fino a diventare parte essenziale, indicazione fondamentale della sua esistenza, segnale per gli altri e per se stesso, entità dotata di una vita simbolica di importanza potenzialmente superiore alla stessa vita materiale: perché garantire vita durevole e onorata al proprio nome poteva rappresentare un valore piú alto della vita stessa dell’individuo che lo possedeva. Tutto questo si rifletteva nell’organizzazione e conservazione delle memorie. Molti documenti del passato sono stati eliminati perché qualcuno ha voluto cancellare cosí le tracce negative lasciate dal proprio nome o dall’istituzione e dalle idee a cui si è legato. Altri sono stati scritti per un obbiettivo opposto. La stessa sopravvivenza del nome di Lucia Cremonini, inclusa la conservazione delle carte del suo processo, si deve alla nota d’infamia che il delitto vi ha impresso. I processi criminali hanno riempito archivi su archivi al solo fine di documentare nel tempo eventi esecrati e mantenere memoria dei colpevoli. Talvolta alla scrittura del processo si associava il ricorso a mezzi piú immediatamente evocativi di grandi e terribili crimini: ritratti dei condannati e rappresentazioni figurate dei loro delitti campeggiarono sulle mura dei palazzi pubblici, le loro abitazioni furono rase al suolo e sul terreno destinato a restare inedificato vennero erette colonne dette «infami», strumenti di una pedagogia del terrore4.
Città universitaria, dove la cura delle memorie patrie e il ricordo dei nomi dei cittadini illustri si erano guadagnati un grande spazio, Bologna aveva storici e cronisti attenti agli eventi cittadini. Nell’Ottocento un canonico bolognese, Antonio Francesco Ghiselli, dedicò gran parte del suo tempo a mettere per iscritto memorie tratte da documenti e cronache antiche. E qui comparve anche una breve notizia dell’oscuro nome della serva infanticida, eco della notorietà che le aveva guadagnato il processo5. Se alla nascita la nuova creatura aveva ricevuto un nome già usato e infinite volte ripetuto, scelto per le neonate cristiane per uniformarne la vita ai tratti di un unico modello, ora quel nome si depositava nella memoria della città con un contenuto individuale esclusivo: una storia d’infamia.
Di fatto ciò che sappiamo di Lucia deriva dalle informazioni che furono raccolte su di lei durante il processo. Rimasta orfana di padre, si era portata a Bologna con la madre. Qui viveva in una stanza d’affitto nella casa di un certo Cesare Barbieri. La madre, come abbiamo visto, andava a lavorare in campagna dove prestava opera a giornata. La figlia, una volta cresciuta, aveva dovuto anche lei guadagnarsi da vivere come donna di servizio. Era stata in casa di un tal Benedetto Zanardi per otto mesi e poco piú e da un altro padrone – Francesco Maria Gualandi – per circa sei mesi. Ambedue i suoi datori di lavoro dichiararono che Lucia era stata «honesta e da bene» (Gualandi), «onesta come doveva stare» (Zanardi) e che aveva lasciato il lavoro con i «dovuti rispeti», non perché licenziata («si è licinciata da esa»). Fu il suo avvocato che raccolse questi attestati. Che i suoi padroni garantissero l’«onestà» era opportuno per la strategia della difesa: si trattava di provare che Lucia era una ragazza di severi costumi prima del passo falso che l’aveva trascinata al delitto. La cosa era lungi dall’essere ovvia. La condizione di una ragazza ventenne a servizio era esposta a tutti i rischi di tentazioni e aggressioni sessuali. La serva viveva nelle case dei suoi datori di lavoro ed era affidata completamente al loro controllo. Il padrone di casa, i figli di famiglia la consideravano cosa loro. Dai rapporti sessuali di frequente piú o meno imposti dai maschi della famiglia del padrone nascevano dei figli. In tempi precedenti erano detti figli «naturali» e venivano lasciati crescere nella casa del padre. Ai tempi di Lucia erano definiti «illegittimi» e come tali erano destinati agli istituti per trovatelli. La sorveglianza sui costumi delle donne di servizio si era fatta piú stretta, convergendo in questo gli interessi delle famiglie e la moralità sessuofobica della Chiesa. Era interesse delle famiglie che niente minacciasse la conservazione del patrimonio e la sua trasmissione per via diretta ai discendenti «legittimi» (in genere il primogenito maschio). Con un percorso in parte convergente la Chiesa aveva convogliato nel matrimonio sacramentale ogni forma di sessualità legittima. Ma la presenza di fanciulle povere a servizio era un’occasione e un incentivo per rapporti sessuali coi padroni di casa. Gli attestati di buon servizio da parte dei padroni erano il documento necessario per trovare lavoro. Necessario ma non sufficiente: occorrevano i certificati di buona condotta da parte del clero delle parrocchie. Don Giovanni Francesco Manzini rettore della parrocchia di San Matteo delle Pescarie a cui faceva capo il Gualandi padrone di Lucia, attestò che la ragazza aveva trascorso nella sua parrocchia l’anno 1707 ed era «vissuta nel detto tempo christianamente e frequentò li SS.mi Sacramenti, non havendo mai inteso cosa alcuna in contrario» («anci – aggiunse – ne ho sempre havuto buone relationi»). Il sacerdote intendeva dire che Lucia si era confessata regolarmente come prevedevano le norme della Chiesa. Come parroco aveva modo di ascoltare «relazioni» su tutti gli abitanti della sua parrocchia, sia per via di conversazioni ordinarie sia per il fiume di confidenze intime che prendeva la via del confessionale. C’era ben poco che potesse sfuggire al suo orecchio. Questo significa che non aveva raccolto nessuna denunzia di comportamenti censurabili sul conto della serva di casa Gualandi. E si tenga conto che dal punto di vista ecclesiastico le relazioni illecite tra serva e padrone erano colpa della serva. Se un confessore accertava l’esistenza di relazioni di quel genere era opinione autorevole del mondo ecclesiastico che il suo dovere fosse quello di intervenire e di far licenziare la serva.
Dunque quegli attestati poco valgono a dirci come di fatto Lucia avesse vissuto le sue giornate di serva. Per ora il colore del tempo è dominante, il grigio filo del contesto non lascia spazio al profilo individuale. Ma del contesto facevano parte altre persone che ebbero un peso decisivo sulla vita di Lucia. A queste bisognerà dunque prestare attenzione.
1 C. GINZBURG e C. PONI, Il nome e il come: scambio ineguale e mercato storiografico, in «Quaderni storici», 1979, n. 40, pp. 181-90; si veda p. 186.
2 Cosí attestò l’arciprete della chiesa di Manzolino, prendendo i dati dal registro dei battezzati: Processo Cremonini, fascicolo di cc. n.n. inserito alle cc. 32v-33r.
3 Cfr. il saggio di D. CRESSY, Purification cit.
4 Ricordiamo la Storia della colonna infame di Alessandro Manzoni; e si veda di G. ORTALLI, «Pingatur in Palatio». La pittura infa...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Dare l'anima
- Nota all’edizione 2015
- Elenco delle tavole fuori testo
- Ringraziamenti
- Dare l’anima
- Parte prima - La storia
- Parte seconda - Gli attori: persone e non persone
- Parte terza - La giustizia
- Indice dei nomi e dei personaggi
- Apparati iconografici
- Il libro
- L’autore
- Dello stesso autore
- Copyright