Sono andato in Africa a dieci anni. Doveva essere la metà del 1937 perché ricordo che andavo ancora a scuola, al ginnasio «Marco Foscarini»; avevo una professoressa cattivissima, la Cavezzana; ero contento di partire perché anche il professore di matematica era cattivissimo.
Allora non sognavo ancora di avere un negozietto di profumi, speravo con tutto il cuore di avere successo nelle matematiche. Mi capitò il professore Pavanini, così andava benon partire.
A mio padre era capitato di dover andare in Africa, perché di lavoro in Italia non gli riusciva di trovarne. In una delle sue bravate giovanili aveva dato un pugno su un naso stortandolo tutto. Lo difese il papà di Tinto Brass, quello che adesso fa il regista di film, e mio padre si fece dei mesi di galera. Ora, con quei mesi di galera era difficile trovare un lavoro, anche se si era «Marcia su Roma», «Sciarpetta Littorio» e tutte quelle puttanate.
Strane quelle robe in mio padre, un francese di origine inglese. Tutte quelle debolezze se le deve essere covate dentro, per essere cresciuto sentendo la mancanza del padre. Quel mio nonno doveva essere un dritto. Morì di spagnola durante la Prima guerra mondiale. Lo portavano via in barella. E lui aveva sotto un fiasco di vino e se lo stava sfondando, tirando su con una cannetta di gomma. Morì in barella ubriaco e contento questo Giuseppe Pratt francese. Insegnava all’istituto «Ravà » a Venezia, roba da ebrei.
Questi Pratt vivevano a Lione, dove si erano sistemati quando dovettero lasciare l’Inghilterra perché giacobiti.1 Aspettarono fino alla Rivoluzione francese per bruciare in piazza le loro insegne di nobili inglesi. Il mio bisnonno comunque faceva il ciabattino a Lione.
Allora mio papà , senza aver avuto questo padre dietro, deve essere venuto su con delle debolezze, con delle preoccupazioni. Così entrò dentro nella famiglia di mio nonno materno. E lì, o mangiavi questa minestra o saltavi dalla finestra: mio nonno, il callista di Venezia, era il fondatore dei Fasci di Combattimento della città . Col suocero fascista mio padre si era sempre dato da fare per tirare avanti con lavori del regime: per esempio aveva lavorato alla bonifica delle paludi Pontine e altre robe così.
Poi nel ’36 aveva preso su ed era andato in Africa, a lavorare nell’Ufficio per lo Sfruttamento della Mano d’Opera Indigena, che però aveva un altro nome, tipo: Ufficio Produzione del Lavoro.2
Lì, visto che il suo destino era nell’Impero, decise di venirci a prendere. Ricordo che arriva questa lettera che dice di tenerci pronti. Bene, molla tutto, basta scuola, prepara le valige e pronti. Ci siamo imbarcati proprio a Venezia, sulla nave Italia. C’era anche la signora Memma con i due figli che andava a raggiungere il marito, capitano dell’esercito ad Addis Abeba. Mi faceva tanto effetto quella famiglia perché era protestante. Erano protestanti piemontesi.3 A Napoli salì a bordo anche una famiglia di inglesi. Lui era un ufficiale. Un tipo di faccia nuova per me, così definitivamente cotta dal sole, con questi baffi bianchi e gli occhi chiari. Con questa ironia sopra, sempre, sul naso. Mio padre a bordo sfarfallava. Offriva bibite alle signore e si sentiva chaperon.
Così arrivammo a Port Said. Ricordo tante feluche in acqua. Potevamo sbarcare. Venne a bordo il console italiano. Eravamo invitati al consolato dove ci sarebbe stata una specie di manifestazione fascista, il solito discorso insomma. I fascisti si preoccupavano. La questione era questa: il fascismo di fronte all’Egitto.4 Io ero bambino e non potevo capire ancora bene tutto, però intuivo qualcosa. Vedevo tutti questi inglesi in divisa, tutti questi inglesi in borghese, questi egiziani in vestito bianco con il turchetto rosso in testa, che erano venuti a prendere il nostro ufficiale con la faccia cotta sopra una macchina particolare. Poche parole, saluti freddi, tutto chiaro, monta su e via. I fascisti invece urlavano molto, facevano tutti questi gesti, questi cenni.
Siamo allora andati al consolato dove c’era questa federazione fascista con Fascio Littorio e tutto perché bisognava discutere della posizione del fascismo di fronte all’Egitto. C’era una specie di teatro con tutti questi fascisti in sahariana bianca e tutte queste signore che vibravano, anche mia madre nel suo tailleur blu vibrava. E c’era mio padre con le mani sui fianchi. Guardava in giro per vedere se conosceva qualcuno. Con le mani sui fianchi atteggiamento mussoliniano che guardava se c’era qualcuno a cui dire: «Anche tu qui, Venturi». Ma non c’era nessun Venturi e non ha potuto dirlo a nessuno. Chi diavolo poteva conoscere mio padre a Port Said?
Io nel frattempo mi sono stufato e sono andato fuori. E lì ho avuto il mio primo contatto con l’Africa. C’era un giovanetto arabo che faceva un gioco di prestigio. Aveva un tappo e un pulcino. E infilava il tappo nel culo del pulcino e glielo tirava fuori dalla bocca, poi infilava il tappo nella bocca del pulcino e glielo tirava fuori dal culo, poi infilava il pulcino nel tappo e poi di nuovo il tappo nel pulcino. Interessantissimo, una cosa africana incredibile. Mentre ero lì immagato a guardare, ho sentito dentro scoppiare gli applausi e poi la voce di mio padre: «Bene» «Giusto» «Molto bene» «Questo è giusto». Poveretto, se qualcuno gli avesse chiesto: «E tu, camerata Pratt, cosa ne pensi?», cosa poteva dire lui? Io sono entrato dentro e mia madre con il tailleur blu cercava di contenergli la passione e gli diceva: «Ma Rolando…» «Ma dai, Rolando». E vibrava. Quando poi siamo andati in giro, mio padre mi guardava allusivo, come per dire: «… Stai scoprendo l’Africa, eh ragazzo». Il pulcino e il tappo.
E siamo entrati in un gran bazar, roba di greci o di armeni, dove vendevano robe dell’Africa. Lì mi ha comprato un casco coloniale bianco, di sughero. E una mazza di ebano con il piombo in cima per darla in testa ai negri. Per bastonare i negri che stavano in mezzo alla strada a dar fastidio. Diavolo, pensavo io, mi pareva una cosa strana questa faccenda dei negri che stavano in mezzo alla strada. Gliela avevano fatta pagare per ebano; io raschiai con un temperino e dentro il legno era bianco. Incominciava, mio padre, a prendersi le sue fregature da quest’Africa. Ma mia madre vibrava sempre. Lo vedeva entrare in questi empori e sputtanarsi carte da cento, allora che un uomo ad andar bene guadagnava duemila lire al mese. Lo vedeva pagare. Insomma, si vibra pensando: «Questo coloniale, quest’uomo che spende». Va be’.
Infine tornammo sulla nave accompagnati dagli italiani del circolo Littorio, che urlavano molto, giù sulla banchina del porto: «Mi raccomando eh, ragazzi», «Adesso in Africa fategliele vedere!». Era tutto finito giù in Abissinia, ma noi dovevamo sempre far vedere qualcosa. Tornò anche l’ufficiale inglese. Lo riaccompagnarono tre o quattro macchine particolari. Poche parole, saluti freddi e a bordo. Saliva la scaletta con la sua faccia ancora più cotta, gli occhi ironici e i baffi all’insù. E io capivo non so per cosa che c’era una grande differenza con noi altri. Mio padre, ricordo, abbracciò mia madre mentre questo Chater saliva la scaletta e gli fece cenno col capo, come per dire: «Ancora a bordo vecchio… tra noi vecchi coloniali, anche se di gruppi diversi… coloniali, infine…»
E via nel Canale di Suez, verso Sud. Questa è una scena che non dimentico; penso un giorno di disegnarla perché non ci possono essere foto ed è un’immagine mia. Sulla nave che andava, io guardavo verso Oriente, verso la penisola del Sinai, e ho visto un accampamento militare. C’erano tante tende, tutte in fila, ordinatissime, sventolava nel cielo una bandiera inglese, issata sopra un castello di fusti di benzina. Vedevo un solo soldato, uno scozzese. Sicuramente di guardia. Faceva delle marce, delle evoluzioni. Si muoveva come il padrone di tutta quella roba, con la camicia azzurra, le ghette bianche, le fasce con i pompon rossi, un grembiule cachi sul kilt e un casco coloniale con il pennacchio: un cameronian.5 Anche Chater guardava quell’accampamento. Con quella faccia cotta da tutti i soli dell’Africa, forse aveva militato anche lì e pensava roba nostra. Forse. Mentre la nave scendeva per il canale abbiamo incrociato una nave russa. Mio padre si arrampicò, un po’ pesantemente, su qualcosa per fischiare contro i russi. Ma loro guardavano mio padre e stavano zitti. Solo il fascismo fischiava, il comunismo se ne fregava completamente. Fu una fischiata personale di mio padre, in fondo, perché tutti i soldati italiani che c’erano a bordo non fischiarono proprio per niente. Loro aspettavano che venisse sera per mettersi a cantare le faccette nere e le ver...