La conversazione infinita
eBook - ePub

La conversazione infinita

Scritti sull'«insensato gioco di scrivere»

  1. 592 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La conversazione infinita

Scritti sull'«insensato gioco di scrivere»

Informazioni su questo libro

Anche qui, come negli altri libri dell'autore, la riflessione muove da testi, autori, studi, problemi proposti volta a volta dall'attualità. Questi incontri appartengono spesso alla produzione letteraria, a volte sono «recensioni» a libri di sintesi interpretativa trascese in un rapporto libero; ma sempre in una prospettiva generale di pensiero. In confronto agli altri lavori di Blanchot, questo appare dunque piú filosofico; piú frammentato e insieme piú compatto. I singoli testi si susseguono in una fitta polifonia che riprende e sospende, nel tessuto discontinuo delle occasioni critiche, una serie di interrogativi sempre piú essenziali. La complessità del discorso viene evidenziata nei capitoli di raccordo stesi in forma di dialogo, dove la polarizzazione della ricerca, nell'alternanza di due voci disincarnate, obbedisce a una funzione organizzativa, all'esigenza di regolare i tempi e i livelli di approfondimento. Tra le parti piú intense e appassionanti del volume quella introduttiva in forma di dialogo, coi temi apparentemente misteriosi della «fatica», della «benevolenza», dell'«evento»; le pagine sul significato dell'Ebraismo, quelle sui terroristi; su Orfeo, Don Giovanni, Tristano; sul «quotidiano»; sul narrare; sulla critica; e la ricapitolazione finale su «L'assenza di libro».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2015
Print ISBN
9788806225001
eBook ISBN
9788858418352
Argomento
Letteratura

L’esperienza-limite

1.

Eraclito

Dice Clémence Ramnoux: Quando, nel leggere Eraclito, si traducono Giorno, Notte, Lampo, Parola con i termini correnti della lingua moderna, si tradisce già il senso, perché i termini moderni non sono stati astratti nello stesso modo1. Eppure tradurre è necessario (bisogna farlo): se non altro si comincerà con lo stabilire rispetto a quale tradizione di linguaggio, in che tipo di discorso, venga a situarsi l’invenzione di una forma che è una novità – che, per cosí dire, è eternamente nuova – e tuttavia ha inevitabili relazioni di parentela o di rottura con altri modi di dire. A questo punto interviene l’erudizione, che però, piú che sui fatti di cultura, inafferrabili e sempre malleabili, si esercita sui testi stessi, testimoni che non mentono a chi decida di essergli fedele. La lettura di Esiodo, uno dei grandi nomi precedenti ai quali Eraclito risponde con una opposizione sovrana, suggerisce che in quei tempi piú antichi i Greci, per parlare del sacro, disponevano di due tipi di discorso: uno era il vocabolario dei nomi divini, con il patrimonio di leggende affascinanti, le tradizioni immemorabili, i tremendi racconti mitologici («figli ricacciati nel ventre della madre, padri castrati dai figli, lotta contro i mostri...»), l’altro, un vocabolario con una destinazione piú ambigua, quello dei nomi di Potenza che operano nei racconti di genesi introducendovi i primi quesiti sull’origine. Anche questi nomi di Potenza – il Caos (la lacerazione primordiale o il vuoto), la Terra intesa come il primordiale punto fermo, la Notte che si scinde in notte e giorno, i Figli della Notte, la Morte, il Sonno – sono ancora nomi sacri, ma anche tracce di esperienze sconvolgenti, estreme e spesso contraddittorie, che appartengono all’esperienza umana immediata. Già la cosmogonia di Esiodo utilizza dei nomi e a volte delle strutture che in epoca piú tarda forniranno un modello all’insegnamento.
Ciò vuol dire forse che la comparsa, avvenuta verso il sesto secolo tra le persone tradizionalmente abilitate a parlare, di una razza del tutto nuova di maestri della parola, inventori del discorso sulla natura, – e per noi principalmente la comparsa di Eraclito, – debba apparirci meno inaspettata, meno decisiva, in quanto è in continuità con il passato? No, anzi è tanto piú misteriosa in quanto, di pari passo con le formulazioni tradizionali, ma modificandole dall’interno, prende forma e si accinge a dire il segreto delle cose la piú rara delle invenzioni: quella di un linguaggio improvvisamente «sobrio e severo». Evento prodigioso: nasce un modo di dire che non solo è nuovo, ma inventa la semplicità, scopre la ricchezza della parola dimessa, il potere illuminante della parola breve, priva d’immagini e per cosí dire ascetica. La sorpresa, la lezione veramente divina e che resta ancor oggi la piú valida, sono nel fatto che l’approfondimento decisivo del linguaggio umano sia dovuto all’attenzione improvvisamente accordata ad alcune parole correnti (verbi comuni come il verbo parlare o il verbo essere) e al risalto dato a queste parole, a cui si è riconosciuta una maggiore importanza, una maggior ricchezza di segreti che ai piú ardui termini sacri, tanto da superarli in dignità e da rifiutare l’equiparazione2 con essi.
Clémence Ramnoux parla giustamente di mutazione. Qui nasce un uomo, ed è una nascita con poca spesa. Dal punto di vista tecnico è possibile leggerne gli indizi in pochi tratti. Il discorso sacro diventa discorso della physis: grazie all’economia dei nomi divini, utilizzati sempre piú sobriamente e interpretati come segni di qualche altra Cosa piú segreta o piú difficile da evocare; – grazie al senso pregnante attribuito a parole comuni (verbi statici come esserci o non esserci; verbi dinamici come raccogliere, disperdere, avvicinarsi, allontanarsi); – grazie al ricorso al neutro singolare per designare, in una sorta di non designazione, ciò che saremmo tentati di valorizzare chiamandolo l’essenziale («La Cosa saggia»3, «L’Uno», «La Cosa comune», «La Cosa insperabile»)4; – grazie alla decisione di usare al singolare e con grande incremento di senso una parola che si usa al plurale come logos, in genere col privilegiare l’uso delle formule di tipo severo.
In Eraclito questa trasformazione è colta nel momento in cui vi coesistono tutta la gravità del linguaggio sacro, sulla cui base essa si compie, e tutta la forza d’apertura del linguaggio severo, da essa destinato ad un avvenire di verità. Ecco dunque un primo doppio senso – una possibilità iniziale di duplice lettura, – sulla cui base il linguaggio di Eraclito svilupperà, in modo singolarmente concertato e con una vasta conoscenza delle proprie risorse, il potere di enigma che gli è proprio, per catturare nella rete delle sue duplicità la semplicità disunita a cui corrisponde l’enigma della varietà delle cose.
Eraclito l’Oscuro: cosí giudicato sin dall’antichità, non lo è certo a caso, né tanto meno per sembrare piú profondo, come asserivano certi critici greci con una leggerezza già degna dei critici di Mallarmé. La sua oscurità ha lo scopo deliberato di far sí che nella scrittura la severità corrisponda alla densità, la semplicità all’organizzazione complessa della struttura delle forme, e che di conseguenza si corrispondano l’oscurità del linguaggio e l’evidenza delle cose, la padronanza del doppio senso delle parole e il segreto della dispersione delle apparenze, ossia (forse) il dis-corso e il discorso.
In quasi tutte le frasi di Eraclito, cosí come ce le ha tramandate, nella loro frammentarietà, la memoria dei tempi, si possono leggere in trasparenza le rigorose configurazioni che le governano: a volte parole differenti vanno a riempire una stessa forma, a volte le stesse parole si compongono in figurazioni differenti, a volte lo schema resta vuoto o dirige su una parola nascosta l’attenzione risvegliata da una parola presente alla quale l’altra si accompagna palesemente in altri casi. Vita-Morte, Veglia-Sonno, Presenza-Assenza, uomini-dei: queste parole accoppiate, mantenute insieme dalla reciproca opposizione, costituiscono dei segni intercambiabili con i quali il piú sottile gioco di scrittura si esercita in molteplici, misteriose combinazioni, mentre vengono messi alla prova – ed è proprio questo l’essenziale – la struttura di alternanza, il rapporto di disgiunzione che si ritrovano identici e pure diversi di coppia in coppia. Infatti in «Tutto-Uno» non c’è ovviamente lo stesso rapporto di struttura che in «Giorno-Notte» o in «uomini-dei»5.
Non dobbiamo esitare a concludere che si tratta di un altissimo gioco di scrittura. Ogni frase è un cosmo, un ordinamento minuziosamente calcolato all’interno del quale i termini sono in rapporto di estrema tensione; mai indifferenti rispetto al posto o alla figura che occupano, sembrano disporsi tenendo conto di una Differenza segreta che si limitano ad indicare mostrando, a mo’ di misura, i cambiamenti e le conversioni visibili di cui la frase è il luogo separato. Ordinamento chiuso: ogni formula è tacitamente sufficiente, unica, ma unita col silenzio che la apre e la richiude radunando virtualmente la rischiosa serie delle alternanze non ancora controllate. Naturalmente è scontato che giochi di parole, indovinelli e funambolismi verbali costituiscono, nella tradizione arcaica, un modo di esprimersi che gli dei apprezzano e di cui fanno largo uso, sia buono che cattivo; inoltre i Greci gustano profondamente questi giochi e questo linguaggio a metà strada tra parola e silenzio, tra facezia e mistero, sia per dire le cose divine che quelle umane. Senza dubbio. Eraclito è greco (anzi lo è a tal punto che i Greci lo considerano un enigma). Inoltre egli vive nell’epoca in cui gli dei parlano ancora e la parola è divina. Ma che questo linguaggio severo, il quale si apre quasi per la prima volta alla profondità della parola semplice, reintroduca e reinvesta nella scrittura stessa la potenza di enigma e i diritti del sacro, è di fondamentale importanza; ed è altrettanto importante che l’oscurità a cui si collega ogni forma d’intendere, proprio qui, in questo primo esempio, si affermi come esigenza del dominio, segno di rigore, necessità della parola piú attenta e piú raccolta, della parola piú equilibrata tra i contrari che mette alla prova, parola che, fedele al doppio senso unicamente per tener fede alla semplicità del senso, ci ammonisce a non accontentarci mai di una lettura a senso unico6.
Ma se chi è vigile sta bene attento a leggere in partita doppia, chi vedesse nelle parole di Eraclito, cosí rigorosamente combinate, null’altro che una semplice combinazione di parole, mostrerebbe di averlo letto dormendo. Quando Eraclito è presente, sono presenti le cose, e ne siamo sempre coscienti. Se parla del fiume le cui acque, mai le stesse, scorrono verso di noi, non si tratta dell’esempio di un professore: è il fiume stesso che ci ammaestra immemorabilmente, con l’invito a penetrare il segreto della sua presenza, a penetrarvi ma non due volte, e nemmeno una volta sola, come in una sentenza che, quando crediamo di averla afferrata e di ritenerla, si è sempre già richiusa. L’insegnamento del fiume, l’insegnamento del fuoco e delle cose piú umili e delle piú alte. Quasi tutte le sue formule sono scritte in questo modo, in stretto contatto con le cose circostanti, e si spiegano assieme ad esse, in un moto dalle cose alle parole e dalle parole alle cose, secondo un nuovo rapporto di opposizione che non siamo minimamente in grado di padroneggiare una volta per tutte, ma che concretamente ci fa intendere la misteriosa relazione esistente tra la scrittura e il logos, e poi tra il logos e gli uomini. È una relazione che segue la duplice direzione «avvicinamento-allontanamento»: avvicinandosi, se ne allontanano. «Dal logos, col quale vivono in contatto costante, essi discordano, e le cose in cui s’imbattono ogni giorno gli sembrano estranee» (frammento 72). Formula in cui la divergenza si inscrive nel logos stesso come ciò che lo ha già da sempre destinato alla disgiunzione della scrittura.
L’opposizione dell’«avvicinamento-allontanamento» e quella del «raccogliere-disperdere» misurano anche la nostra intelligenza, in ciò che è detto, di ciò che è, sia che si tratti del modo in cui le cose parlano al Maestro, sia che si tratti del modo in cui il Maestro parla ai discepoli, quella sorta di conversazione estranea e familiare, amichevole e ostile, compresa e fraintesa, che Clémence Ramnoux ha forse una certa tendenza a mettere al livello del dialogo socratico. In tal modo Eraclito diventa il diretto predecessore e per cosí dire la prima incarnazione del chiacchierone ispirato, intempestivo e prosaicamente divino, il cui merito (certo grandissimo, a detta di Platone), consistette nell’incurvarsi del suo procedere; che «per mille e mille circuiti, senza avanzare di un solo passo, ritornava sempre allo stesso punto»7. È pur vero che Eraclito non procede nemmeno avanzando sull’unica via diritta, come il Parmenide tradizionale, ma ci fa passare, quasi a nostra insaputa, anche nei luoghi piú diversi, e tuttavia per lo stesso incrocio, dove le strade ci conducono, attraverso itinerari sempre altri, verso l’Introvabile, l’insperabile a cui non esiste accesso8.
Vedo chiaramente che Eraclito ha avuto familiarità con le cose non meno che con le parole. Intendo principalmente che non ha mirato a rinchiudersi in una «estetica della parola per la parola», anche se il rigore con cui sono costruite le sue frasi è sufficiente perché ci accontentiamo di esse e di questa austerità da poco conquistata. Cito di nuovo Clémence Ramnoux: «Il suo procedere caratteristico va e viene tra l’evento e il discorso. Egli non sa ancora operare la dissociazione tra l’evento inafferrabile e il discorso autonomo, e tanto meno lascia cadere il discorso. Vive nella lotta tra le parole e le cose, sforzandosi di comporre un discorso rassomigliante che non sia però un discorso di pura apparenza. Tale sarebbe la situazione dell’uomo tra le parole e le cose». Si tratta di un modo prudente di orientare la nostra lettura. Mi domando tuttavia se il consiglio che ci si dà, di cercare di cogliere questo andare e venire tra le parole e le cose, tra le cose e le parole, non ci esponga al rischio di interrompere il movimento e di stabilire tra ciò che è detto e ciò che è fatto una distanza che sarebbe opera nostra. È proprio vero che Eraclito vuole comporre un discorso rassomigliante? rassomigliante a che? E quest’idea di rassomiglianza – d’imitazione –, che ci mette nella scia platonica, non pone la parola in una condizione non solo subalterna ma irreversibilmente dipendente, e che autorizza solo lo scambio a senso unico, ben diverso dall’infaticabile reciprocità grazie alla quale i rapporti tra le cose e le parole e tra le parole e le cose – rapporti di opposizione e di differenza (ma del tipo «che si allontana e si riavvicina») – si pongono in modo tale che è sempre possibile un rovesciamento e che si può cominciare e finire ora con gli uni ora con gli altri?
Un medico dei tempi antichi rimproverava ad Empedocle di aver ricavato la sua concezione della composizione cosmica dalla composizione plastica. Critica molto sottile (anche se non è sicuro che già a quell’epoca l’arte della pittura possa introdurci in una estetica della rassomiglianza). Tuttavia tra Empedocle e colui che lo precede forse di una cinquantina d’anni c’è qualcosa di ben piú grande di una differenza di generazioni. A partire da Eraclito tutto cambia, perché con lui tutto comincia. In compenso potremmo esser tentati di dire che, se l’arte del dipingere ha permesso ad Empedocle di costruire il mondo, Eraclito invece trae dall’arte della parola le strutture che lo fanno entrare nella comprensione delle cose: prima di tutto l’idea di configurazione cangiante che, a detta di E. Benveniste, equivale al senso arcaico della parola ritmo; poi l’uso di una proporzione rigorosa, compresa in analogia con i rapporti minuziosamente calcolati delle parole e anche delle parti delle parole; e per finire, il mistero stesso del logos che, pur riassumendosi in lui piú di quanto sia possibile dire, trova tuttavia nel linguaggio scritturale il suo campo di elezione. Invitante prospettiva: che il rigore poetico abbia dato all’uomo la prima idea, forse insuperabile, del rigore naturale; che l’ordinamento delle parole sia stato il primo cosmo, il primo ordine, segreto, potente ed enigmatico, su cui l’uomo, in nome degli dei, ha inteso esercitare un dominio capace poi di estendersi ad altri campi; e che i primi fisici, uomini della physis in quanto uomini di questa nuova parola, abbiano inaugurato la prodigiosa novità del loro avvenire cominciando con la creazione di un linguaggio. Indubbiamente in questa prospettiva non c’è nulla che faccia un grave torto alla verità. Ma anch’essa arresta e congela il movimento.
L’oscurità e la chiarezza di Eraclito nascono dal fatto che egli ricava parole tanto dalle cose che dalle parole (per poi restituirgliele come capovolte), parla egli stesso tanto con le une che con le altre, e piú spesso si mantiene a mezza strada tra le une e le altre e parla – scrive – grazie all’intervallo, alla divergenza tra le due, ma senza immobilizzarlo, anzi dominandolo, proprio perché si orienta verso una differenza piú essenziale, verso una differenza che senza dubbio si manifesta nella distinzione troppo netta che noi, legati al dualismo tra anima e corpo, facciamo tra le parole e ciò che designano, ma non si esaurisce in essa. Indubbiamente egli è lontano – piú di chiunque altro – da ogni confusione primitiva, e nello stesso tempo, con l’attenzione dell’uomo a cui è affidato il sapere di ciò che è duplice, vigila sulla segreta alterità che governa la differenza (ma la governa preservandola dall’indifferenza in cui si annullerebbero tutte le opposizioni).
Cosí, sotto la sovranità della misteriosa Differenza, cose e nomi sono continuamente in condizione di reciprocità. A volte la cosa rappresenta il movimento verso la dispersione, mentre al nome è affidata l’unità (il fiume in cui ci bagniamo non è mai lo stesso fiume, tranne che per il nome che lo identifica). Altre volte il nome mette al plurale la cosa singola e il linguaggio, ben lungi dal raccogliere, disperde (il dio si chiama diversamente secondo la legge di ciascuno). A volte c’è una rigorosa discordanza tra nome e cosa (frammento 48: «l’arco ha per nome vita, per opera morte»); ma d’altra parte questo gioco di parole di tipo oracolare non mira a squalificare il linguaggio, anzi a stabilire, al di là dell’opposizione, il segreto rapporto dei contrari: «Vita e Morte sono Uno: esempio, l’arco»9. Ci accorgiamo con questa formula, probabilmente diffusa nei circoli eraclitei a mo’ di gioco (il primo gioco surrealista), che la parola non è isolata e chiusa nel linguaggio: anzi, il nome e l’opera appartengono entrambi al logos come luogo della differenza, sia nel loro accordarsi che nel loro divergere, ossia nella tensione della loro appartenenza perennemente reversibile (c’è come un senso al di là del senso). Vediamo anche che, nel suo affermarsi, l’irriducibile separazione tra la parola e la cosa non arresta, non separa, anzi raduna, giacché col significare se stessa costituisce un senso e accenna a ciò che altrimenti non comparirebbe: in questo caso, la coppia essenziale Vita-Morte, forse diretta verso l’Unità, forse già al di là di essa.
In fondo il linguaggio, ciò che per Eraclito parla essenzialmente nelle cose, nelle parole e nel passaggio contrastato o armonioso tra le une e le altre, insomma in tutto ciò che si nasconde e in tutto ciò che si mostra, è appunto la Differenza; essa è misteriosa in quanto differisce sempre da ciò che la esprime, è tale che tutto la dice e vi fa riferimento nel dire; eppure, sebbene tutto parli per causa sua, resta ineffabile.
I Greci piú antichi hanno intuito che questa differenza, in virtú della quale parliamo differendo di parlare, poteva coincidere con la dura, l’ammirevole necessità, in virtú della quale tutto si ordinava; a patto però che l’indifferenza iniziale, la diversità priva di direzione, di forma e di misura, fosse già ridotta ad una differenza prima ed orizzontale, ad una equiparazione del pro e del contro, ad una rigorosa messa in equazione delle diverse ragioni di agire cosí o altrimenti; e che quest’ultima fosse a sua volta rimessa in questione da una differenza preliminare, la differenza verticale rappresentata dal dualismo tra il divino e l’umano10. R. Schaerer ha espresso tutto ciò, ed in modo molto convincente, in un libro: L’homme antique. La bilancia d’oro dell’ottavo canto dell’Iliade è l’espressione di questa idea: siamo al momento culminante della scoperta occidentale. Zeus, deciso a mettere ordine nella guerra di Troia che porta dovunque il turbamento, riunisce gli dei e li esonera da ogni iniziativa personale (concentrando cosí in se stesso tutta la divinità). Poi sale sull’Ida e, da quel luogo elevato, sguardo immobile al sommo del mondo, non è piú che ascendenza e pura contemplazione. Dall’alba fino a mezzogiorno l’occhio divino acquista u...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La conversazione infinita
  3. Introduzione di Giovanni Bottiroli
  4. La conversazione infinita
  5. La parola plurale (parola di scrittura)
  6. L’esperienza-limite
  7. L’assenza di libro (il neutro e il frammentario)
  8. Il libro
  9. L’autore
  10. Dello stesso autore
  11. Copyright