Era freddo il tragitto dalla Carnegie Hall a Bowery Street; lungo, freddo e buio, ma erano spuntate le stelle e New York splendeva attorno a loro. I ragazzi camminavano a testa bassa nel vento gelido, con Rimsky appollaiato sulla spalla di Arkady, veloci quanto riusciva Vita. Per lo meno, pensò lei, non era facile perdersi a New York; le strade seguivano quasi tutte uno schema ortogonale: la Ventiduesima Est e poi la Ventitreesima Est, precise come tessere del domino.
Mentre camminavano Vita raccontò di Silk, del borseggio, del Dakota, delle serrature da scassinare.
«E lei ha detto che non ti avrebbe aiutato?» domandò Samuel.
«Esatto. Dice che lavora sempre da sola.»
«E allora…» Ci fu un istante di silenzio, gentile ma voluto, prima che Samuel aggiungesse: «Perché la cerchiamo?».
Vita estrasse di tasca il coltellino, lo lanciò in aria e lo riprese dietro la schiena. Sentiva l’elettricità scorrerle nel sangue. «Perché sì! Perché era lì, alla Carnegie Hall. Stava aspettando. Credo che abbia seguito Sorrotore. E voglio sapere perché.»
«Potrebbe essere un caso.»
«Non penso che Silk faccia nulla per caso.» La ragazza irlandese ce l’aveva scritto in faccia: trovava offensivo il concetto di destino.
Più si spingevano a sud e più le strade erano deserte e malmesse; i muri erano scrostati e i ristoranti accanto a cui passavano pubblicizzavano cibi sempre più insoliti: cuore di maiale e zampe di pecora. Passarono accanto a una tavola calda che aveva il menu scritto sul vetro con un pennarello bianco e, appena sopra, le parole Bowery Bar.
«Eccoci alla Bowery.»
«E siamo qui perché?…» La voce di Arkady si affievolì sul punto di domanda.
«Perché lei mi ha detto che non sarei durata tre minuti nella Bowery! Dividiamoci» disse Vita. «Dev’essere qui da qualche parte.»
Cercò di mostrarsi infinitamente più sicura di quanto non fosse in realtà.
Arkady proseguì lungo la Bowery, Samuel imboccò Prince Street e lei puntò verso Chrystie Street.
Vita scrutò in ogni vicolo, ma vide quasi soltanto bidoni della spazzatura. Passò accanto alla pubblicità del musical Daisy Johnson e i bebè che rimbalzano, schivò un grosso gatto senza coda e sfiorò un ratto di media grandezza. Poi, mentre il freddo le entrava nelle ossa e il vento le faceva defluire tutto il sangue dal viso, diede un’occhiata in un vicolo che dava su Hester Street e scorse Silk.
Non era sola. Aveva le spalle al muro e di fronte a lei c’erano i ragazzi che Vita aveva già incrociato fuori dal Dakota. Non avevano più di undici, dodici anni, ma il loro corpo era quello di un adulto. Uno dei due era alto e dinoccolato, l’altro basso, con i muscoli gonfi sulle braccia e le gambe.
Avevano un tono accusatorio.
«Bugiarda» disse il ragazzo più alto. «Sappiamo da fonte certa che eri alla Carnegie Hall. Dacci quello che hai preso.»
«Non ho preso nulla, ho detto!» esclamò Silk. «Ero solo in perlustrazione.»
Il ragazzo più basso aveva una faccia da avvocato. «Peccato che non sia vero.»
«Non vogliamo guai» disse quello alto, «ma se è necessario, non ci tiriamo indietro. Sgancia il bottino!»
«Oh, andate a quel paese e lasciatemi in pace» disse Silk. Dalla voce sembrava non le importasse, ma il suo viso era di un bianco vivido sotto la luce dei lampioni.
Il ragazzo più basso le appoggiò una mano sull’avambraccio. Silk lo scrollò via. «Non toccarmi!»
«Non illuderti di farla franca solo perché sei una ragazza» disse lo Smilzo. «Quelle regole non valgono per noi.»
Vita guardò per un istante il cielo e girò l’angolo. «Lasciatela andare» disse.
I due ragazzi si voltarono spalancando gli occhi: all’inizio per lo stupore, poi insofferenti e mezzo divertiti.
«Chi è la tua amica?»
«Che cos’ha al piede?»
«E perché si è vestita come un investigatore privato?»
Vita appoggiò una mano sul trilby che aveva preso in prestito e arrossì. «Vi ho detto di lasciarla in pace!»
Silk aveva il viso contratto dall’imbarazzo. «Vattene» sibilò a Vita. «Me la cavo.»
Vita affondò le mani nelle tasche, cercando qualcosa da lanciare. Scartò il taccuino rosso e il coltellino – era troppo prezioso, era suo, non era adatto alla situazione – sperando di trovare altro, qualsiasi cosa. C’era solo il volantino della Carnegie Hall arrotolato stretto e un po’ di lanugine.
Il ragazzo più basso si voltò verso Silk. Le afferrò i pugni con una mano e li tenne stretti. «Dammi i portafogli e ti lasciamo andare.» Le torse un braccio senza preavviso, piegandoglielo dietro la schiena.
Vita provò un impeto di rabbia e partì alla carica senza fermarsi a pensare.
Il ragazzo reagì, sferrandole un pugno che sembrava un mattone. La centrò sulla tempia, scaraventandola a terra e facendole vedere le stelle, ma per riuscirci dovette lasciare Silk, che fuggì di corsa lungo il vicolo… che però era un vicolo cieco. Le sfuggì un grido, ma cercò subito di rimangiarselo.
Vita lo sentì, e la rabbia salì fino a traboccare. Nessuno si aspetta che una piccoletta sia disposta a sopportare il dolore o a infliggerlo. L’effetto sorpresa – Vita lo sapeva bene – era l’unica arma in suo possesso. Si rialzò a fatica, e sferrò un calcio alla caviglia del ragazzo basso con il piede destro, appoggiandosi al muro per non perdere l’equilibrio. Aveva cinque secondi, pensò, prima che lo shock di essere stato attaccato da un soldo di cacio con i capelli rosso volpe svanisse. Quando il ragazzo si chinò in avanti per il dolore, lo colpì all’inguine con il ginocchio.
«Corri!» gridò a Silk.
Silk, però, non corse via. Si voltò verso il ragazzo alto, lo guardò dritto negli occhi, si scagliò in avanti e lo morse alla clavicola. Lui strillò di stupore, e i due cominciarono a lottare, stretti l’una all’altro, scalciando e sputando.
Il ragazzo basso si raddrizzò, con le ginocchia impolverate, e serrò la mano in un pugno che aveva ogni intenzione di colpire. Vita si spostò di lato e il colpo le affondò dolorosamente nella spalla. Il ragazzo la afferrò per il braccio. Lei lo attaccò con i piedi, e intanto infilò la mano libera in tasca, afferrò il volantino ben arrotolato e glielo spinse con forza su per una narice.
Il ragazzo lanciò un grido mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime, e Vita gli morse la mano che le stringeva il braccio. Lui si divincolò e la fissò, con occhi sconvolti. «Tu sei matta!»
Si udirono dei passi avvicinarsi. Vita si tolse i capelli dal viso e il sudore dagli occhi, serrando i pollici nel pugno per farsi trovare pronta. Da dietro l’angolo apparve Samuel, seguito da Arkady con Rimsky che gli svolazzava sopra la testa. Arkady aveva le braccia in posizione, pronto a combattere, e gli occhi di Samuel erano accesi di rabbia.
Si fermarono per un istante, valutando la situazione, poi scattarono in avanti. Arkady lanciò un grido di guerra e andò alla carica verso i due ragazzi.
Per il Corto fu troppo. Si voltò e partì di gran carriera, sfrecciando oltre Arkady, seguito dallo Smilzo con la bocca spalancata per la paura. Rimsky li seguì, scendendo in picchiata su di loro mentre fuggivano.
«Stai bene?» domandò Arkady.
Vita annuì, non avendo abbastanza fiato per parlare. Ci fu un lungo silenzio mentre Silk sputava un po’ di sangue contro il muro e lei si sistemava lo stivale.
Silk fu la prima a parlare. «Non dovevi farlo.»
«Non preoccuparti, io…»
«No, voglio dire… me la sarei cavata. Non avevo bisogno di aiuto.»
L’immaginazione di Vita partorì diverse risposte a tono, quasi nessuna educata. Con immenso sforzo, le scartò tutte. Invece le domandò: «Verranno di nuovo a cercarti?».
«Non lo so» rispose Silk. «Immagino di sì. Se continuo a lavorare nel loro territorio.» E poi, vedendo la smorfia di Vita, aggiunse scontrosa: «O forse no. È più probabile che abbiano di meglio da fare».
«Puoi prendere in prestito Rimsky» propose Arkady, «se ti serve. È come un cane da guardia.»
Intervenne Samuel: «Perdi sangue».
«Chi? Io?» disse Vita.
«Tutte e due, a dire il vero.»
Vita abbassò lo sguardo e vide il liquido rosso che le gocciolava dal gomito, dove si era strappato il cappotto quando era caduta. «Non importa» disse. Poi si voltò: «Tu ne hai un po’ lì, sulla tempia».
Silk si toccò e fece una smorfia, vedendo il sangue che le era rimasto sulle dita. «Puah.»
Arkady pescò un fazzoletto dalla tasca e glielo offrì: i giorni in cui era stato pulito sembravano un lontano ricordo. Silk lo usò comunque per tamponarsi la testa, e guardò gli altri uno dopo l’altro: Arkady, che aveva un’espressione accigliata e il fiato corto; Samuel, che si puliva le mani, e infine Vita, che a sua volta guardava Silk senza battere ciglio.
Alla fine, molto lentamente, contrasse le labbra.
«Va bene» disse.
«Va bene cosa?» domandò Vita.
«Va bene, sì. Va bene, vengo con voi. Farò parte del gruppo. Va bene e basta.»
Un calore – abbastanza intenso da respingere il freddo della notte – pervase il petto di Vita. Però disse soltanto: «Pensavo che non lavorassi mai con gli altri».
Silk fece spallucce. «Farò un’eccezione.» Sorrisero entrambe, due immagini speculari della stessa sorpresa.
«Ti pagherò» disse Vita. «Non appena abbiamo lo smeraldo… e ved...