Lettera al padre
  1. 104 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Informazioni su questo libro

Scritta nel 1919 e mai consegnata al destinatario, Lettera al padre ripercorre la storia di un rapporto assolutamente squilibrato tra un padre troppo forte e un figlio troppo debole. Una lotta impari. Da una parte c'è una figura che incarna l'autorità assoluta, distante e brutale, dall'altra un figlio pieno di paure, che desidera con tutto se stesso l'affetto del padre, ma che non ha il coraggio di conquistarselo. Cosí, in pagine di forte impatto emotivo, Kafka confessa la sua natura di figlio incompreso, insicuro e inadeguato, schiacciato dalla personalità di un uomo che ha l'aspetto enigmatico del tiranno. Uno spietato atto d'accusa, e insieme l'accorato appello di chi non può rinunciare alla speranza di una riconciliazione.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2015
Print ISBN
9788806221133
eBook ISBN
9788858417850
Argomento
Literature
Categoria
Classics

Lettera al padre

Schelesen1.
Carissimo papà,
recentemente mi hai chiesto perché sostengo di avere paura di te. Come al solito non ho saputo darti una risposta, in parte appunto per la paura che mi incuti, in parte perché a motivare questa paura concorrono troppi dettagli, piú di quanti potrei in qualche modo tenere insieme parlandone. E se ora tento di risponderti per lettera, sarà comunque in modo molto incompleto perché anche quando scrivo mi bloccano la paura e ciò che comporta, e piú in generale perché la vastità dell’argomento supera la mia memoria e la mia intelligenza.
A te la faccenda è sempre parsa molto semplice, per lo meno quando ne parlavi con me e, in maniera indiscriminata, al cospetto di altri. Grosso modo la presentavi cosí: hai sempre lavorato sodo, sacrificando tutto per i tuoi figli, e in particolare per me, di conseguenza io ho potuto «fare la bella vita», ho avuto la assoluta libertà di studiare ciò che volevo, non ho avuto la preoccupazione di guadagnarmi il pane, quindi non ho avuto preoccupazioni in generale; in cambio non hai mai preteso gratitudine, della «gratitudine dei figli» ne sai qualcosa2, ma almeno un minimo di disponibilità, un segno di simpatia; io invece di fronte a te sono sempre fuggito per rintanarmi nella mia camera, fra i miei libri, da amici bizzarri, in idee stravaganti; mai che ti abbia parlato apertamente, al tempio non mi mettevo vicino a te, non sono mai venuto a trovarti a Franzensbad3, anche per altri versi non ho mai avuto senso della famiglia4, non mi sono occupato del negozio e delle tue altre faccende, ti ho accollato la fabbrica5 e poi ti ho abbandonato6, ho appoggiato la testardaggine di Ottla7 e mentre per te non muovo un dito (nemmeno un biglietto per il teatro ti porto) per gli altri faccio qualsiasi cosa. Se riassumi il tuo giudizio sul mio conto, ne risulta che non mi rinfacci nulla di disdicevole, nessuna cattiveria esplicita (fatta eccezione forse per il mio ultimo progetto matrimoniale8), ma indifferenza, estraneità, ingratitudine. E in particolare me le rinfacci come se la colpa fosse mia, come se io con una sterzata avessi potuto disporre le cose in modo diverso, mentre tu non hai la minima colpa, se non quella di essere stato troppo buono con me.
Considero giusta questa tua ricorrente interpretazione solo nel senso che anch’io credo che tu non abbia alcuna colpa della nostra estraneità. Ma sono senza colpa anch’io. Se potessi indurti a riconoscerlo, allora sarebbe possibile non certo una nuova vita, per la quale siamo entrambi davvero troppo vecchi, ma una sorta di pace, non certo la fine ma almeno un’attenuazione dei tuoi continui rimproveri.
È strano, ma una qualche idea di ciò che intendo ce l’hai. Di recente ad es. mi hai detto: «Ti ho sempre voluto bene, anche se esteriormente non ero come sono soliti essere gli altri padri, proprio perché non so fingere come gli altri». Ora, papà, nel complesso io non ho mai dubitato della tua bontà nei miei confronti, ma considero sbagliata questa osservazione. Non sai fingere, è vero, ma affermare solo per questo che invece gli altri padri fingono è o una semplice prepotenza di cui è inutile discutere oppure – e penso che questa sia la realtà – una larvata espressione del fatto che fra di noi c’è qualcosa che non va e che tu ne sei corresponsabile, ma senza colpa. Se è questo che pensi davvero, allora siamo d’accordo.
Naturalmente non dico di essere diventato ciò che sono solo per via della tua influenza. Sarebbe davvero esagerato (e anzi io sono incline a questa esagerazione). Anche se fossi cresciuto senza subirla in alcun modo, non avrei forse comunque potuto soddisfare le tue aspettative. Probabilmente sarei in ogni caso stato gracile, timoroso, esitante, inquieto, né un Robert Kafka, né un Karl Hermann9, e tuttavia del tutto diverso da come in effetti sono, e noi due avremmo potuto andare d’amore e d’accordo. Sarei stato felice di averti come amico, come capo, come zio, come nonno, persino (anche se già con qualche esitazione) come suocero. Solo appunto come padre sei stato troppo forte per me, soprattutto perché i miei fratelli sono morti da piccoli10, le sorelle sono arrivate molto tempo dopo, e io ho dovuto quindi reggere da solo il primo impatto11, e per questo ero troppo debole.
Basta metterci a confronto: io, per dirla in estrema sintesi, un Löwy12 con un certo fondo kafkiano che tuttavia non è attivato dalla volontà di vivere, dal senso degli affari, dalla sete di conquiste dei Kafka, bensí da un pungolo löwiano13 che agisce in una direzione diversa, in modo piú riservato, timoroso, e che spesso viene a mancare del tutto. Tu invece un autentico Kafka per forza, salute, appetito, intensità della voce, eloquenza, autocompiacimento, senso di superiorità, tenacia, presenza di spirito, conoscenza degli uomini, per una certa generosità, e naturalmente anche per tutte le debolezze e tutti gli errori, tipici di questi pregi, in cui ti trascinano il temperamento e talvolta l’irascibilità. Se ti metto a confronto con zio Philipp, con Ludwig, con Heinrich14, non sei forse un vero Kafka secondo la tua generale concezione del mondo. È una cosa strana che neanche io capisco del tutto. In fondo nel complesso erano piú allegri, piú vivaci, piú disinvolti, piú spensierati, meno severi di te. (Da tale punto di vista peraltro da te ho ereditato molto e questa eredità l’ho amministrata fin troppo bene, senza però avere nella mia indole i necessari contrappesi che tu invece possiedi). In questo senso hai attraversato fasi diverse, forse eri piú allegro prima che i tuoi figli, io in particolare, ti deludessero e ti angustiassero fra le mura domestiche (in presenza di estranei eri diverso) e visto che i nipoti e il genero15 ti ridanno un po’ di quel calore che i figli, tranne Valli, non riuscivano a darti, forse adesso sei di nuovo piú allegro.
A ogni modo eravamo cosí diversi e in questa diversità cosí pericolosi l’uno per l’altro che se fosse stato possibile prevedere il reciproco comportamento del bambino che maturava piano, io, e dell’uomo fatto e finito, tu, si sarebbe potuto supporre che mi avresti semplicemente schiacciato, che di me non sarebbe rimasta traccia. Ma non è avvenuto, la vita non è prevedibile, però forse è avvenuto qualcosa di peggio16. Ma ti prego di non dimenticare che non ho mai, neanche alla lontana, pensato a una tua colpa. Hai influito su di me come dovevi influire, solo dovresti smetterla di considerare una mia particolare cattiveria il fatto che, subendo questa influenza, mi sia arreso.
Ero un bambino timoroso, ma ero senza dubbio anche cocciuto, come lo sono i bambini, senza dubbio la mamma mi viziava, ma non posso credere che fossi particolarmente poco docile, non posso credere che con una parola gentile, con uno sguardo benevolo, prendendomi tranquillamente per mano, non sarei stato indotto a concedere ciò che mi si chiedeva. Ora, tu sei in fondo una persona buona e tenera (quanto dirò in seguito non lo smentisce, perché parlo solo dell’impressione che facevi al bambino), ma non tutti i bambini hanno la costanza e il coraggio di cercare sino a quando non trovano la bontà. Tu sai trattare un bambino solo in base alla tua indole, con forza, chiasso e irascibilità, e nel caso specifico questo metodo ti sembrava inoltre molto adatto perché di me volevi fare un ragazzo forte e coraggioso.
Oggi non riesco naturalmente piú a descrivere in maniera diretta i tuoi metodi educativi nei primissimi anni, ma sono in grado di ricostruirli in qualche modo, desumendoli dagli anni successivi e da come tratti Felix. Come aggravante bisogna considerare che all’epoca eri piú giovane, dunque piú vigoroso, piú impetuoso, piú spontaneo, ancora piú incurante di oggi e inoltre tutto preso dal negozio, di giorno ti facevi vedere di rado, e tanto piú profonda era quindi l’impressione che quasi mai si appiattí nell’abitudine.
Dei primi anni ricordo un unico episodio in modo diretto, forse lo ricordi anche tu. Una notte non avevo fatto altro che piagnucolare per avere dell’acqua, non certo per la sete, ma verosimilmente un po’ per dare fastidio, un po’ per divertirmi. Dopo che alcune sostanziose minacce non erano servite, mi sollevasti dal letto, mi portasti sul ballatoio e per un po’ mi lasciasti lí in camicia da notte davanti alla porta chiusa. Non voglio dire che fosse un’ingiustizia, forse allora non c’era altro modo per ristabilire il riposo notturno, però voglio descrivere i tuoi metodi educativi e l’effetto che avevano su di me. All’epoca, sarò certo diventato ubbidiente, ma intanto ne avevo riportato un danno interiore. Per mia natura, non sono mai riuscito a mettere nella giusta relazione quell’assurdo, ma per me ovvio, chiedere-l’acqua, e il terrificante essere-portato-fuori. Anni dopo, mi angustiava ancora la tormentosa idea che quell’uomo gigantesco, mio padre, l’ultima istanza, quasi senza motivo potesse venire in piena notte per portarmi dal letto al ballatoio e che quindi io per lui potessi essere una tale nullità.
Quello fu solo un primo inizio, ma il sentimento di nullità che spesso mi sovrasta (un sentimento da un altro punto di vista anche nobile e fecondo) è per molti versi generato dalla tua influenza. Avrei avuto bisogno di un po’ di incoraggiamento, di un po’ di gentilezza, che qualcuno mi aprisse un po’ il cammino, mentre tu me lo sbarravi, anche se con la buona intenzione di farmene seguire uno diverso. Ma non ero portato per questo. Ad es. mi incoraggiavi quando marciavo e facevo bene il saluto militare, ma io non ero un futuro soldato, oppure mi incoraggiavi quando riuscivo a mangiare a sazietà e addirittura a bere birra, o quando riuscivo a ripetere canzoni che non capivo e a scimmiottare i tuoi modi di dire preferiti, ma niente di tutto ciò faceva parte del mio futuro. Ed è significativo che anche oggi in fondo mi incoraggi solo quando sei coinvolto anche tu, quando è in gioco il tuo orgoglio che io ferisco (ad es. con il mio progetto matrimoniale) o che viene ferito in me (ad es. quando Pepa17 mi insulta). Allora mi incoraggi, mi ricordi il mio valore, mi indichi i partiti ai quali potrei aspirare e Pepa viene condannato senza mezzi termini. Ma a prescindere dal fatto che alla mia età sono ormai quasi insensibile agli incoraggiamenti, a cosa potrebbero mai servirmi se si verificano solo quando non sono io al centro della questione?
Allora, e soprattutto allora, avrei avuto bisogno di incoraggiamento. Ero schiacciato già dalla tua sola presenza fisica. Ricordo ad es. le frequenti occasioni in cui ci siamo cambiati insieme nella stessa cabina. Io magro, debole, sottile, tu vigoroso, alto, grosso. Già nella cabina mi facevo pena e non solo al tuo cospetto, ma al cospetto del mondo intero, perché per me tu eri la misura di ogni cosa. Quando poi, uscendo ci mescolavamo alla gente, io, condotto per mano, uno scheletrino, i piedi scalzi incerti sull’assito, intimorito dall’acqua, incapace di imitare i movimenti del nuoto che tu, con le migliori intenzioni, ma in realtà con mia profonda vergogna, mi mostravi incessantemente, la mia disperazione era al culmine e in quei momenti tutte le mie peggiori esperienze in tutti gli ambiti si armonizzavano a meraviglia. La situazione in cui mi sentivo meglio era quando ti spogliavi per primo e io potevo stare solo nella cabina e rimandare la vergogna dell’uscita in pubblico sino al momento in cui venivi a controllare e mi facevi uscire18. Ti ero grato per il fatto che non sembravi notare la mia disperazione, e poi ero orgoglioso del corpo di mio padre. Del resto questa differenza tra noi due sussiste assai simile ancora oggi.
A tutto ciò corrispondeva poi anche il tuo potere spirituale. Avevi fatto tanta strada contando sulle tue sole forze, e di conseguenza avevi una fiducia illimitata nelle tue opinioni. Tutto sommato ne ho sofferto piú da giovane adolescente che non da bambino. Dalla tua poltrona governavi il mondo. La tua opinione era giusta, ogni altra assurda, stravagante, pazza, anormale. E la fiducia che avevi in te stesso era cosí grande che anche quando non eri coerente non smettevi di avere ragione. Capitava anche che su una certa questione non avessi nessuna opinione e allora tutte le opinioni possibili sul tema dovevano senza eccezione essere sbagliate. Potevi ad es. imprecare contro i cechi, poi contro i tedeschi, poi contro gli ebrei e non su alcuni aspetti specifici ma sotto ogni punto di vista e alla fine non si salvava nessuno, solo tu. Ti guadagnasti quell’enigmaticità che hanno tutti i tiranni il cui diritto è fondato sulla loro persona non sul pensiero. O almeno cosí mi pareva.
Il fatto è che in realtà con me avevi ragione con sorprendente frequenza: era scontato nelle occasioni in cui parlavamo, perché accadeva di rado, ma lo era anche nella realtà. Anche questo però era del tutto comprensibile. Perché tutti i miei pensieri subivano l’enorme pressione che tu esercitavi, anche quelli che non corrispondevano ai tuoi, anzi soprattutto quelli. Tutti questi pensieri all’apparenza indipendenti da te erano sin dal principio gravati del tuo giudizio sfavorevole; era pressoché impossibile sopportare questa situazione sino al momento in cui il pensiero era stato elaborato in modo compiuto e durevole. Non sto parlando di un qualche pensiero elevato, ma di qualsiasi piccola impresa infantile. Bastava essere felici, entusiasti di qualcosa, tornare a casa, parlarne, e la risposta era un sospiro ironico, una scrollata di testa, un tambureggiare con le dita sul tavolo: «Ho visto di meglio» oppure «Affari tuoi» oppure «Non starei tanto tranquillo» oppure «Che avvenimento!» oppure «Non vale una cicca!» Ovviamente non si poteva pretendere che tu, con i tuoi tormenti e le tue preoccupazioni, provassi entusiasmo per ogni bambocciata. E poi non si trattava di questo. Ma del fatto che a causa della tua indole portata ad accentuare i contrasti dovevi sempre e per principio infliggere queste delusioni al bambino, inoltre che con l’accumularsi del materiale questo contrasto via via si intensificava – tanto che alla fine si affacciava per abitudine anche quando una volta tanto eri della mia stessa opinione – e che, infine, queste delusioni del bambino non erano le consuete delusioni inflitte dalla vita, ma colpivano in profondità poiché provenivano da te che eri il metro di ogni cosa. Se tu eri contrario, o quando la tua ostilità poteva essere anche solo ipotizzata – e credo la si potesse ipotizzare per quasi tutto ciò che facevo – il coraggio, la decisione, la fiducia, la gioia per questa o quella cosa non resistevano sino in fondo.
Il tuo atteggiamento riguardava tanto i pensieri quanto gli esseri umani. Era sufficiente che mostrassi un minimo interesse per qualcuno – per mia indole non accadeva molto spesso – e senza alcun riguardo per ciò che sentivo e senza rispetto per il mio giudizio, tu ti intromettevi con insulti, diffamazioni, umiliazioni. Ne facevano le spese persone incolpevoli, infantili, come ad es. l’attore yiddish Löwy19. Senza nemmeno conoscerlo, lo paragonasti, con parole terrificanti che ho già dimenticato, a un insetto, e come spesso avveniva con persone alle quali volevo bene ti venne spontaneo usare il proverbio dei cani e delle pulci. Ricordo in special modo l’attore perché all’epoca annotai le tue invettive, aggiungendo: «Del mio amico (che nemmeno conosce) mio padre parla cosí solo perché è mio amico. Potrò sempre rinfacciarglielo quando mi rimprovererà l’assenza di gratitudine e di amore filiale20»21. Non sono mai riuscito a capire la tua totale mancanza di sensibilità per il dolore e la vergogna che potevi procurarmi con le parole e i giudizi, sembrava che tu non avessi la minima idea del tuo potere. Anch’io ti avrò certamente ferito spesso con le parole, ma ogni volta ne ero consapevole, mi dispiaceva ma non riuscivo a dominarmi, non riuscivo a trattenerle, me ne pentivo già mentre le pronunciavo. Tu invece con le tue parole colpivi alla cieca, non avevi compassione per nessuno, non durante, non dopo, in tua presenza si era completamente indifesi.
Ma cosí era tutto il tuo modo di educare. Hai, credo, la stoffa dell’educatore; a un individuo che ti somigli attraverso l’educazione saresti senza d...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Lettera al padre
  3. Hermann e Franz Kafka. Due carriere di Klaus Wagenbach
  4. Nota al testo di Enrico Ganni
  5. Lettera al padre
  6. Appendice
  7. Apprendista nel negozio di galanterie di Hermann Kafka di František X. Bašík
  8. Il libro
  9. L’autore
  10. Dello stesso autore
  11. Copyright