Da dove comincia? Dalle principesse Disney, con i loro costumi vaporosi e scintillanti che nella declinazione del Carnevale diventano degli stracci informi in tessuto acrilico, probabilmente cuciti da donne sottopagate nelle zone più povere del mondo? Dalla prima volta in cui abbiamo visto un royal wedding in televisione e siamo rimaste colpite dalla magnificenza di tutto quel tulle, metri e metri e metri di tulle e chiffon e pizzo e diademi rilucenti e sorrisi smaglianti e commossi mentre la sposa si avvicina allo sposo che l’attende emozionato all’altare? Da papà che ti prende in braccio e ti chiama così, «la mia principessa», pazzo d’amore come solo i padri per le figlie femmine?
Chi lo sa. Sta di fatto che quello della principessa – non della regina, badate: principessa, è una figura precisa, la regina regna, la principessa no – è un mito e un’aspirazione resistente nella vita delle bambine. E per quanto le principesse, per così dire, alternative siano sempre esistite, sempre principesse erano.
Siamo cresciute e cresciamo tuttora con il mito della principessa saldo nell’immaginazione. Gli abiti sontuosi, i lunghi capelli lucidi, la grazia, la snellezza, il candore, e soprattutto il principe che si innamora perdutamente della nostra bellezza e della nostra virtù e ci sposa in pompa magna davanti a tutti, scansando sorellastre cattive e matrigne opprimenti. La principessa è l’eleganza, il fascino, la dolcezza, la capacità di resistere in condizioni deprimenti senza perdere l’umanità o scendere al livello dei propri oppressori. Cenerentola cucina, pulisce, lava e canta e serve le due orrende sorelle (sottotesto: lei, così bella, costretta a fare la serva a due così brutte e antipatiche) senza mai protestare, senza un’alzata di testa, una rispostaccia, un momento di stizza, senza sputare nel cibo prima di servirlo, senza sterminarle con il veleno per topi, senza nemmeno una puntina piazzata bene sul materasso all’altezza delle chiappe. Aurora, la bella addormentata, prima di cadere in un sonno profondo accetta di buon grado di vivere nascosta dentro un bosco, inconsapevole del suo diritto di nascita e anche – a giudicare dal film Disney – dell’esistenza di una cosa chiamata “scarpe”. Biancaneve canta e non capisce niente di niente, mai: quando viene accannata in mezzo alla foresta dal cacciatore impietosito, trova il modo di rendersi utile andando a fare la serva a sette nani sconosciuti, che prima che lei gli si infili in casa vivono nello squallore, ma quando arriva lei a pulire e cucinare sono subito più felici, perché diciamocelo, una donna che facesse i mestieri ci voleva. Ariel è muta, muta, maledizione, perché pur di avere le gambe e poter stare vicino a un uomo ha ceduto la voce. Belle, poi, non ne parliamo: si innamora del suo carceriere, facendo da prototipo a milioni di donne convinte che dentro la bestia con cui convivono si celi in realtà un meraviglioso principe che ha solo bisogno di essere ricondotto all’amore1.
Questo è il primo filone di principesse che abbiamo mandato giù fin da piccolissime insieme alla pasta col formaggino, e che abbiamo riproposto alle nostre figlie quando è toccato a noi farle addormentare la sera. Le principesse delle fiabe, anche quelle meno celebri e quindi mai arrivate al trattamento Disney, sono sempre dolci, gentili, innocenti. Spesso muoiono: nella fiaba originale, Ariel muore, come muore Odette de Il lago dei cigni, che pur non essendo una fiaba ha comunque la sua principessa.
LA PRINCIPESSA MENA
Il secondo filone è quello delle principesse guerriere. Quando la principessa canterina e un po’ stordita passa di moda (perché succedono cose, guerre, il ’68, il femminismo: la narrazione delle donne assume altri contorni) viene sostituita dalla principessa forte, intelligente, tutt’uno con la natura ma capace di amare (Pocahontas), oppure dalla principessa guerriera tout court (Mu Lan), o dalla principessa libera imprenditrice (Tiana)2. Anche le storie di queste principesse, con poche eccezioni (Merida in Brave), seguono un arco narrativo che ruota intorno all’amore per un uomo; il matrimonio, rifiutato, è presente anche nella vicenda di Merida, principessa ribelle e spettinata e per questo simpatica, come sono simpatiche tutte le maschiacce. La femminilità o è perfetta o non è: tanto vale rifiutarla tout court.
Leia Organa, capofila delle principesse armate e ora a pieno titolo principessa Disney (brrr), è diventata Generale Organa solo nell’ultima trilogia di Star Wars. Prima era solo la principessa Leia, unica donna rilevante dell’universo creato da George Lucas quando l’inclusione delle donne in una trama era quasi un retropensiero. Senza i tempi comici e lo sguardo intenso di Carrie Fisher, Leia rischiava di essere poco più che una damigella in pericolo: a un certo punto la storia ne fa una schiava, un oggetto da collezione del viscido Jabba, abbigliata con un microscopico bikini di pelle e metallo e trattenuta con una catena. Il bikini non ha alcuna funzione narrativa: Jabba non è umano, non è chiaro perché debba trarre piacere, anche solo estetico, da una femmina umana poco vestita. Quel bikini è fanservice, insomma: serve a far salivare gli spettatori.
A COSA SERVONO LE PRINCIPESSE?
La principessa è una figura aspirazionale da cui le ragazze non possono prescindere. Le fiabe sono l’intrattenimento base delle nostre vite, il mezzo con cui da sempre si insegna ai bambini a comprendere la differenza fra il bene e il male, a esercitare la dovuta cautela nei confronti degli estranei, a obbedire agli adulti, a difendersi se si è in pericolo di vita, a trovare la strada di casa. Nelle fiabe il bene trionfa sempre, anche se non sempre i buoni vincono (mi vengono in mente certe fiabe crudeli di Andersen, grande sterminatore di personaggi innocenti e fustigatore di costumi). Alle bambine, in particolare, si insegna che se sono buone, gentili e servizievoli, verranno premiate con l’amore di un uomo valoroso e potranno volteggiare in una sala del trono indossando un abito realizzato per loro da una fata. E le scarpette di cristallo non fanno male ai piedi.
Non sono poche le bambine che rifiutano questo modello, preferendo al limite quello della principessa discola e pronta alla gazzarra, ma prima ci devono passare e decidere cosa va meglio per loro. La principessa fa da riferimento: che sia del tipo elegante e sottomesso o del tipo che mena, è comunque una figura aspirazionale.
La principessa in purezza rappresenta il massimo della femminilità: casta, innocente, mai una parola di troppo, ovviamente bellissima, dignitosa anche nella povertà (che è sempre temporanea, perché alla fine della fiaba la principessa sposa il principe e si sistema). È un modello impossibile, che richiede un enorme sforzo di omologazione per poter essere imitato.
L’eleganza è una dote fondamentale per le donne. Essere elegante – una Vera Signora – richiede un lungo lavoro di sottrazione. Meno parole, meno gesti, meno presenza, meno colori, meno glitter, meno spazio, meno volume, meno peso. Non a caso, tutte le icone di eleganza a partire dagli anni ’60 sono donne magrissime, o che lo sono diventate a prezzo di grandi sforzi: Marella Agnelli, Jacqueline Kennedy, Anna Wintour, Kate Middleton.
La signora elegante non si arrabbia, non perde la calma, non si spazientisce. La signora elegante ha il tocco leggero e sa stare al suo posto senza occupare troppo spazio. La signora elegante è discreta, sa farsi piccola per stare dietro a un grande uomo, e se l’uomo è mediocre lei si fa ancora più piccola, così lui sembra grande per contrasto.
È difficilissimo essere signore eleganti e contemporaneamente ricoprire un qualsivoglia ruolo sociale di spicco o prestigio: ci vuole una tempra che non si compra al mercato, una tempra che è quasi più importante delle competenze. Se sei competente ma non sei una signora e non hai tempra, è difficile che tu riesca a fare carriera. Però se sei troppo signora non vai da nessuna parte, perché la signora parla poco e si defila molto. Essere una signora è talmente importante che Loredana Bertè, nel 1982, rivendicava di non esserlo in una canzone scritta per lei da Ivano Fossati. Non sono una signora, appunto, «ma una per cui la guerra non è mai finita».
PRINCIPESSE E CALCI ROTANTI
Principessa tradizionale no, insomma, perché tutto finisce per dipendere dall’attenzione di un principe. Facciamo principessa guerriera? Lo era anche Fiona in Shrek, vi ricordate che calci rotanti? E devo ammetterlo, non smetterò mai di amare la scena di Shrek iii in cui Biancaneve arriva gorgheggiando davanti agli alberi animati che fanno la guardia al cancello del palazzo dove Shrek è prigioniero e dà il via alla missione di salvataggio strillando l’attacco di Immigrant Song dei Led Zeppelin. È sempre bello vedere delle donne pensate per attendere pazienti l’arrivo del salvatore prendere l’iniziativa e andare all’attacco, ognuna con i suoi mezzi e senza paura. Anche se una squadra di principesse che riesce a fare irruzione in un palazzo pur indossando abiti lunghi fino alle caviglie è realistica giusto in un film d’animazione.
Le principesse di Shrek III sono fantastiche e ci fanno sognare perché danno soddisfazione a una parte di noi che è sempre stata repressa, quella che non ha mai potuto reagire alle umiliazioni subite brandendo una mazza da baseball. Perché no, non è giusto rispondere alla violenza con altra violenza, a meno che la tua vita non sia in pericolo. E questo lascia ampio margine di discrezionalità a tutti quelli e tutte quelle che si adoperano per rimetterti al tuo posto con l’umiliazione, le battutine, i doppi sensi a sfondo sessuale, l’accondiscendenza, rubandoti le idee, lo spazio vitale e l’ossigeno, escludendoti dai processi decisionali e parlando al posto tuo.
Siamo esasperate, e vorremmo solo urlare, ma neanche urlare va bene, perché è volgare. E se ti arrabbi sei un’isterica. E se fai valere la tua autorità sei una stronza. Ma anche solo se dici di no a una cosa che non vuoi sei una stronza. Dovremmo dire sì, sorridere, essere carine. E dentro abbiamo un’urgenza di menare sganassoni che non si capisce.
Tutta questa rabbia, in genere, implode. Ci colpevolizziamo, ci facciamo del male. Ci deprimiamo, sviluppiamo disturbi dell’alimentazione. Soffriamo, e non sappiamo perché, e ci diciamo che siamo sceme e deboli, perché una Vera Donna (non una Vera Signora, è diverso) ce la fa, regge l’urto, sta su dritta, migliora, riparte. Una Vera Donna è forte. Ma anche sensibile! Dipende! Bisogna accendere e spegnere la sensibilità a comando: oggi sensibile, domani no. Del resto, chi non ha il dimmer delle emozioni incorporato?
C’è un’altra cosa da dire, sulle principesse guerriere, ed è che non nascono solo per soddisfare le fantasie di rivalsa delle donne. Una principessa guerriera è un altro tipo di modello aspirazionale, quello della donna che non ci sta, che si ribella e usa la violenza, spesso agita in battaglia, come mezzo per ottenere quello che vuole. Quindi ok, Mu Lan, Merida, ma anche Daenerys Targaryen finché non smatta e dà fuoco a tutto, Arya Stark, Brienne di Tarth e Lyanna Mormont, Kristen Stewart in quell’infelice rilettura di Biancaneve con Chris Hemsworth e Charlize Theron, e via dicendo. Queste donne sono molto amate anche dagli uomini perché rappresentano una sorta di fantasia assolutoria: non hanno paura di usare la violenza per farsi valere, esattamente come farebbe un uomo al posto loro, e quindi le donne regolari non hanno scuse. Se volessero, potrebbero cavarsela da sole: basta rinunciare a quel fastidioso pacifismo, a quell’abitudine a tentare la conciliazione e usare la dialettica. Non è un caso che moltissime eroine action e fantasy siano state create da autori di genere maschile e piazzate al centro di vicende in cui il ricorso alla violenza arriva a compensazione di un’altra violenza subita, spesso uno stupro.
A questo si aggiunge la connotazione positiva che viene attribuita in automatico a tutto quello che è maschile, se nell’appropriarsene le donne conservano il tratto più importante della femminilità, ovvero il fascino, la bellezza e soprattutto la magrezza. Charlize Theron in Mad Max Fury Road sarà pure calva e senza un braccio, ma è sempre Charlize Theron. Beatrix Kiddo e le donne della Deadly Viper Assassination Squad che in Kill Bill si scontrano in una serie di duelli all’ultimo sangue sono tutte bellissime anche nella lotta3. Il tutto arriva all’apoteosi in Sucker Punch di Zach Snyder, un film “tutto al femminile” che da solo dimostra come riempire un film di donne che menano non lo rende in alcun modo femminista4: le sue protagoniste, giovani, graziose e snelle, hanno nomi come “Sweet Pea” e “Babydoll”, e prima di arrivare a menare interpretano lunghe sequenze di danza erotica. Praticamente tutte le fantasie dei maschi mediocri che vedono la violenza e la sopraffazione delle donne come un’inevitabilità alla quale si può solo rispondere con altrettanta violenza, ma che si guardano bene dall’agire in maniera preventiva per rendere il mondo un posto migliore e più pacifico. E sotto sotto forse sognano di fare a botte con una donna. Deve essere una fantasia abbastanza diffusa.
LIBERATI DELLA PRINCIPESSA!
Quanto sia opprimente questo modello, come del resto la maggior parte dei modelli quando sono presentati come riferimenti assoluti, lo dice bene un libro di Maura Gancitano e Andrea Colamedici intitolato Liberati della brava bambina, pubblicato da HarperCollins nel 2019, in cui gli autori usano alcuni personaggi della storia della letteratura e del cinema per spiegare come le donne vengano punite quando infrangono le regole, ma anche quando le rispettano, per il semplice fatto di essere donne. Essere brave bambine, essere principesse, eleganti e silenziose o ribelli ma simpatiche può anche essere una scelta o una caratteristica personale: il punto non è, qui, rifiutare un modo di essere ma rifiutare un obbligo a essere. Rifiutare l’omologazione, la repressione, la forzatura. Prenderci quello che vogliamo, delle principesse e delle guerriere, e buttare il resto e poi riprendercelo quando ci va. Essere libere di scegliere la nostra via e il nostro modo di esprimerci, e soprattutto farlo senza dover dipendere in alcun modo dallo sguardo, dalla benedizione, dall’approvazione o dall’amore di un uomo.
Avete presente quando una dice una parolaccia e qualcun altro reagisce con uno scandalizzato «Contessa!», volto a farti capire che una ragazza beneducata certe cose non le dice? Ecco. Le parolacce esprimono aggressività, e niente dà fastidio quanto l’aggressività delle donne. È importante reprimerla, ricordare che non sta bene, perché se la fomentiamo e poi quelle si accorgono di chi le sta tenendo in scacco, sono problemi veri per tutti.
4 febbraio 2020. Donald Trump tiene il suo terzo discorso alla nazione, il cosiddetto State of the Union, che il presidente degli Stati Uniti d’America usa per fare il punto sull’economia del paese e illustrare il programma e le priorità nazionali. Trump a quel punto è già sotto impeachment con l’accusa di aver tentato di corrompere il presidente ucraino per ottenere favori personali. Alle sue spalle durante tutto il discorso c’è Nancy Pelosi, Speaker of the House of Representatives, un po’ l’equivalente della nostra presidente della Camera. Alla fine del discorso, Pelosi raccoglie i fogli con la stampa del testo e li strappa, con un gesto plateale, a favore di camera. Sono mesi che Trump la insulta e la aggredisce: le dice che è pazza, scombinata, isterica. Cerca di screditarla, perché Pelosi è la persona responsabile dell’avviamento e della conduzione della sua messa in stato d’accusa.
Madam Speaker ha ogni motivo per essere furiosa. È una politica di lungo corso, rispettata e considerata dal suo partito, ed è costretta a subire le angherie e le mancanze di rispetto di un uomo al quale la politica non è mai interessata. Quando è entrato, Trump ha rifiutato di stringerle la mano.
Tutte le donne americane avrebbero motivo di essere furiose. Nei suoi tre anni di presidenza, Trump ha mostrato a più riprese di non avere alcun rispetto per loro, non solo per le sue avversarie, ma anche e soprattutto per quelle che non si possono difendere. È anche accusato in maniera dettagliata e credibile di molestie da più donne, e di almeno due stupri, uno dei quali denunciato (ma la denuncia è stata ritirata: la ragazza, all’epoca minorenne, dice di essere stata minacciata). Ha nominato alla Corte Suprema due giudici ultraconservatori, fra cui Brett Kavanaugh, accusato a sua volta di aggressione sessuale da Christine Blasey Ford e da altre due donne.
Kavanaugh è stato confermato anche con i voti delle senatrici repubblicane.
A migliaia di chilometri e svariati fusi orari di distanza, io guardo il video di Nancy Pelosi che strappa i fog...