Giugno 1977, le tre di un pomeriggio afoso. La ragazza scese dall’autobus vuoto e si guardò attorno con diffidenza; il sole picchiava sul cemento e sulle saracinesche abbassate della città vuota. Era aperto solo un bar con dentro due o tre persone. Tutte voci maschili, notò, meglio aspettare fuori, del resto l’appuntamento era davanti alla fermata. Scelse l’angolo d’ombra piú accogliente, a parte quello già occupato dall’unico altro essere umano in strada; si mise di spalle per non doverne ricambiare lo sguardo. Che stupida, accettare a occhi chiusi, solo sulla fiducia, che mi è preso?, si diceva, e dava la colpa al padre, ai divieti ottusi che le facevano dire subito sí a tutto ciò che le era proibito, prima di chiedersi se lo voleva davvero.
– Dunque sei tu miss trenta e lode? – chiese una voce divertita. Il ragazzo uscito dal ritaglio di ombra sorrise scoprendo denti bianchi e grandi, con una loro sensuale stortezza.
– E tu sei…?
– Che ti offro?
Lo seguí dentro il bar. Non era alto, e lei poco piú bassa. I riccioli sottili sulla nuca sembravano quelli di un bambino, aveva dita ossute e lunghe, in una mano teneva il pacchetto di sigarette e nell’altra ne stringeva una accesa.
– Per me whisky, per la signorina quello che vuole, – ordinò Giovanni, e subito si accorse di strafare; il dovere di impressionarla lo rendeva spavaldo. Lei ordinò un caffè freddo che il barista macchiò di granita e panna.
– Non sarai a dieta? – chiese Giovanni vedendola fare una smorfia di disapprovazione.
Si era già invaghito delle mezzelune color nocciola nascoste dietro occhiali troppo grandi, delle cosce morbide soffocate in jeans troppo stretti, leggermente svasati e con la piega stirata.
– Com’è che sono tutti innamorati di te?
– Che ne sai? Non mi pare che ci stai molto, in facoltà.
La carta della simpatia non funzionava, la ragazza non sembrava abituata ai complimenti. Giovanni attaccò un monologo su come s’era perso, una sessione dopo l’altra. Parlò dell’appartamento in affitto, del successo della manifestazione contro il ponte sullo Stretto, fece il nome di Gipo vantandosi della sua amicizia. Finí il whisky prima che lei finisse il caffè e anche tutta la panna. Parlava e parlava e lei non lo interrompeva, al massimo ogni tanto girava il cucchiaino facendolo tintinnare contro il bicchiere vuoto. Non capiva se la stava annoiando o scioccando, e piú lei stava zitta piú lui esagerava. Tirò fuori la storia che una volta aveva organizzato una rapina a sfondo politico a un benzinaio; omise che il benzinaio, compagno e consenziente, aveva tirato fuori una cifra simbolica e la cosa era finita subito. Invece raccontò pomposamente che si era trattato di un esproprio proletario e che i soldi estorti erano andati a un doposcuola pomeridiano per i figli degli operai. Si fermò per spiare la reazione della ragazza, che strinse la borsa sulle ginocchia. Era solo il gesto impacciato di chi non sapeva dove mettere le mani, ma Giovanni, agitato dal whisky, si figurò che temesse uno scippo. – Mica sono un ladro per davvero, mio padre è l’avvocato Santatorre, – precisò. Lei spalancò gli occhi e scoppiò a ridere: – «Lei non sa chi sono io»? E tu saresti il compagno piú a sinistra di tutti? – Cosí Giovanni passò il primo degli esami che lo separavano dalla laurea: quello di Aurora.
Cominciarono a prepararsi per la sessione autunnale. Il gruppo di studio andava riducendosi, qualcuno era partito per girare l’Europa in treno o in macchina, altri si erano spostati nella casa estiva dei genitori. Giovanni e Aurora si ritrovarono soli nella malinconica estate di città. A casa di Giovanni oppure nello studio dell’avvocato, dopo l’orario di chiusura, studiavano e si interrogavano a vicenda, riempivano di cicche portacenere improvvisati, si ubriacavano al pomeriggio, mischiavano i baci con i libri, si imponevano orari e scadenze e ogni tanto si fermavano, stanchi e soddisfatti, per barattare solitudini e ricordi d’infanzia. Si confrontavano sulle rispettive esperienze politiche. Aurora frequentava il Partito di Unità Proletaria per il Comunismo, nato dall’unione di PdUP e «il manifesto», dove erano confluiti molti fuoriusciti dal Pci. Giovanni invece era di nuovo solo, senza un partito da cui sentirsi rappresentato.
Nello studio, sulla scrivania dell’avvocato, c’era un mappamondo stellare. Giovanni lo ruotò.
– Sapevi che Sirio in realtà è due stelle?
– No. Riprendiamo dal capitolo dell’altra volta?
– Un sistema binario, sono due ma sembrano una. Vorrei chiamare mio figlio Sirio.
– Vuoi un figlio?
– Una figlia, veramente. Una piccola, deliziosa figlia dell’Aurora.
– Com’è che tuo padre lo tiene sulla scrivania? Ecco da chi hai ereditato questa mania per le stelle.
– No, a lui piacciono i mappacieli, a me i cieli. C’è differenza. Sai che per vedere il cielo piú bello della Sicilia bisogna salire sul vulcano di Stromboli? Ci sei mai stata?
– No.
– Tuo padre ti ha portata a Predappio e non alle Eolie?
Aurora gli aveva raccontato che un’estate il fascistissimo aveva stipato la famiglia in una roulotte e guidato fino in Romagna per portarli a un raduno, dove c’era anche Donna Rachele. Voleva che benedicesse i suoi figli, come un secondo battesimo. La vedova Mussolini li aveva stretti e baciati, parlando veloce con quel suo accento romagnolo sotto gli occhi orgogliosi del fascistissimo. I bambini, spossati dal viaggio, simulavano la devozione che ci si aspettava da loro. E poi, cos’altro ti ricordi?, aveva insistito Giovanni, e Aurora: una sensazione di solletico e saliva, una peluria bianca sul mento… Stai dicendo che la moglie del duce aveva la barba?, e insieme avevano riso.
– Ci andiamo, a Stromboli. Fidati, lo trovo io il modo di convincere tuo padre.
A fine agosto Giovanni si presentò a casa Silini con un mazzo di fiori e una giacca fresca di tintoria. Era giorno di scirocco, la camicia gli si appiccicava sul torace ma l’ansia di fare bella figura non gli avrebbe mai permesso di vestirsi in modo meno consono. La madre di Aurora serví il caffè in tazzine di porcellana che tirò fuori da una vetrina, un gesto evidentemente non quotidiano. Una era sbeccata, e Giovanni pensò che se sua madre fosse stata lí avrebbe avuto da ridire. Il fascistissimo, intanto, lo sottoponeva a domande mirate: che rapporto aveva con i genitori, quali progetti dopo gli studi, i motivi per cui non aveva voluto diventare avvocato come da tradizione familiare. Giovanni rispondeva con eleganza e spesso era sincero, qualche volta si compiaceva di stupire, quasi sempre di sedurre. Rosa, la piú piccola dei Silini, lo osservava incuriosita mentre gli altri ostentavano d’ignorarlo.
Il fascistissimo impiegò il tempo di un caffè per capire: Giovanni era brillante, intelligente, di ottima famiglia. Marxista-leninista o quello che era poco importava, gli eccessi a quell’età erano normali, anzi: dimostravano carattere. Meglio lui che uno smidollato, con la gente che c’era in giro si poteva ritenere soddisfatto. E poi, con il matrimonio, il ragazzo si sarebbe tranquillizzato. Lo invitò una seconda volta con i genitori e poi una terza, infine gli accordò il permesso di partire con la figlia, a patto che entrambi superassero a pieni voti la sessione autunnale; il fascistissimo aggiunse quella clausola ben sapendo che si trattava di un falso ostacolo. Dentro di sé faceva conto di aver già maritato Aurora. Se fosse tornata incinta, ancora meglio: i tempi per il matrimonio sarebbero stati maturi, senza bisogno di aspettare fino alla laurea. Giovanni era un bravo ragazzo, non si sarebbe mai tirato indietro. E il fascistissimo un po’ di fretta ce l’aveva, con sei figli da sistemare. Sulla secondogenita non aveva mai proiettato grandi sogni; Giovanni rappresentava una conquista oltre le aspettative per quella ragazza cocciuta (certo non dolce e bella come la piccola, gli si strinse il cuore pensando a quando sarebbe toccato a lei andar via). Osservandola durante l’ultimo anno di scuola, si era convinto che Aurora sarebbe rimasta zitella, ecco perché aveva chiuso un occhio quando all’università aveva iniziato a passare del tempo fuori, con i coetanei. Non si era sbagliato, si complimentò con sé stesso, non si sbagliava mai.
Aurora era sbalordita. Per forzare la gabbia, era bastato un mazzo di fiori in omaggio nel pomeriggio giusto. Oppure la dialettica di Giovanni era davvero irresistibile, non solo per lei. Dov’erano finiti i divieti della sua infanzia? Si aspettava di essere costretta a urlare, a prendersi con la forza quello che desiderava. Aveva fantasticato di dover fuggire con il suo innamorato. La reazione del padre la confuse, ma decise di approfittarne. Si impegnò per passare al meglio la sessione di settembre.
Studiare insieme funzionò: trenta e lode per Aurora e un sospirato ventotto per Giovanni, il primo voto soddisfacente della sua carriera. L’indomani presero l’aliscafo lasciandosi alle spalle libri e libretto e arrivarono a Stromboli già sfiniti di baci; si stuzzicavano, si accarezzavano, si fermavano in spiaggia a discutere con i pescatori. Si arrampicarono sul vulcano per distendersi sotto un cielo di stelle fitte mentre i crateri sputavano lava. La mattina dopo ripartirono per non perdere i tre giorni del Convegno contro la repressione, presero di nuovo l’aliscafo, passarono la notte in treno e infine, stupiti e storditi, arrivarono a Bologna insieme a centomila altri.
Alla stazione c’era Gipo ad aspettarli, con le spalle appoggiate al muro, intento a leggere i giornali. Appena lo vide Giovanni fu assalito dai sensi di colpa, si vergognò del suo sorriso leggero, della sua abbronzatura inopportuna. Se a distanza poteva raccontargli di essere stato preso dallo studio, adesso era lí con Aurora, la sua vera e lampante distrazione.
Dentro il Palasport c’erano tutti, gli autonomi, il collettivo di via dei Volsci, gli ultimi indiani metropolitani. Migliaia di persone, centinaia di slogan. La romantica solitudine appena trascorsa all’ombra del vulcano sembrò fuori luogo anche ad Aurora. Ogni sera continuavano a dibattere nella cucina di Gipo, finché la prima luce del mattino non arrivava a illuminare i portacenere pieni, le bottiglie svuotate.
Due mesi dopo, a Messina, Aurora si ritrovò a vomitare dentro al bagno, il suo antico rifugio; stavolta però sotto la maglia non nascondeva i libri di latino ma pantaloni col primo bottone slacciato. Che le ore trascorse in gabinetto non dipendessero da una colite il fascistissimo lo capí subito, come anni prima aveva capito che Aurora usava il bagno per conquistarsi i nove in pagella. Ora bisognava solo sistemare tutto nei tempi giusti. Prese da parte Giovanni, lo guardò con la sua espressione piú terribile e gli ordinò di sposare sua figlia. Lui non aspettava altro. Il giorno dopo Giovanni e Aurora si guardarono con la faccia incredula di due bambini che, invece di essere puniti, sono stati premiati per una monelleria.
A Bologna Giovanni aveva conosciuto Peter, un ragazzo tedesco sposato con un’italiana. Vivevano a Berlino Ovest e Gipo li aveva invitati a partecipare al Convegno, convinto che il movimento italiano, agonizzante, potesse trarre forza da un’apertura internazionale. Avevano parlato della Raf e del sequestro di Hanns-Martin Schleyer; se Gipo e Giovanni vedevano in quell’industriale cristianodemocratico l’emblema del capitalismo occidentale, Peter si riferiva a lui semplicemente come Nazischwein, porco nazista. Importava solo che a vent’anni si fosse arruolato nelle Ss, le sue scelte successive non erano che la logica conseguenza di quel destino: rapirlo era stato piú che necessario e i compagni della Raf non avrebbero dovuto cedere su nessuna condizione. Quando il corpo di Schleyer fu ritrovato, Giovanni ripensò alle discussioni con Peter; allora l’indifferenza del suo amico lo aveva turbato, aveva cercato di rimuoverla. Adesso, però, si scoprí piú indulgente nei suoi confronti. Forse non bisognava temere gesti estremi. «Dobbiamo andare fino in fondo, proprio adesso che non si va piú da nessuna parte», gli aveva scritto Gipo nell’ultima lettera. Giovanni sentiva che il mondo lo ignorava, mentre era distratto dal matrimonio e dalla pancia di Aurora. Walter Rossi di Lotta Continua era stato ammazzato a Roma durante un volantinaggio antifascista; in risposta, il giorno dopo c’era stato un corteo a Torino dove, nell’attacco a un bar considerato fascista e borghese, era morto uno studente lavoratore. In Germania, tre capi della Raf erano stati trovati morti in carcere. Intanto le urgenze quotidiane di Giovanni erano di tutt’altro segno: accompagnare Aurora dalla ginecologa, fare tappezzeria agli incontri fra Santatorre e Silini che si accordavano su come dividere le spese del matrimonio e quelle dei mesi successivi, quando sarebbe arrivato il bambino. Giovanni si sentiva lontano dalle discussioni familiari ma ancora di piú, e con maggiore amarezza, dai fatti di cronaca. Non aveva soldi suoi, quelli che gli davano i genitori sarebbero serviti a mantenere la nuova famiglia. Aurora invece sembrava a suo agio nella nuova vita. Studiava ai soliti ritmi. Continuava a frequentare il vecchio gruppo del PdUP e aveva stretto i rapporti con alcune femministe. Partecipava a un gruppo di autocoscienza, la gravidanza la faceva sentire naturalmente emancipata, invincibile. Ottenne dal fascistissimo di sposare Giovanni con rito civile e non religioso. Era un punto su cui non aveva voluto sentire ragioni, guidata da una coerenza punitiva verso la propria infanzia cattolica. – Sei sicura? – insisté Giovanni, da sempre ateo senza troppi problemi. Aurora era sicura. Non aveva voglia di fingere. Invece a lui celebrare in chiesa non sarebbe pesato: il matrimonio ai suoi occhi si svuotava di senso ogni giorno di piú, tanto valeva recitare fino in fondo. Guardandosi intorno non trovava un modello. Non voleva che la sua nuova famiglia somigliasse a quella da cui veniva né a quella da cui veniva Aurora. A Bologna, Gipo si era separato dalla moglie; forse era vero che il matrimonio era una tomba borghese. Eppure a volte pensava di poter sopravvivere solo con Aurora vicino, insieme potevano farcela. Un figlio avrebbe dato a entrambi la forza di cambiare il mondo, di questo Giovanni era certo. Di notte combatteva la vecchia insonnia rintanato nel soppalco, lo sguardo fisso al soffitto, mentre dalla radio i Clash gli facevano compagnia.
Gipo tornò in città e incontrò Giovanni nello stesso bar dove Giovanni e Aurora si erano conosciuti, solo che ora la tramontana si portava dietro un’aria lucida e fredda. Gipo sedette senza togliersi il cappotto, era sintetico e stranamente diretto. Disse che non potevano piú aspettare, che avevano sempre parlato di rivoluzione ed era venuto il momento di farla. Fino a quel giorno aveva usato toni allusivi per riferirsi alle azi...