Riscatto
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Bergamo e l'Italia. Appunti per un nuovo futuro possibile

  1. 336 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Bergamo e l'Italia. Appunti per un nuovo futuro possibile

Informazioni su questo libro

Non può che partire dai giorni più drammatici della primavera 2020, quando i mezzi militari portavano via da Bergamo le bare delle vittime del Covid-19, la riflessione del sindaco Giorgio Gori. È stata «la più crudele delle lezioni» quella impartita dalla tempesta sanitaria, che ha lasciato, oltre al dolore della perdita, un Paese intero da ricostruire e far ripartire, per uscire dalla crisi recente e dalla situazione di stagnazione e paralisi che affonda le sue radici negli ultimi vent'anni della nostra storia.
Gli «appunti per un futuro possibile» raccolti in questa serrata conversazione con Francesco Cancellato tracciano una visione-guida per il compito che ci attende: «curare» il nostro sistema sanitario, garantire ai giovani lavoro e mobilità sociale, rimarginare la frattura tra Nord e Sud, centro e periferie; intervenire sulla scuola per riportarla al cuore dell'agire politico, ripensare il welfare e l'inclusione, affrontare l'immigrazione come opportunità e non come mera emergenza. Oggi che il Recovery Fund ci offre la possibilità di investire sul futuro e sulle prossime generazioni, Gori propone interventi concreti per governare le grandi trasformazioni demografiche, tecnologiche e ambientali. Senza sottrarsi al dibattito politico più attuale: le scelte del Partito Democratico e le alleanze possibili, il ruolo del riformismo di sinistra e la battaglia - da vincere - contro i sovranisti e le destre.
Mescolando biografia personale e politica, analisi sociale, critiche e proposte, Riscatto scava negli errori del passato (anche recentissimo) per delineare la strada per tornare a crescere.

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La più crudele delle lezioni

Cosa ci ha insegnato il Coronavirus
Sono passati diversi mesi da quel giorno, e l’emergenza è fortunatamente ormai molto lontana. Nonostante ciò, Giorgio, credo sia doveroso iniziare questa conversazione da una data triste. Se ti dico domenica 23 febbraio, ore 16.30, cosa ti viene in mente?
È il giorno in cui anche in provincia di Bergamo si registrano i primi due casi di Coronavirus, l’inizio dell’incubo. È la giornata del pronto soccorso di Alzano Lombardo, chiuso in seguito alla scoperta e riaperto dopo due ore e una sommaria sanificazione per decisione dell’allora direttore generale della Sanità di Regione Lombardia Luigi Cajazzo: fatti di cui verremo a sapere diversi giorni dopo. Nel frattempo siamo appesi alle notizie che arrivano da Roma e da Milano. Il giorno prima il governo aveva istituito la zona rossa del Lodigiano e sospeso le manifestazioni sportive in Lombardia e Veneto. Stop dunque ad Atalanta-Sassuolo, prevista per il 23 pomeriggio. Le università, a loro volta, avevano fermato le lezioni. La mattina della domenica la Regione anticipa che entro la giornata varerà un’ordinanza per trasformare l’intera Lombardia in «zona gialla». Chiuse dunque le scuole, i cinema, i musei e i bar dopo le diciotto. Ma le informazioni non sono chiare e la giornata trascorre nell’incertezza. È la domenica di Carnevale e in tutta la provincia sono previste manifestazioni e sfilate. I sindaci non sanno come comportarsi. Qualcuno le sospende, qualcun altro lascia che si svolgano. Anche in città va così, un po’ a macchia di leopardo: non ci sono direttive. Finché arrivano le notizie da Alzano e la convocazione – da parte Regione – di tutti i sindaci lombardi, fissata per il tardo pomeriggio. Si organizzano assemblee nei capoluoghi e qui da noi ci ritroviamo tutti ammassati nella sala grande del Centro Congressi, accanto alla sede dell’«Eco di Bergamo», ad ascoltare il presidente Fontana e l’assessore Gallera collegati da Milano.
Mascherine nemmeno a parlarne…
Qualcuno con la mascherina c’è, e gli altri lo guardano pure storto. Del resto, siamo tutti totalmente inconsapevoli del rischio. Sindaci e amministratori di 243 comuni stipati in una sala senza alcuna precauzione, col senno di poi una totale follia. Fontana e Gallera riferiscono che il numero dei casi di contagio in Lombardia è in rapida crescita, e anticipano i contenuti dell’ordinanza che ancora non è uscita. Sentiamo per la prima volta l’espressione «tossire nel gomito», che poi diventerà familiare.
Eravate preoccupati?
Devo essere onesto: non più di tanto. È abbastanza straniante pensare che la cosa di cui fino a pochi giorni prima leggevamo sul giornale – per quello che era accaduto a Wuhan, dall’altra parte del mondo – assolutamente lontana, possa ritrovarsi lì, a pochi chilometri da noi. «Vedrai che non saranno tanti casi» ci diciamo, «basterà essere prudenti.»
All’inizio anche tu, come il sindaco di Milano, il presidente della Regione Lombardia e molti altri amministratori locali, hai invitato le persone a non chiudersi in casa, a continuare la vita di tutti i giorni…
C’era in quei giorni una generale sottovalutazione. Non avevamo nessuna idea della dimensione del contagio che era già ampiamente presente in Lombardia, in quell’ultima settimana di febbraio. Non l’avevamo noi amministratori locali, certo. Ma non ce l’avevano nemmeno gli esperti e gli scienziati, i primi a sottovalutare il contagio, e con loro la stampa. I contagi erano in crescita e c’erano stati i primi decessi, ma l’opinione diffusa era che non si dovesse esagerare con gli allarmismi. Per Fontana, del resto, era «poco più che un’influenza» e anche gli esperti ci dicevano che fuori dalle «zone rosse» – i dieci comuni del Lodigiano e Vo’ Euganeo – la vita poteva continuare normalmente.
In realtà, non stava continuando normalmente proprio un bel niente. A Milano c’erano già stati gli assalti ai supermercati e il lievito per fare il pane era già diventato introvabile…
E infatti noi eravamo preoccupati soprattutto di quello: che la paura – che pensavamo in quel momento non giustificata – trasformasse di colpo gli stili di vita. I ristoranti erano regolarmente aperti, ma erano vuoti, e così i negozi e i bar, che in quella prima fase potevano operare fino alle diciotto. Noi sindaci delle regioni del Nord eravamo i destinatari degli allarmi delle associazioni dei commercianti per il drastico crollo dei consumi.
È così che nascono gli slogan su Milano, Bergamo e Brescia che «non si fermano»?
Sì. E a onor del vero lo stesso succede in tante altre città: per esempio a Verona, a Torino, a Parma, quest’ultima comprensibilmente restia a rinunciare al suo anno da capitale della cultura appena iniziato, e in altri capoluoghi. In quelle ore abbiamo immaginato di poter tenere insieme prudenza e fiducia, rispetto delle nuove disposizioni e «normalità» della nostra vita. C’è dentro di noi un istinto che ci spinge a rifiutare la prospettiva di vedere la nostra esistenza minacciata e stravolta, e che ci tiene aggrappati alla nostra routine. Be’, ci sbagliavamo.
Sei stato uno dei primi, e dei pochi, ad ammettere quell’errore…
Ti dirò di più: i cittadini avevano capito più di noi cosa stesse succedendo. E mi sono molto dispiaciuto, personalmente, di non aver compreso per tempo e di aver trasferito loro – per quanto in buona fede – alcuni messaggi oggettivamente superficiali. Ho riguardato tante volte la foto che ho postato su Instagram la sera del 27 febbraio, quella in cui sono al ristorante con mia moglie e sorridiamo. L’intento è spiegato nel breve testo che l’accompagna, «dare un piccolo segnale: per dire a noi stessi, e per dire a tutti, FORZA BERGAMO!». Io volevo fare coraggio alla mia gente. Non potevo immaginare di quanta forza avremmo avuto molto bisogno nelle settimane successive.
Poi hai cambiato completamente linea. «Il governo fermi tutto per quindici giorni: dobbiamo fare come Codogno» dichiari. Come mai questa retromarcia?
Non è una retromarcia, è un salto in avanti. Perché le cose succedono velocemente, più rapidamente di quanto proceda la capacità di comprensione. Ancora il 5 marzo, mentre si discuteva della possibile zona rossa ad Alzano e Nembro, mentre raccomandavo ai miei cittadini di seguire le prescrizioni anti-contagio e aggiungevo «Andrà tutto bene», scrivevo su Twitter: «Le persone anziane devono essere più prudenti e limitare spostamenti e relazioni» – e in effetti avevo già da giorni obbligato i miei genitori a starsene tappati in casa – e però continuavo «ma per tutte le altre non c’è motivo per non uscire, entrare in un negozio o farsi una passeggiata in centro». Eccomi lì, di nuovo, avvinghiato alle ultime speranze di normalità. E invece…
E invece?
E invece ogni giornata era uno scalino: di peggioramento della situazione e di necessaria crescita della consapevolezza di quanto stava accadendo. La sera di quello stesso 5 marzo, alle 22.27, ricevo una mail da una dirigente sanitaria che non conosco. Ha avuto il mio indirizzo privato da un amico comune e mi ha scritto, sperando di farmi capire cosa sta succedendo in provincia di Bergamo, perché a mia volta apra gli occhi ad altri. Va dritta al punto, usa i numeri. Mi spiega che l’infezione si sta propagando con un R0 – il numero di riproduzione di base – pari a 2: ogni paziente positivo ne infetta due in tre giorni, con un andamento esponenziale. Il 45 per cento dei casi è sintomatico, il 10 per cento necessita di terapia intensiva. E di questo passo, in pochi giorni, i posti di terapia intensiva saranno finiti. Non c’è alternativa a fermarsi per almeno due o tre settimane, mi scrive. Sembra un messaggio piovuto da un altro pianeta. E invece è esattamente quello che accade. Quando capisco che bisogna chiudere tutto e lancio la proposta dello stop – «Anticipiamo il Ferragosto» – sono passate solo due settimane da «Bergamo non ti fermare!». Sembra l’extrema ratio: in realtà, anche questa proposta è insufficiente. Passa un solo giorno e già capisco che non ce la caveremo così facilmente.
Ne stai parlando al presente, come se stessi vivendo ancora quei momenti. Quanto è stato difficile fare il sindaco di Bergamo nei mesi di marzo e aprile del 2020?
È stato obiettivamente complicato. Quando l’epidemia scoppia come una bomba, e non c’è più nessuno spazio per immaginarsi una realtà meno drammatica, inizia una sequenza di giornate simili una all’altra, passate dalle sette del mattino a notte fonda con il telefono in mano. Non al telefono, ma principalmente scrivendo e ricevendo messaggi su WhatsApp, consultando i siti più disparati, leggendo gli articoli scientifici allegati alle mail, cercando di capire e di restare a galla. Finché gli occhi sono così irritati che mi tocca distogliere lo sguardo dallo schermo del cellulare.
Hai perso anche tu parenti, amici, conoscenti, in quei due mesi terribili?
La punteggiatura del mese di marzo è purtroppo fatta dai caduti. Oltre quattrocento in città solo a marzo. Tra questi alcuni amici – Andrea, Saverio, Giorgio – e tante persone conosciute. La mattina, prima ancora di uscire di casa, mi ritrovo a sfogliare «L’Eco di Bergamo» e a contare le pagine dedicate ai necrologi. Di solito sono due o tre. A marzo arrivano a undici. Pagine piene di vite spezzate dal Coronavirus – allora lo chiamavamo ancora così, poi diventerà COVID-19 – e di dolore, un dolore che sembra travolgerci. Muoiono alcuni colleghi, i sindaci di due paesi della Bergamasca, Cene e di Mezzoldo, e la notte tra il 22 e il 23 muore don Fausto Resmini, il prete dei poveri.
Il 24 marzo è anche il tuo compleanno. Non un compleanno qualunque, quello dei sessant’anni…
Avremmo dovuto festeggiare con tanti amici – Cristina per una volta mi aveva convinto a farlo – e ovviamente non si fa nulla. Ci siamo noi cinque – io, lei e i ragazzi – e già così mi sembra un regalo del cielo. Alessandro è tornato da Siena e abbiamo fatto rientrare Benedetta e Angelica dall’Inghilterra.
Con grande stupore dei media britannici, ricordo: le figlie del sindaco di Bergamo che lasciano il suolo britannico – in quel momento assai meno colpito – e tornano nella loro città, dove l’epidemia sta facendo strage…
C’è più prudenza che incoscienza, in quella scelta. La verità è che Boris Johnson e la sua bislacca idea dell’immunità di gregge erano in quel momento un pericolo molto concreto. E quindi via, in treno fino a Milano, passando per Parigi e Ginevra. Il fatto di averli tutti a casa, di poter pranzare insieme, cenare insieme, la sera qualche volta di poterci guardare un film o una serie tv, sarà alla fine l’aspetto migliore di questo periodo per il resto tristissimo, la cosa che mi ha tenuto dritto. Per il resto vado in ufficio. Tutti i giorni, anche il sabato e la domenica. Dalle otto e mezzo – a volte anche prima – fino a sera tardi.
Niente smart working, per il sindaco di Bergamo?
A Palazzo Frizzoni rimaniamo in tre: io, Cristiana Barca – la mia assistente – e Francesco Alleva, il mio portavoce. Però tanti altri dipendenti del Comune sono al lavoro, a partire dalla polizia locale e dai servizi sociali, e chi è a casa impara in quelle settimane che è possibile rendersi utile anche da remoto. Noi abbiamo bisogno della nostra routine. La città è deserta e il nostro piccolo mondo è completamente stravolto. Tenere la sveglia alle sette e andare in ufficio è un modo per aggrapparsi a qualcosa che conosciamo e che dà sicurezza.
Cosa fai, mentre sei lì alla tua scrivania?
Conto i morti, letteralmente. Per tutto marzo riusciamo ancora a recuperare i dati ufficiali sui decessi COVID per singolo comune, prima che la Regione li renda inaccessibili. E sono numeri che non tornano: troppo bassi. Chiedo all’anagrafe di farmi un calcolo sulla differenza tra i decessi delle prime settimane di marzo e la media di quelli registrati nello stesso periodo nei dieci anni precedenti. Il risultato è impressionante. I morti dal 1° al 24 marzo sono 446, 348 in più che negli anni precedenti (quando erano stati mediamente 98). È un aumento del 455 per cento. Per la Regione i decessi COVID della città sono invece solo 136. Ne mancano all’appello 212. Prendo il telefono e chiamo una dozzina di sindaci della provincia, di zone diverse, quelli che conosco meglio. Chiedo loro di fare lo stesso conto con i rispettivi uffici e quando mi richiamano annoto tutto su alcuni fogli, a mano. Il riscontro è lo stesso ovunque, in alcuni casi ancora più eclatante.
Come mai questa differenza tra i vostri calcoli e i dati ufficiali?
La ragione è semplice quanto drammatica. I decessi comunicati dalla Regione e dalla Protezione Civile, e acquisiti nelle statistiche ufficiali, riguardano solo le persone decedute dopo essere state sottoposte al tampone e quindi ufficialmente diagnosticate come affette da COVID-19. Ma i tamponi disponibili sono pochissimi – non più di 350 al giorno per l’intera provincia di Bergamo, per almeno tutto marzo – e vengono riservati ai malati che arrivano negli ospedali in condizioni gravissime, appena prima del ricovero. Anche chi si presenta con 40 di febbre, ma senza importanti problemi respiratori, viene rimandato a casa, con prescrizione di isolamento, senza che gli venga fatto il tampone. Quei 212 allora sono le persone decedute nelle case di riposo e i tanti che sono morti nelle loro abitazioni senza che ci fosse la possibilità di fare loro un tampone e tantomeno di ricoverarli. Alla fine saranno 670 solo in città, circa seimila in tutta la provincia, il doppio di quanto figura nelle statistiche ufficiali.
Che ricordo hai della tua città, in quei giorni?
Bergamo è deserta, e di una bellezza straziante. Marzo è pieno di sole e questo rende ancora più crudele la segregazione a cui tutti sono costretti. Il dolore è compresso nelle case. Parlo spesso con i dirigenti dell’ospedale, tutti i vertici si sono ammalati e sono a casa. Al telefono ne sento la tosse e la fatica a respirare.
E tu? Non hai mai avuto paura di essere stato contagiato, di essere ammalato, di finire in ospedale, in terapia intensiva…
In quei giorni di marzo ho il mal di gola, ormai da settimane. Non so cosa sia e spero che non sia il Coronavirus. Non ho febbre e mi curo un po’ come capita. Finché dopo un mese passa. Parlo e «mi messaggio» spesso con Andrea, uno dei miei fratelli. È un bravo infettivologo e l’unico medico di cui mi fido al cento per cento. Da un paio d’anni dirige il reparto di Malattie Infettive del Policlinico di Milano. Lui è davvero in prima linea. A un certo punto si ritrova a guidare quattro strutture di pronto soccorso. Per fortuna che a Milano non accade quel che è successo a Bergamo, altrimenti… non ci voglio neanche pensare.
A posteriori hai fatto il tampone o il test sierologico? Sei risultato positivo?
No. Due tamponi e un sierologico, tutti negativi. Non ho mai fatto il COVID.
Questa forse è la domanda a cui è più difficile rispondere: ci sono delle cose belle che ti porti dietro da quei giorni di marzo?
Sì, ci sono state anche cose belle, che cerco di trattenere. Per esempio il rapporto che è nato con Palermo, cominciato con la quarantena forzata di ventinove turisti bergamaschi partiti il 21 febbraio e bloccati per settimane in albergo dopo che tre di loro, una signora già la sera del 23, erano stati trovati positivi. I palermitani li hanno coccolati, riempiendoli di attenzioni e di dolci. È successo poi che alcuni nostri malati, vista la saturazione delle terapie intensive in Lombardia, siano stati trasferiti all’Ospedale Civico del capoluogo siciliano, e poi che Ismaele La Vardera, palermitano, che collabora con Le Iene, sia venuto a Bergamo per documentare la costruzione dell’ospedale da campo in Fiera e abbia lavorato per giorni insieme ai nostri volontari, e se ne sia poi ripartito con un tir pieno di computer e tablet donati dai bergamaschi ai ragazzi del quartiere ZEN della sua città; e poi ancora che diversi palermitani ci abbiano scritto per offrire vacanze gratis ai medici e agli infermieri di Bergamo, e che gli artigiani bergamaschi siano andati a trovare il sindaco Leoluca Orlando portandogli in dono una sciarpa dell’Atalanta.
Alla faccia del razzismo e delle contrapposizioni tra Nord e Sud…
Alla faccia, davvero. Un’altra storia bellissima, arrivata solo con un po’ di r...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Riscatto
  4. Introduzione
  5. L’eretico necessario. di Francesco Cancellato
  6. 1. La più crudele delle lezioni. Cosa ci ha insegnato il Coronavirus
  7. 2. Da grande voglio fare il sindaco. L’amore per la politica, che viene e che va
  8. 3. Berlusconi, Renzi e il treno che l’Italia ha perso. Perché la sinistra deve liberarsi dei suoi demoni e delle sue ossessioni
  9. 4. Il virus della paura (e come sconfiggerlo). Perché la sinistra preferisce negare i problemi, anziché risolverli
  10. 5. Come l’Atalanta. Facciamo entrare i giovani, se vogliamo tornare a vincere
  11. 6. No al declino. Perché donne, bambini e stranieri sono la vera cura
  12. 7. La cattedrale e il totem. Riportare scuola e lavoro nel centro del villaggio
  13. 8. Bergamo, Italia. Perché il futuro (forse) non è delle metropoli
  14. 9. Il Grande Fratello. Perché l’alleanza con i 5 Stelle non può essere la soluzione
  15. 10. La prossima trincea. Perché solo l’innovazione può salvare il pianeta (e viceversa)
  16. Conclusioni. Un destino comune
  17. Copyright