Per realizzare questa intervista lunga sul «biennio fatale», quello tra il 1943-45, abbiamo scelto una persona per la quale la guerra abbia rappresentato un’esperienza forte. In verità, questo è molto facile: è probabilmente impossibile trovare una persona che abbia vissuto un’esperienza così devastante come la guerra in maniera distaccata.
Abbiamo trovato, naturalmente, la parzialità inevitabile di un punto di vista, ma è una parzialità consapevole, mai retorica, sempre appassionata. Un punto di vista empatico, ma nello stesso tempo razionale. E soprattutto con nessuna pretesa universalistica; nonostante tutto. Giampaolo Pansa è infatti, con Montanelli, Bocca, Biagi e Scalfari, uno dei più famosi e apprezzati giornalisti italiani. Ma è anche uno studioso e un appassionato, proprio perché segnato in maniera indelebile dal periodo che riguarda la Seconda guerra mondiale, la Resistenza, il dopoguerra. Ecco il suo racconto.
Avere otto anni nel ’43 significava guardare alla guerra con gli occhi di un bambino che la considerava ancora una specie di duello tra personaggi di fumetti o di grandi avventure. Una sorta di grande torneo tra entità che lui non conosceva.
Però significava già, per esempio, capire che soprattutto dalla fine del ’43 la guerra stava diventando cattiva e si stava avvicinando alle case, anche al posto in cui vivevo io bambino. Significava vedere la mamma, la nonna, le zie molto preoccupate per la sorte degli uomini «anziani» della famiglia, ossia gli uomini tra i venti e i quarant’anni per me anziani, in realtà giovani. E poi ha voluto dire iniziare ad avere paura dei bombardamenti, che nella mia zona sono cominciati nell’aprile-maggio 1944. E rendersi conto che quella guerra era una carneficina dove la gente si ammazzava per davvero. Non come nei film, o nei fumetti, oppure nei romanzi d’avventura.
E infatti il ricordo più violento che ho di quella fase, prima della Liberazione, è quando nel gennaio del ’45 ho visto passare un gruppo di partigiani catturati grazie a una spiata, in una cascina a quattordici-quindici chilometri da Casale Monferrato. I partigiani erano stati presi di notte e i fascisti li avevano legati l’uno all’altro con catene da buoi. Poi, senza scarpe, li avevano costretti a marciare nella neve fino a Casale e a sfilare per il centro della città, a piedi nudi perché tutti li vedessero. Poi l’indomani mattina li hanno fucilati al poligono di tiro. È stato quello il momento in cui mi sono reso conto da bambino di che cosa poteva significare la guerra.
Fra questi ragazzi c’era un garzone di panettiere che faceva la corte a una commessa di mia madre, prima che cominciasse la fase più dura della guerra. E, siccome mia madre non voleva in negozio corteggiatori delle sue due commesse, il giovanotto, per ingraziarsela, mi aveva fatto le case del presepio con dei pezzi di sughero e le aveva dipinte con i colori dell’acquerello. Quando l’ho visto passare era irriconoscibile, per le botte che aveva preso. Mia madre piangeva, urlava e allora ho compreso che la guerra poteva veramente entrare dentro la casa di chiunque.
In famiglia l’armistizio dell’8 settembre è stato vissuto con un senso di grandissima liberazione e non si è mai posto il problema del «passaggio di fronte» dell’Italia. La mia era una famiglia «rossa», politicamente orientata, non soltanto antifascista, dove tutti erano schierati per una parte sola, dal momento che erano socialisti o comunisti. A cominciare dalle donne di casa, erano persone che davano dei giudizi molto semplici ma anche molto chiari sulla situazione politica.
L’8 settembre finalmente l’Italia usciva dalla guerra, smetteva di collaborare con i fascisti e con i tedeschi e poteva credere che «forse, può darsi che la pace arrivi prima di quando speriamo». In realtà non è stato così perché la pace è arrivata soltanto venti mesi dopo. Però l’armistizio è stato vissuto come un momento di grande gioia perché è sembrato che la guerra finisse.
Casale Monferrato, la città in cui abitavo io, era una città abbastanza grande, di quarantamila abitanti. Tranne i fascisti che, naturalmente, si mordevano le mani per la rabbia, la grandissima maggioranza della popolazione era stanca della guerra. Stanca di veder arrivare gli aerei che bombardavano e di leggere sui giornali locali i necrologi del numero infinito di ragazzi che morivano su una grande quantità di fronti. Quindi, ha accolto l’8 settembre come una grandissima liberazione.
C’è un episodio che per me rappresenta in maniera emblematica l’atteggiamento comune degli italiani e soprattutto delle donne di quel tempo. Nella nostra città uscivano due giornali: la «Vita casalese», settimanale della Curia, e «Il Monferrato» che, durante la Repubblica sociale, aveva preso un altro nome. Quest’ultimo, quattro pagine di cui tre di propaganda, dedicava una pagina intera ai necrologi dei soldati morti. Era la pagina più vera e la più letta. Certo, molte famiglie erano così povere e straziate dal lutto che non pensavano a far pubblicare necrologi, ma alcune lo facevano e venivano stampati accanto all’elenco dei caduti della città.
Queste notizie, questi nomi e cognomi, le età, i paesi di provenienza, le professioni letti su un giornale di una grande città come Roma e Torino, facevano certo impressione, ma sino a un certo punto. Lette in una città di quarantamila abitanti l’effetto era terribile. Sembrava che fosse morto un parente di tutti, perché tutti si conoscevano e tutti identificavano il defunto nel figlio del tal professore, o nel giovane dottore sposato da poco e mandato a fare l’ufficiale medico in Africa settentrionale. Oppure nel ragazzo che aveva voluto fare il marinaio ed era morto dentro un sommergibile affondato.
Prima dell’8 settembre, c’era stato lo sbarco in Sicilia. Anche a Casale se ne parlava tantissimo. Intanto c’era la radio, strumento fondamentale. Anche chi non si collegava con Radio Londra (ascoltata da tantissima gente e sia pure di nascosto) o Radio Mosca, ascoltava i giornali radio della radio italiana. Poi, naturalmente, c’erano i giornali. La gente seguiva l’andamento della guerra minuto dopo minuto.
I notiziari spesso riferivano che lo sbarco in Sicilia era stato arginato con vigore, parlavano di perdite gravi degli Alleati, ma la gente ci credeva sino a un certo punto. La verità è che comunque le grandi linee dello sviluppo della guerra non potevano essere nascoste, si sapeva tutto. E poi c’erano i soldati che tornavano e parlavano, raccontavano la realtà.
Un esempio. La catastrofe delle divisioni italiane in Unione Sovietica con la rotta del Don, con la rottura del fronte nel gennaio 1943, veniva seguita minuto per minuto, ora per ora, giorno per giorno dalle persone. Poi, quando sono cominciati a tornare in Italia quelli che si erano salvati, i racconti si sono diffusi. E così la gente conosceva tutto e aveva una sola idea ben chiara in testa: «Questa guerra deve finire». Tutti ormai si erano convinti che la guerra l’avrebbero vinta gli Alleati, cioè gli angloamericani, e non vedevano l’ora che arrivassero.
Anche prima del ’43, già verso la fine del ’42, non si avevano più illusioni. Ma di sicuro nel 1943, l’illusione che Hitler, Mussolini e il Giappone, il famoso Asse Roma-Berlino-Tokyo, potessero vincere era alimentata soltanto da alcuni fascisti e basta.
Lei mi chiede per quanto tempo mi sono portato dentro i rumori, gli odori, i sapori della guerra? Le rispondo per sempre. Anche adesso che ho sessant’anni non riesco a staccarmi da quei ricordi. Probabilmente questo sembra assurdo a un giovane della sua generazione che la guerra non l’ha vissuta. Ma, devo dirlo: se c’è un fatto storico o un evento pubblico, come si usa dire oggi, che ha segnato veramente tutta la mia vita è stata proprio la guerra, anche se io non l’ho fatta.
Intanto c’è stato il passaggio dal regime mussoliniano, dal fascismo alla democrazia. In più io vivevo in una famiglia molto politicizzata e la guerra l’ho vissuta e poi sedimentata dentro di me. L’ho studiata, l’ho letta, ne ho scritto. Ancora oggi, se devo scegliere tra due o tre film proposti dalla televisione, se c’è un film o un documentario sulla guerra dal 1940-45 o sul periodo 1943-45, è questo che scelgo, senza dubbio.
Sì, la guerra mi è rimasta dentro. Mi è rimasta dentro anche perché ha segnato la mia adolescenza che ha coinciso con il momento in cui l’Italia, finita la guerra, entrava nella democrazia. Un fatto assolutamente fondamentale.
Nella mia famiglia si parlava molto di politica. Per cui, tutta la fase della guerra partigiana, cioè i due anni finali della guerra e la vittoria sul nazifascismo, l’ho vissuta non solo come la liberazione dai disastri di un conflitto, ma come un fatto politico molto importante e molto positivo. Consideri che io, a differenza di un bambino napoletano che faceva lo sciuscià, sono cresciuto in una realtà civile molto diversa. Mio padre era un operaio del telegrafo, un operaio specializzato ed era socialista. Mia madre aveva un piccolo negozio di mode, faceva la modista, e anche lei era «rossa», come tutta la nostra famiglia allargata. Soprattutto le donne erano molto politicizzate.
Io sono cresciuto – tenga conto che ho cominciato la prima media nell’ottobre del 1945 – in un ambiente che era in primo luogo antifascista e, in secondo luogo, di sinistra. Poi, diventando un po’ più grande e leggendo, ho imparato a distinguere fra i vari modi di essere antifascista. Ma l’imprinting è rimasto quello.
Sin da bambino io parteggiavo per qualcuno. I buoni per me erano gli Alleati e i «ribelli» o i «banditi», come i tedeschi chiamavano i partigiani. In casa mia eravamo tutti per la vittoria degli angloamericani e dei partigiani contro i fascisti. In casa nostra di fascisti non ce n’erano. I fascisti erano visti malissimo. Anche nella mia città erano particolarmente mal visti.
Esisteva un altro motivo a rendere questo atteggiamento ancora più convinto. Nella nostra città viveva una comunità ebraica fortissima, composta da quasi quattrocento persone. Peraltro, a Casale, esiste ancora oggi una delle sinagoghe più belle d’Europa con annesso un museo di storia ebraica. La comunità ebraica locale era molto importante e molto integrata nella vita della nostra città. Quindi, anche la tragedia terribile degli ebrei che venivano presi e scomparivano senza che se ne sapesse più niente, non ha fatto altro che gettare benzina sul fuoco.
Le racconto la storia di un ebreo che viveva nella nostra città. Era un vecchio medico, considerato il medico dei poveri. Si chiamava Fitz, era anziano e si muoveva su una vecchia bicicletta militare; tutti i venerdì apriva una specie di ambulatorio per i poveri della città. Era molto benvoluto, tanto che il suo ricordo è rimasto nella tradizione popolare di Casale.
A parlarmi di lui fu mia nonna Caterina. Mi raccontò di questo dottor Fitz che, dopo morto, si era presentato in Paradiso. E san Pietro, riconoscendolo e sapendo i suoi meriti acquisiti in terra, stava per farlo entrare. Poi si era ricordato che non poteva, perché lui era ebreo. Il dottor Fitz protestava e gli ricordava che, avendo sempre fatto del bene, gli spettava un posto in Paradiso. Allora san Pietro era andato dal Padreterno a chiedere cosa fare. E il Padreterno gli aveva risposto: «Basta battezzarlo e il dottor Fitz potrà stare in Paradiso». A quel punto la nonna concludeva il racconto alla sua maniera: «Non ci crederai: hanno cercato in tutto il Paradiso un prete per battezzarlo, ma non l’hanno trovato!».
Ecco, a Casale, quando nel marzo-aprile 1944 si è saputo che fine aveva fatto il dottor Fitz, è stato come gettare benzina sul fuoco di un antifascismo istintivo. Il dottor Fitz era ammalato, ricoverato all’ospedale di Casale. La questura repubblichina della città aveva mandato degli uomini a sequestrarlo e a trasferirlo al Seminario di Asti, requisito dal comando speciale di Eichmann mandato in Italia per prendere gli ebrei. Da Asti Fitz era stato portato a Fossoli e da lì caricato su un treno diretto ad Auschwitz dove l’hanno mandato a morire nelle camere a gas appena arrivato.
Lei mi chiede che atmosfera si respirava in casa mia dopo la fine della guerra. Prima di tutto ricominciammo a mangiare il pane bianco. Il primo ricordo che ho io della guerra finita è che gli americani della divisione Buffalo, tutti neri, una divisione della V armata giunta a Casale, avevano portato la farina. E quindi la prima cosa che rammento di aver mangiato, proprio nei giorni successivi alla Liberazione, è il pane bianco. Eravamo abituati a un pane terribile, anche se a noi qualche volta andava meglio, perché uno zio mezzadro ci faceva avere un po’ di farina.
Quando è arrivata la pace ricordo una grande festa, una grande gioia. Erano tornati i partiti, c’erano le elezioni. Si poteva scegliere di schierarsi alla luce del sole, senza correre il rischio di prendersi delle manganellate o l’olio di ricino. Oppure, per stare a quello che era accaduto durante la guerra civile, di finire massacrati per strada o di essere mandati in un campo di concentramento da dove non tornare mai più.
Insomma, eravamo tornati anche alla normalità della vita politica. Il primo sindaco eletto a Casale è del 1946. Era un liberale, l’avvocato Dardano, a capo di una giunta formata dalla coalizione dei partiti antifascisti. Dopo di lui, Casale è stata una città «rossa» e ha cominciato a eleggere sindaci, prima comunisti poi socialisti, in alternanza per parecchi anni.
Le racconto un altro episodio che spiega gli effetti della Liberazione. Mia madre Giovanna Cominetti era del 1903 e, quando nel 1946 è andata a votare per la prima volta, aveva quarantatré anni. Le prime elezioni alle quali ha partecipato non erano quelle del 2 giugno ’46, il referendum sulla Monarchia o sulla Repubblica più l’elezione della Costituente. No, la prima volta che ha votato è stato nel marzo-aprile ’46 per eleggere i primi consigli comunali e quindi i sindaci e le giunte. Mi sembra di risentirla mentre dice a mio padre Ernesto: «Non vado a votare domenica, ma lunedì». E a lui che le chiedeva come mai, visto che di lunedì doveva aprire il negozio e di domenica potevano andare insieme, rispose: «No, vado lunedì, perché devo fare una cosa».
Allora mi chiese di prendere un foglio di carta e mi dettò un avviso in stampatello per le sue clienti: «La signora Pansa chiude il suo negozio perché oggi va a votare, a quarantatré anni per la prima volta». Poi mi intimò: «Mettici un punto esclamativo. Anzi, mettine due che non costa niente!». La Liberazione aveva anche questo significato: per la prima volta alle donne era riconosciuto il diritto al voto.
Dopo la fine della guerra, per due o tre anni, la vita è stata molto stentata per tutti, ma è ripresa la normalità del vivere. Era finito lo scoramento, finito il coprifuoco e si poteva tenere accesa la luce. Continuava il tesseramento, nelle case faceva molto freddo, certi giorni d’inverno la scuola restava chiusa perché mancavano la legna o il carbone per scaldare le aule. Dopo il ritorno, pochi reduci trovavano lavoro e c’era una forte disoccupazione. E si scoprivano i grandi dolori: una determinata persona era morta, un’altra era dispersa in Russia, un altro si trovava a Torino ed era finito sotto un bombardamento.
Si respirava un’atmosfera di fortissima dialettica politica, come si direbbe oggi, ma anche di grandi rancori. Chi era stato fascista e l’aveva scampata era meglio che non si facesse vedere troppo in giro. Ricordo un episodio terribile al quale ho assistito nel novembre ’45. Ero al cimitero con mia nonna e ne sono rimasto impressionato. Un gruppo di madri di partigiani fucilati videro alcune donne che mettevano fiori sulle tombe di soldati o ufficiali delle brigate nere o della Guardia nazionale repubblicana. Il loro dolore esplose in una rabbia tale che cercarono di mandare via dal camposanto le madri dei fascisti.
Tornando a quello che lei ha chiamato «il biennio fatale», tra il ’43 e il ’45 l’Italia era praticamente divisa in due, spaccata a metà. E noi consideravamo il Sud fortunato, perché lì la guerra era già finita. Non pensavamo a un Sud separato dal Nord. Prima che la guerra finisse anche da noi, io da bambino rammento che sentivo dire: «Come sono fortunati quelli di Napoli che sono stati liberati prima di noi». Lì gli americani erano già arrivati. Per il resto, il nostro piccolo razzismo piemontese verso i meridionali non è di quell’epoca. È nato dopo, quando sono iniziate le grandi migrazioni interne e ne è nato lo scontro tra popolazioni diverse che si trovavano a convivere.
L’Italia di quegli anni era molto semplice, molto meno rissosa di adesso. Poteva essere faziosa, e la guerra civile è stata un esempio terribile di faziosità. I due campi contrapposti si combattevano con una violenza di cui oggi non si ha neppure memoria. Non si ha più memoria di quel che accadeva nelle città, nelle campagne, gli ammazzamenti, le vendette, insomma cose dell’altro mondo… Certo, meno che in altri Paesi, per esempio in Jugoslavia. Al confronto, in Italia la guerra civile e quel che ne è seguito è stata all’acqua di rose!
Tornando al Sud liberato prima del Nord, lo consideravamo baciato dalla fortuna per via dell’arrivo degli americani e speravamo che sarebbero arrivati presto anche da noi. Abbiamo provato la stessa fortissima sensazione quando è stata liberata Roma. Per i fascisti significava la capitolazione definitiva. Per chi non era fascista il 4 giugno significava: «Adesso arrivano anche da noi». Quando poi, in agosto, era toccato a Firenze, ma soprattutto dopo lo sbarco degli Alleati in Normandia del 6 giugno 1944 e di metà agosto nella Francia meridiona...