Foe
  1. 152 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Informazioni su questo libro

Un'isola che non riesce piú a evocare il fascino della mitica isola di Robinson Crusoe. Una naufraga tratta in salvo, Susan Barton, che si ostina a cercare uno scrittore capace di raccontare la sua vera storia e quella dei suoi due compagni. L'enigmatico Crusoe, che in quell'isola finisce i suoi giorni, e il suo schiavo Venerdí, cui qualcuno ha mozzato la lingua costringendolo al silenzio. Uno scrittore, Foe, chiamato a dare vita a quel mondo perché non cada nell'oblío, condannato a muta insignificanza.
Coetzee reinventa la vicenda di Robinson Crusoe puntando lo sguardo sulla narrazione, arte tirannica, mistificatoria, e però necessaria. L'unica salvezza nell'oscuro disegno della vita.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2015
Print ISBN
9788806186586
eBook ISBN
9788858420133

Parte seconda

15 aprile
«Ci siamo sistemati in Clock Lane, una traversa di Long Acre. Mi conoscono come la signora Cruso, un nome che dovreste tenere a mente. Ho una camera ammobiliata al secondo piano. Venerdí ha un letto in cantina, dove gli porto i pasti. Non avrei mai potuto abbandonarlo sull’isola. Tuttavia, una grande città non è posto per lui. La sua confusione e la sua pena mentre lo portavo in giro, sabato scorso, mi hanno stretto il cuore.
«Per l’alloggio di entrambi, sono cinque scellini alla settimana. Vi sarò grata di qualsiasi somma mi manderete.
«Ho messo per iscritto la vera storia del periodo trascorso sull’isola come meglio potevo, e la allego a questa lettera. È qualcosa di penoso, di zoppicante (la storia, non il periodo in sé) – “il giorno dopo”, è questo il ritornello, “il giorno dopo… il giorno dopo…” –, ma saprete voi come emendarla.
«Vi chiederete come mai abbia scelto proprio voi, dal momento che, una settimana fa, non sapevo neppure il vostro nome. Ammetto che quando vi ho visto per la prima volta ho pensato che foste un avvocato o un agente di Borsa. Ma poi una delle domestiche con cui lavoro mi ha detto che eravate il signor Foe, lo scrittore, che avete ascoltato molte confessioni e siete considerato un uomo assai discreto. Pioveva (ricordate?); vi eravate fermato sui gradini d’ingresso per allacciarvi il mantello, vi raggiunsi fuori e richiusi la porta. “Se permettete tanto ardire, signore, – dissi (furono queste le parole, parole ardite). Voi mi squadraste senza rispondere, e io pensai: Che arte è ascoltare le confessioni altrui? Il ragno ne ha altrettanta: guarda e aspetta. “Se mi concedete un istante del vostro tempo: sto cercando un’altra occupazione”. “Tutti cerchiamo un’altra occupazione”, avete ribattuto. “Ma io devo prendermi cura di un uomo, un negro che non potrà mai trovare un’occupazione, giacché ha perduto la lingua, – dissi. – Speravo che aveste un posto per me, e anche per lui, tra la vostra servitú”. I capelli erano ormai bagnati, non avevo neppure uno scialle. La tesa del vostro cappello grondava di pioggia. “Sono impiegata qui, ma in passato ho meritato di meglio, – proseguii. – Non avete mai udito una storia come la mia. Sono appena ritornata da un luogo molto lontano. Ho fatto naufragio su un’isola deserta. E lí mi sono ritrovata in compagnia di un uomo singolare”. Sorrisi, non a voi ma pensando a quanto stavo per dire. “Sono una figurazione della sorte, signor Foe. Sono la buona sorte nella quale sempre speriamo”.
«È stato sfrontato dire queste parole? È stato sfrontato sorridere? È stata la sfrontatezza a destare il vostro interesse?»
20 aprile
«Grazie delle tre ghinee. Ho comprato a Venerdí un farsetto di lana da carrettiere e una calzamaglia, anch’essa di lana. Se avete della biancheria che non vi serve, sarei lieta di accettarla. Venerdí indossa i vestiti senza battere ciglio, ma non porta ancora le scarpe.
«Non potreste accoglierci in casa vostra? Perché mi tenete a distanza? Non potreste assumere me come cameriera e Venerdí come giardiniere?
«Salgo le scale (è una casa alta, alta e ariosa, con molte rampe di scale) e busso alla porta. Voi sedete a un tavolo dandomi le spalle, una coperta sulle ginocchia, le pantofole ai piedi, con lo sguardo fisso sui campi, immerso nei vostri pensieri, e intanto vi accarezzate il mento con la penna, in attesa che io posi il vassoio e mi ritiri. Sul vassoio c’è un bicchiere di acqua calda in cui ho spremuto il succo di un limone e due fette di pane abbrustolito e imburrato. La chiamate “la prima colazione”.
«Nella stanza ci sono pochi mobili. La verità è che non è una stanza, ma una parte della soffitta in cui vi ritirate in cerca di silenzio. Il tavolo e la sedia si trovano su una pedana di legno davanti alla finestra. Dalla porta alla pedana c’è una passerella di assi. Se no, ci sono solo le assi del solaio, su cui si può camminare a proprio rischio e pericolo e le travi, e sopra la testa, le grigie tegole del tetto. Per terra c’è una spessa coltre di polvere; quando il vento si insinua a raffiche da sotto le gronde, si sollevano mulinelli di polvere e dagli angoli si leva un clamore di gemiti. Ci sono anche topi. Prima di scendere, siete costretto a riporre i fogli perché non li danneggino. Al mattino, dovete spazzar via gli escrementi dal tavolo.
«Nel vetro della finestra c’è un’incrinatura. Muovendo la testa, potete spostarla sulle mucche al pascolo, sulla terra arata che si stende dietro, sul filare di pioppi e in alto, nel cielo.
«Penso a voi come a un nocchiere che governa la gran mole della casa attraverso le notti e i giorni, scrutando davanti a sé in cerca dei presagi di tempesta.
«I fogli sono conservati in un baule accanto al tavolo. La storia dell’isola di Cruso finirà lí dentro, pagina dopo pagina, via via che la scrivete, assieme a un mucchio di altri fogli: il censimento dei mendicanti di Londra, documenti sulla mortalità ai tempi della grande peste, resoconti di viaggi nel paese limitrofo, rapporti su strane e stupefacenti apparizioni, dati sul commercio della lana, un memoriale sulla vita e le opinioni di Dickory Cronke (chi è?); e poi libri di traversate nel Nuovo Mondo, memorie sulla cattività tra i Mori, cronache delle guerre nei Paesi Bassi, confessioni di famigerati trasgressori della legge, e una moltitudine di racconti di naufraghi, quasi tutti, immagino, crivellati di menzogne.
«Quand’ero sull’isola, anelavo solo a essere altrove o, per usare le mie parole di allora, a essere “tratta in salvo”. Ma ora sento dentro di me un desiderio ardente che mai avrei pensato di provare. Chiudo gli occhi e la mia anima prende congedo da me, vola sopra le case e le strade, i boschi e i pascoli, per fare ritorno alla nostra casa di un tempo, mia e di Cruso. Voi non potete capire questo mio desiderio, dopo tutto ciò che ho detto sul tedio della nostra vita laggiú. Forse avrei dovuto dire di piú sul piacere di camminare scalza nella sabbia fresca del recinto, di piú sugli uccelli, i piccoli uccelli di molte specie di cui mai ho saputo il nome e che chiamavo “passeri” in mancanza di un nome migliore. Chi, se non Cruso, che non c’è piú, potrebbe narrarvi accuratamente la storia di Cruso? Avrei dovuto raccontare meno di lui e piú di me stessa. Come è accaduto, tanto per cominciare, che mia figlia si è perduta, e come, seguendola, sono giunta a Bahia? Come sono sopravvissuta tra stranieri in quei due lunghi anni? Ho vissuto soltanto in una camera ammobiliata, come ho detto? Bahia era un’isola nell’oceano della foresta brasiliana, e la mia camera un’isola desolata di Bahia? Chi era il capitano il cui destino ha voluto che andasse per sempre alla deriva nei mari estremi del Sud, in una veste di ghiaccio? Dall’isola di Cruso non ho riportato una penna, non un ditale di sabbia. Non ho altro che i sandali. Quando rifletto sulla mia storia, mi pare di esistere solo come colei che è giunta, colei che è stata testimone, colei che anelava ad andarsene: un essere senza consistenza, un fantasma accanto al corpo vero di Cruso. È dunque questo il destino di chi narra storie? Eppure sono stata un corpo quanto lo è stato Cruso. Mangiavo e bevevo, mi svegliavo e dormivo, mi struggevo. L’isola era di Cruso (ma in virtú di quale diritto? in virtú della legge dell’isola? esiste una legge simile?), ma ci ho vissuto anch’io, non ero un uccello di passaggio, non una sula o un albatro che, dopo aver compiuto un giro intorno all’isola e immerso un’ala, proseguono il loro volo sull’oceano sconfinato. Rendetemi la consistenza che ho perduto, signor Foe: è questa la mia supplica. Giacché, sebbene la mia storia dica il vero, essa non ha la consistenza del vero (me ne rendo conto, non c’è bisogno di fingere che sia altrimenti). Per dire la verità in tutta la sua consistenza è necessaria la quiete, una sedia comoda lontana da ogni distrazione e una finestra cui indugiare a guardare; e poi il talento di vedere onde quando si hanno davanti agli occhi campi, di sentire il sole dei tropici quando fa freddo; e di avere sulla punta delle dita le parole con cui catturare la visione prima che dilegui. Io non ho niente di tutto ciò, voi invece tutto».
21 aprile
«Nella lettera di ieri forse vi ho dato l’impressione di disprezzare l’arte della scrittura. Vi chiedo perdono, sono stata ingiusta. Credetemi, ci sono volte in cui, mentre penso a voi che faticate nella vostra soffitta per dare vita ai vostri ladri, cortigiane e granatieri, il mio cuore si riempie di pietà e io desidero soltanto esservi di aiuto. Penso a voi (vogliate scusare l’immagine) come a una bestia da soma, e alla vostra casa come a un grande carro che siete condannato a trainare, un carro pieno di tavoli e sedie e armadi, e per giunta una moglie (non so nemmeno se avete una moglie!) e figli ingrati e domestici fannulloni e gatti e cani, tutti che mangiano le vostre cibarie, bruciano il vostro carbone, sbadigliano e ridono, incuranti del vostro sudore. Al mattino presto, nel tepore del letto, mi sembra di udire lo strascichio dei vostri passi mentre, avvolto in una coperta, salite le scale fino in soffitta. Vi sedete, col respiro affannoso, accendete la lampada, chiudete per bene gli occhi e, a tentoni, cominciate a tornare là dove eravate la sera prima, nell’oscurità e nel gelo, nella pioggia, al di là dei campi in cui le pecore si accalcano le une contro le altre, al di là delle foreste, al di là dei mari, nelle Fiandre o là dove i vostri capitani e granatieri debbono cominciare a muoversi e iniziare anch’essi un nuovo giorno, mentre dagli angoli della soffitta i topi vi fissano facendo vibrare i baffi. Anche la domenica la vostra opera procede, come se interi reggimenti di fanti rischiassero di sprofondare in un sonno eterno, qualora non fossero quotidianamente risvegliati e chiamati all’azione. Malgrado il gelo, perseverate, avvolto in sciarpe, soffiandovi il naso, raschiando la gola e sputando. A volte siete cosí stremato che la luce della candela ondeggia davanti ai vostri occhi. Posate la testa sulle braccia e, un attimo dopo, già dormite, una riga nera attraversa il foglio nel punto in cui la penna vi è scivolata via dalla mano. La bocca è semiaperta, russate leggermente, avete l’odore (vogliate scusarmi un’altra volta) di un vecchio. Come vorrei potervi aiutare, signor Foe! Chiudendo gli occhi, raccolgo le forze ed evoco una visione dell’isola perché rimanga sospesa davanti a voi come un corpo che abbia una sua consistenza, con uccelli e pulci e pesci di tutte le sfumature, e lucertole che si crogiolano al sole facendo saettare la lingua nera, e scogli ricoperti di piccoli crostacei, e pioggia a tamburellare sulle fronde del tetto, e vento, vento incessante: affinché stia lí e voi possiate attingervi ogni volta che ne avete bisogno».
25 aprile
«Mi avete chiesto com’è possibile che Cruso non abbia recuperato nemmeno un moschetto dal relitto della nave; com’è possibile che un uomo cosí spaventato dai cannibali non abbia pensato di armarsi.
«Cruso non mi ha mai mostrato dove giaceva il relitto, ma è mia convinzione che si trovasse, e tuttora sia, negli abissi sotto le scogliere nel nord dell’isola. Quando la tempesta fu al culmine, Cruso si buttò in acqua con il giovane Venerdí al fianco, e forse altri marinai; ma soltanto loro due si salvarono, grazie a un’onda gigantesca che li sollevò e portò a riva. Ora mi chiedo: Chi è in grado di mantenere asciutta la polvere da sparo nel ventre di un’onda? E poi: Perché un uomo dovrebbe darsi da fare a recuperare un moschetto quando ha poca speranza di mettere in salvo la propria vita? Quanto ai cannibali, non sono persuasa, malgrado i timori di Cruso, che in quegli oceani ce ne siano. Potreste a buon diritto ribattere che, come non ci si aspetta di vedere squali danzare tra le onde, cosí non ci si deve aspettare di vedere cannibali danzare sulla spiaggia; i cannibali appartengono alla notte come gli squali agli abissi. Dico solo questo: Ciò che ho visto, l’ho scritto. Non ho visto cannibali; e se pure venivano dopo il calare delle tenebre e fuggivano prima dell’alba, non lasciavano impronte.
«Stanotte ho sognato la morte di Cruso e mi sono svegliata con le guance rigate di lacrime. Sono rimasta distesa a lungo, poiché il dolore non ne voleva sapere di andarsene dal mio cuore. Poi sono scesa e sono uscita nel cortiletto che affaccia su Clock Lane. Non era ancora giorno; il cielo era sereno. Sotto queste medesime stelle, cosí quiete, pensai, galleggia l’isola dove abbiamo vissuto; e su quell’isola c’è una capanna, e in quella capanna un giaciglio di erba soffice che forse porta ancora l’impronta, ogni giorno piú tenue, del mio corpo. Giorno dopo giorno, il vento tira via un po’ di tetto e le erbacce si insinuano nei terrazzi. Tra un anno, tra dieci anni, non resteranno altro che dei pali in cerchio a contrassegnare il luogo in cui un tempo c’era la capanna e, dei terrazzi, solo i muretti. E dei muretti si dirà: Sono muretti edificati dai cannibali, le rovine di una città di cannibali, della loro età aurea. Giacché, chi crederà mai che sono stati costruiti da un unico uomo e dal suo schiavo, nella speranza che un giorno arrivasse un navigatore con un sacco di sementi?
«Avete osservato che sarebbe stato meglio se Cruso avesse recuperato non solo il moschetto, la polvere da sparo e i proiettili, ma anche una cassetta con gli attrezzi da falegname in modo da costruirsi una barca. Non per essere capziosa, ma vivevamo su un’isola cosí flagellata dal vento che non c’era un solo albero che non crescesse curvo e ritorto su se stesso. Avremmo potuto costruire una zattera, una zattera sghemba, ma giammai una barca.
«Mi avete anche chiesto degli indumenti di pelli di scimmia che portava Cruso. Sono stati, ahimè, prelevati dalla nostra cabina e gettati in acqua da marinai ignari. Se lo desiderate, farò degli schizzi di noi due sull’isola con indosso quegli indumenti.
«La blusa e i larghi pantaloni da marinaio che indossavo a bordo della nave li ho dati a Venerdí. Inoltre, ha un farsetto e un pastrano. La cantina affaccia sul cortile, cosí è libero di andare e venire come gli garba. Ma, spaventato com’è, esce di rado. In che modo occupi il tempo, proprio non lo so, poiché la cantina, a parte la branda, il barile del carbone e alcuni mobili rotti, è spoglia.
«Eppure, la notizia che in Clock Lane c’è un cannibale si è naturalmente diffusa, giacché ieri ho trovato tre ragazzini davanti alla porta della cantina intenti a sbirciare Venerdí. Li ho scacciati, ma si sono fermati in fondo al vicolo continuando a ripetere la stessa cantilena: “O cannibale Venerdí, hai mangiato mamma oggidí?”
«Venerdí invecchia anzitempo, come un cane che sia stato rinchiuso per tutta la vita. Anch’io sono diventata vecchia, a furia di vivere con un vecchio e di dormire nel suo letto. Ci sono volte in cui penso a me stessa come a una vedova. Se in Brasile avesse lasciato una moglie, adesso saremmo sorelle, in un certo senso.
«Due mattine alla settimana posso usare il retrocucina e sto insegnando a Venerdí a fare il bucato, perché, altrimenti, il non far niente lo distruggerebbe. Lo metto davanti all’acquaio con indosso i suoi vestiti da marinaio, i piedi come sempre scalzi sul pavimento freddo (non vuole portare le scarpe). “Guardami, Venerdí!” dico, e comincio a insaponare una camiciola (ho dovuto spiegargli cos’è il sapone, nella sua vita di prima non era contemplato, sull’isola usavamo cenere o sabbia) e a strofinarla sull’asse. “Ora fallo tu, Venerdí!” dico, e mi tiro da parte. Guarda e fallo: le due principali parole che uso con Venerdí, e con esse ottengo molto. È un salto terribile, lo so, dopo la libertà dell’isola, dove, quando non doveva lavorare sui terrazzi, poteva andarsene in giro tutto il giorno, a caccia di uccelli, a pesca. Ma è certo meglio imparare a svolgere mestieri utili che starsene tutto il giorno in cantina, rimuginando chissà quali pensieri.
«Cruso non gli ha insegnato nulla perché, diceva, Venerdí non aveva bisogno di parole. Ma si sbagliava. La vita sull’isola, prima del mio arrivo, sarebbe stata meno tediosa, se Cruso avesse insegnato a Venerdí a capire ciò che intendeva e avesse escogitato qualcosa che permettesse a Venerdí di esprimere quel che intendeva lui, come, per esempio, gesticolando o disponendo sassi in forma di parole. Cosí Cruso avrebbe forse potuto parlare con Venerdí a modo suo e Venerdí rispondere a modo suo, e ingannare in questa maniera molte ore vuote. Giacché non posso credere che la vita di Venerdí, prima di cadere nelle mani di Cruso, fosse priva di interesse, anche se non era che un bambino. Cosa non darei per sapere la verità su come è stato catturato dai mercanti di schiavi e ha perduto la lingua.
«Gli piacciono molto i fiocchi d’avena, e in un solo giorno è capace di ingollare tanto porridge da nutrire una dozzina di scozzesi. A furia di mangiare e di starsene a letto, si sta inebetendo. Vedendolo con la pancia tesa come un tamburo e gli stinchi magri e quell’aria svogliata, non si direbbe lo stesso uomo che solo qualche mese fa se ne stava in equilibrio sugli scogli, con gli spruzzi del mare a danzargli intorno, le membra lucenti sotto il sole, la fiocina puntata, pronta a colpire fulminea un pesce.
«Mentre lavora, io gli insegno i nomi delle cose. Alzo un cucchiaio e dico: “Cucchiaio, Venerdí!” e glielo porgo. Poi dico: “Cucchiaio!” e tendo la mano per riprenderlo; cosí facendo, spero che presto la parola cucchiaio riecheggi nella sua mente, lo voglia o meno, ogni qual volta i suoi occhi si poseranno su un cucchiaio.
«Ciò che piú temo è che, dopo anni passati senza parlare, abbia perduto la nozione stessa di linguaggio. Quando prendo il cucchiaio dalla sua mano (ma per lui è proprio un cucchiaio, o solo una cosa? Non lo so) e dico: “Cucchiaio”, come posso essere sicura che non pensi che blatero da sola, non diversamente da una gazza o da una scimmia, per il piacere di udire il suono che emetto e di sentire la mia lingua muoversi giocosa, come egli traeva piacere nel suonare il flauto? E mentre è possibile prendere un bambino un po’ tardo e torcergli un braccio o tirargli le orecchie finché non ripete dopo di noi: “Cucchiaio”, cosa posso fare io con Venerdí? “Cucchiaio, Venerdí!” dico; “Forchetta! Coltello!” Penso alla radice della lingua rintanata dietro quelle labbra carnose, simile a un rospo in un inverno perenne, e rabbrividisco. “Scopa, Venerdí!” dico, e, mettendogli in mano la scopa, faccio il gesto di spazzare.
«Oppure entro nel retrocucina con un libro. “Questo è un libro, Venerdí, – dico. – È una storia scritta dal celeberrimo signor Foe. Tu non lo conosci, ma in questo istante è impegnato a scriverne un’altra, e cioè la tua storia, quella del tuo padrone e la mia. Il signor Foe non ti ha mai incontrato, ma sa chi sei da quello che gli ho raccontato io usando le parole. Fa parte della magia delle parole. Per mezzo delle parole, ho fornito al signor Foe particolari su te, il signor Cruso, il mio anno sull’isola, e anche sugli anni che tu e il signor Cruso avete passato lí da soli, per quanto mi è dato sapere; e tutti questi particolari il signor Foe li sta intessendo in una storia che ci renderà famosi in tutto il paese, e pure ricchi. Non dovrai piú vivere in una cantina. Avrai denaro, grazie al quale potrai fare ritorno in Africa o in Brasile, come ti garba, portando con te dei bei doni, e potrai riunirti ai tuoi genitori, se ancora si ricordano di te, e infine sposarti e avere dei figli, maschi e femmine. E io ti darò la...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Foe
  3. Parte prima
  4. Parte seconda
  5. Parte terza
  6. Parte quarta
  7. Il libro
  8. L’autore
  9. Dello stesso autore
  10. Copyright