Kid A è un disco politico? Il mio cuore dice di sì, ma il mio cervello è... confuso.
A volte quando sento Idioteque penso che parli della crisi climatica, anche se come meteorologo Thom Yorke è poco affidabile. Magari stesse arrivando un’era glaciale. Ciononostante, il verso “let me hear both sides” (“fatemi sentire entrambe le posizioni”) distilla alla perfezione l’attuale crisi del dibattito pubblico; negare il cambiamento climatico non serve a nulla se “sta succedendo davvero”. Qualche canzone prima, Optimistic cattura la maniera in cui la ricerca dell’interesse personale resa possibile dal capitalismo stia distruggendo il pianeta: “The big fish eat the little ones / Not my problem, give me some” (“I pesci grossi mangiano quelli piccoli / non è un problema mio, datemene un po’”).
Tutto questo sembra ovvio quando ascolto Kid A. Ma so anche che niente di tutto ciò sta succedendo davvero. Thom Yorke ha volutamente organizzato i propri versi in ordine sparso, ha scelto quelli che suonavano bene ma che fuori da lì non avrebbero avuto alcun altro senso, e ha distorto la propria voce al punto che quasi tutto quel che dice risulta spesso incomprensibile. Eppure, gli ascoltatori si sforzarono comunque di interpretare il “messaggio” di Kid A, perché tutti i trucchi che Thom insistette a frapporre fra sé e il pubblico ebbero l’unico risultato di far sembrare l’album ancora più misterioso e profondo, come un codice religioso che soltanto i veri fedeli erano in grado di decifrare.
Pur essendo io stesso uno di quegli ascoltatori curiosi e ossessivi, mi insospettisce che la mia lettura di Kid A guarda caso si allinei alla perfezione con quello in cui già credo. Ci starò pensando troppo? È possibile che davvero non dica niente? Se un critico musicale non si preoccupa di questo genere di cose significa che sta mentendo a se stesso.
Mi sono sentito personalmente e professionalmente tirato in ballo la prima volta che ho visto Room 237, l’affascinante documentario di Rodney Ascher del 2012. Il film ci presenta cinque persone che hanno guardato ossessivamente Shining, il capolavoro horror di Stanley Kubrick del 1980. Rivedendo il film dozzine quando non addirittura centinaia di volte, tutti e cinque hanno sviluppato interpretazioni incredibilmente complesse e decisamente fuori di testa circa il “vero” significato del film.
Ovviamente non sono certo il primo a cui è venuto in mente Stanley Kubrick riflettendo sui Radiohead. Intorno al periodo di OK Computer i critici musicali presero l’abitudine di paragonare i contorni ricercati ed eleganti delle produzioni fantascientifiche di Nigel Godrich alle stupefacenti e sconcertanti sequenze della Steadicam di Kubrick. Sono accomunati dalla stessa, disperata freddezza nei confronti dell’umanità, da un punto di vista che si posiziona appena al di fuori del mainstream pur riuscendo a risultare estremamente commerciale. Ma in realtà i Radiohead e Kubrick vanno mano nella mano perché entrambi invitano a un’analisi intensa e forse esagerata delle proprie opere, in grado di sconfinare in una malsana ossessione, soprattutto nel caso dei nerd barbuti di mezza età (come il sottoscritto).
Room 237 ci mostra quel tipo di eccesso portato ai suoi estremi più affascinanti e inquietanti. Un tizio è convinto che Shining parli dell’Olocausto. Un altro ipotizza che parli del genocidio dei nativi americani. La mia teoria preferita è che Kubrik, con Shining, abbia voluto confessare la propria colpa di aver girato falsi video dell’allunaggio dell’Apollo 11 per conto del governo americano. Per sostenere le proprie posizioni, gli analisti si addentrano in profondità nel sottotesto del film, facendoci notare i significati segreti del maglione di Danny (Apollo 11!), la macchina da scrivere di Jack (tedesca!), i barattoli di lievito Calumet impilati nella dispensa dell’hotel (il “calumet della pace”!) e le erezioni fantasma del direttore dell’Overlook Hotel (semplicemente raccapriccianti). Una persona è addirittura convinta che Kubrick abbia nascosto il proprio volto fra le nuvole dietro al suo nome nei titoli di testa. Perché? Perché è un messaggio segreto.
È tutto molto interessante, pur senza mai risultare un minimo credibile. Francamente tutti i protagonisti di Room 237 danno l’impressione di essere incredibilmente intelligenti, parecchio eloquenti, e matti da legare. Tuttavia, uno degli intervistati ci regala un’osservazione arguta circa la natura del pubblico: alla fin fine non conta l’intenzione dell’artista. I significati possono esistere indipendentemente dal fatto che l’autore ce li abbia infilati consciamente o meno. A volte un artista può mettere nelle proprie opere elementi dei quali non si rende conto. Oppure il pubblico potrebbe sentire o vedere cose che non “dovrebbero” esserci ma che diventano reali perché ce le abbiamo messe “noi”.
In un contesto simile, persino una mancanza di “significato” risulta significativa. Kid A si sviluppa pian piano, esattamente come Internet. È ignoto, incomprensibile, e va avanti implacabile per la propria strada senza preoccuparsi di dare spiegazioni, senza offrirci alcun contesto se non i nostri preconcetti, le nostre opinioni e la nostra limitatissima coscienza. Eppure... capiamo d’istinto. Siamo tutti diventati interpreti postmoderni del mondo, spigoliamo significati dalla giustapposizione accidentale di dati sconnessi fra loro che ci giungono attraverso i social media.
Le cose non hanno più bisogno di aver senso, il senso glielo diamo noi. Possiamo creare la nostra realtà. Il mondo riferisce, noi decidiamo. In un certo senso, ascoltare quest’album fino alla nausea nel 2000 ha preparato milioni di cervelli a quella che sarebbe diventata la realtà “normale” nel Ventunesimo secolo. È per quello che oggigiorno Kid A ci sembra un classico del rock.
I fan dei Radiohead hanno chiaramente infilato in Kid A un sacco di cose che la band non aveva per forza intenzione di metterci. Se analizziamo il testo del disco, non risulta affatto politico. Le cose cambiano un pochino se leggiamo gli indizi nascosti nella custodia del CD, o se consideriamo l’entusiasmo di Ed O’Brien nei confronti di No Logo e il sostegno di Thom Yorke all’iniziativa volta a cancellare il debito del Terzo Mondo, posizioni assunte durante la lavorazione di Kid A. Resta il fatto che non si tratta di un album ideologico. Non ci sono slogan in Kid A, soltanto accostamenti illogici.
Eppure, Kid A dà la sensazione di essere politico, e quella sensazione plasma la nostra percezione delle canzoni. Ascoltare Kid A riproduce i sentimenti che si provano a vivere nel Ventunesimo secolo, intrappolati dalla tecnologia e tagliati fuori dagli aspetti più fondamentali dell’esistenza umana. Per quanto non ti dica come reagire a questa cosa, come invece fa di solito la musica politica. Kid A semplicemente ti mette nelle condizioni di fare esperienza della tua insoddisfazione in un ambiente sonoro più intenso. È la differenza fra andare all’ospedale e cercare i sintomi su WebMD. Ascoltando Kid A provi un’ansia intensa senza che ti venga promessa una cura, l’essenza stessa della condizione umana in un’epoca di informazioni infinite e soluzioni inesistenti.
Alla fine non c’è molto che si possa addurre per “dimostrare” che Kid A rappresenta uno sguardo sul mondo alla fine del secolo scorso. Non c’è un singolo testo che abbia un “messaggio” che può essere trasformato in un meme a se stante. Non è Fight the Power, il classico dei Public Enemy del 1989, la canzone di protesta più importante della mia vita, che articola esplicitamente una critica della società contemporanea. Quando Chuck D dice: “Our freedom of speech is freedom or death / we’ve got to fight the powers that be” (“La nostra libertà di parola è libertà o morte / dobbiamo combattere il potere costituito”) non lascia spazio a dubbi circa quel che dice. Nessuno ascolta Fight the Power e pensa “il sottotesto di questa canzone ci parla di come nell’estate dell’89 i Public Enemy pensassero che l’interpretazione di Jack Nicholson in Batman fosse un pelo troppo istrionica”. Non ha senso “interpretare” quella canzone. Capisci subito cosa significhi “combattere” e cosa sia “il potere costituito”, e cosa ne pensi Chuck D. Fight the Power ti dice chiaramente tutto quel che vuole dirti in quattro minuti e quarantadue secondi esatti. Dall’altra parte puoi ascoltare Kid A per vent’anni senza mai arrivare al nocciolo della questione.
Non era con quella franchezza che scriveva Thom Yorke nel 2000. In fondo restava sempre il giovane universitario di Exeter che si sentì in imbarazzo quando un amico gli disse che i suoi testi erano troppo diretti. Ed era la rock star che per anni aveva dovuto attenuare lo stantio melodramma e l’angoscia schietta e radiofonica di Creep. Anche qualora una volta avesse avuto la capacità di scrivere una canzone tanto esplicita quanto Fight the Power, l’aveva persa da tempo a causa dei media e della sua consapevolezza di sé.
È come se trovasse imbarazzante essere apertamente politico in una canzone. Succhiare un limone, dal canto suo, aveva più dignità.
Se Thom Yorke avesse avuto l’animo del polemista, avrebbe potuto affrontare in maniera più diretta i temi dei quali scriveva. Invece di “i pesci grossi mangiano quelli piccoli” avrebbe potuto dire “siamo consumatori. Siamo sottoprodotti di uno stile di vita che ci ossessiona. Le cose che possiedi alla fine ti possiedono”. Invece di distorcere il suono del verso più tagliente di Kid A – “We’ve got heads on sticks / you’ve got ventriloquists” (“Noi abbiamo teste infilzate sui bastoni / voi avete ventriloqui”) fino a renderlo incomprensibile, avrebbe potuto semplicemente dire “Non sei la macchina che guidi, né il contenuto del tuo portafogli”. Anziché intitolare l’album in onore di un fantomatico clone umano, i Radiohead avrebbero potuto semplicemente chiamarlo Tyler Durden.
Vi starete chiedendo per quale motivo faccia questi paralleli fra Kid A e Fight Club, il film più controverso dei tardi anni Novanta, diventato ormai un classico alquanto problematico a causa di un seguito di appassionati che comprende incel, suprematisti bianchi e diversi altri indesiderabili che hanno tratto dal film il messaggio sbagliato. Che mi stia addentrando nella mia personale tana del Bianconiglio come i protagonisti di Room 237?
Non esattamente. Ma anche sì.
Uno degli esperimenti psicologici più interessanti che vale la pena fare con Kid A è immaginare come sarebbe cambiato il sottotesto dell’album qualora Thom Yorke fosse stato coinvolto nella lavorazione di Fight Club. Perché in realtà le star del film, Brad Pitt e Edward Norton, contattarono personalmente Yorke non molto tempo dopo la fine del tour di OK Computer, spedendogli addirittura il copione e chiedendogli se fosse interessato a comporre la colona sonora.
Pitt e Norton erano fissati con OK Computer durante le estenuanti riprese del film, durate ben centoventinove giorni (quando Pitt fu visto insieme a Jennifer Aniston in occasione di quel concerto al 9:30 Club nel giugno del 1998, quello in cui i Radiohead suonarono How to Disappear Completely per la quarta volta soltanto, le riprese di Fight Club erano appena iniziate). Norton avrebbe dichiarato in seguito che i due attori sul set ascoltavano i Radiohead in continuazione. L’ultima sera di riprese restarono in piedi fino alle 4 del mattino ad ascoltare a ripetizione OK Computer.
Tratto dal romanzo omonimo di Chuck Palahniuk del 1996, Fight Club era stato concepito dal regista David Fincher come un sovversivo manifesto anticonsumista travestito da grande produzione hollywoodiana. Lo vedeva anche come una commedia nera, nella quale un narratore in preda alle allucinazioni (Norton) passa dal mugugnare circa la vacuità di Starbucks e del panno chino al tramare attentati terroristici con il suo carismatico amico Tyler (Pitt) che però esiste soltanto nella sua testa.
Per Fincher, il terrorismo anti-establishment e il ritratto dei neofascisti di Fight Club non erano certo da prendere alla lettera, nonostante condividesse la disillusione del personaggio di Norton nei confronti della deriva totalitaria del capitalismo. “Stavamo facendo satira” avrebbe dichiarato in seguito il regista. “Stavamo dicendo: ‘Questo film suggerisce di far esplodere degli edifici quanto Il laureato suggerisce di scoparti l’amica di tua madre’.”
Si sentono echi dei Radiohead durante una delle scene satiriche più famose di Fight Club, quando il soggiorno dell’insipido appartamento di Norton viene modificato digitalmente fino a sembrare una pagina del catalogo dell’IKEA.
“Se vedevo qualcosa di ingegnoso come un tavolinetto a forma di yin-yang, dovevo averlo” blatera Norton. “Il componibile personale per l’ufficio della Klipske, la cyclette della Hovertrekke, il divano Omashab a strisce verdi della Strinne. Perfino le lampade a filo Ryslampa fatte di carta non candeggiata per un ambiente rilassante. Sfogliavo quei cataloghi e mi domandavo: ‘Quale tipo di salotto mi caratterizza come persona?’ Avevo tutto.”
Guardando quella scena viene subito in mente Fitter Happier, la canzone più diretta (e meno interessante) di OK Computer, che parla di come la cultura d’impresa ci programmi socialmente in modo tale da farci associare una vita “felice” con il consumo e la partecipazione al capitalismo. Il modo in cui Fitter Happier ce lo comunica è tutt’altro che sottile: una voce robotica ci sconsiglia meccanicamente di bere troppo e raccomanda di “andare in palestra tre giorni a settimana” e di “andare d’accordo con i dipendenti coetanei”, fra altre banalità espresse senza sentimento alcuno.
Ma possiamo anche immaginarci quella scena sulle note di Everything in Its Right Place, dato che il titolo della canzone enuncia chiaramente il tema della sequenza. In qualsiasi caso, Norton ha l’aria di un tizio perso in una canzone dei Radiohead. Uno zombie piagato dall’insonnia a causa delle continue trasferte imposte dal suo lavoro, un uomo che viaggia costantemente a trecento metri al secondo senza avere la più pallida idea di dove stia andando. Un vero androide paranoico.
Alla fine Yorke rifiutò l’offerta perché somigliava un po’ troppo al protagonista di Fight Club. Era stremato dopo un’estenuante serie di concerti e (come ben sappiamo) stava per entrare nel lungo periodo di crisi creativa che avrebbe preceduto la creazione di due nuovi album dei Radiohead. “Ho detto ‘Nah, non posso’” avrebbe poi dichiarato. “All’epoca non ce l’avrei fatta, anche se ogni volta che rivedo il film penso, ‘Ah...’”
Norton ha affermato, in un’intervista rilasciata nel 2019 al giornalista Brian Raftery, che Thom Yorke gli aveva detto che i Radiohead “sul bus guardavano Fight Club in continuazione” durante il tour di OK Computer. Ovviamente è impossibile, dato che i Radiohead erano nel pieno delle registrazioni per Kid A e Amnesiac quando Fight Club uscì nelle sale americane a ottobre del 1999, e nei cinema del Regno Unito il mese successivo. Quel che è più probabile (prendendo per vero che i Radiohead si siano mai abbuffati di Fight Club) è che i Radiohead l’abbiano guardato durante il tour di Kid A, che cominciò proprio quando Fight Club uscì su DVD, per poi vendere sei milioni di copie e d...