I grandi misteri della storia
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I grandi misteri della storia

Da Stonehenge a Guernica, tutte le risposte che ancora non conosciamo

  1. 240 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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I grandi misteri della storia

Da Stonehenge a Guernica, tutte le risposte che ancora non conosciamo

Informazioni su questo libro

Una volta riportata nei documenti, ripetuta abbastanza volte e ampiamente diffusa, non ci vuole molto perché la versione "addomesticata" di una storia diventi un fatto accertato. Ma chi ha inventato per primo queste false notizie e perché sono rapidamente diventate una verità?
Cleopatra, Marco Polo, il Capitano Cook, Giovanna d'Arco, ma anche figure popolari come i ninja giapponesi e l'Inquisizione spagnola: tutti noi sapremmo citare almeno una notizia o un luogo comune su questi argomenti. Eppure, se esaminiamo le reali vicende storiche scopriamo che spesso nulla di ciò che diamo per scontato è vero, che le inesattezze e le bugie alterano la rappresentazione di molti dei personaggi e degli eventi cruciali che abbiamo studiato a scuola e che gli interessi personali di chi ha narrato i fatti hanno avuto un enorme impatto su ciò che è stato ricordato e su quello che invece è stato opportunamente tralasciato, e per questo dimenticato.
I grandi misteri della storia è una divertente galoppata attraverso i secoli, alla scoperta degli inganni e delle bugie di un passato che credevamo stabilito per sempre. Perché conoscere realmente la storia e le sue mistificazioni significa avere gli strumenti per comprendere meglio ciò che accade oggi, e difendere il nostro racconto per il domani.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2021
Print ISBN
9788817155069
1.

Cortine di fumo e giochi di specchi

Giovanna d’Arco: una fantasia francese

Molte biografie di Giovanna d’Arco la ritraggono come un’eroina dei primi decenni del Quattrocento, raccontando di come aveva guidato gli eserciti francesi in innumerevoli vittorie contro gli invasori inglesi e i loro alleati borgognoni per poi essere infine catturata e messa al rogo come strega sulla piazza del Mercato Vecchio di Rouen. Di fatto, però, sembra – tra le altre cose – che non fosse francese, che non abbia mai comandato alcun esercito (o anche solo combattuto in battaglia) e che non sia stata giustiziata per stregoneria. E quindi, da dove vengono tutte queste inesattezze, che si sono accumulate fino a creare un tale personaggio iconico?
Sappiamo che nacque nel 1412 a Domrémy nella Lorena, un ducato indipendente che sarebbe entrato a far parte della Francia soltanto nel 1766. Suo padre era Jacques Darce; il suo cognome compare anche nelle varianti Darx, Darc e persino Tarce, ma non come d’Arc, in quanto nel XV secolo nei nomi francesi l’apostrofo non si usava e non esisteva nessun posto chiamato “Arc” da cui potesse venire. Sua madre era Isabelle de Vouthon, e sia lei sia Jacques adottarono l’appellativo di Romée, anche se non è chiaro chi dei due avesse compiuto quel pellegrinaggio a Roma che ne avrebbe giustificato l’assunzione. La loro figlia venne battezzata come Jehannette, non Jeanne; la forma «Jeanne d’Arc» – Giovanna d’Arco – comparve solo nel XIX secolo con uno storpiamento di «Darc» (in vita era stata chiamata La Pucelle, “la Pulzella”). I Romée non erano semplici contadini: Jacques era un agricoltore di gran successo e un cittadino di spicco che, a quanto pare, aveva minacciato di «strangolarla [Jehannette] con le mie stesse mani se dovesse andare in Francia». Da questo possiamo come minimo dedurre che gli abitanti di Domrémy non si consideravano affatto francesi.
Gran parte di ciò che si dice su Jehannette viene dalle cronache scoperte a Notre Dame nel XIX secolo, ma non tutti sono convinti dell’autenticità di questi documenti. Come afferma Roger Caratini, da alcuni considerato come uno dei più prestigiosi storici francesi:
Temo davvero che solo una piccola parte – per quanto preziosa – di quello che noi francesi abbiamo imparato a scuola su Giovanna d’Arco corrisponda a verità […] A quanto sembra, la sua figura è stata quasi interamente creata dal disperato bisogno della Francia del XIX secolo di trovare una mascotte patriottica. Il Paese voleva un eroe, i miti della rivoluzione erano nel complesso troppo sanguinosi e la Francia arrivò così più o meno a inventare la storia della sua santa patrona. La realtà, purtroppo, è un po’ diversa […] Giovanna d’Arco non ebbe alcun ruolo, o al massimo solo un ruolo molto marginale, nella Guerra dei cent’anni. Non fu la liberatrice d’Orléans, per la semplice ragione che quella città non venne mai assediata. E gli inglesi non ebbero nulla a che fare con la sua morte: temo che furono l’Inquisizione e l’università di Parigi a processarla e condannarla […] Ho paura che, in realtà, fummo noi a uccidere la nostra eroina nazionale. Magari avremo anche qualche motivo per avercela con gli inglesi ma, per quanto riguarda Giovanna, loro proprio non c’entrano.

VOCI IMMAGINARIE

Anche nella stessa Francia, l’oscura figura di “Giovanna” non fu mai oggetto di grande interesse finché Napoleone non decise di resuscitarla come un personaggio iconico. Ma se guidò davvero i suoi sottocomandanti a tutte quelle straordinarie vittorie nella Guerra dei cent’anni, dove sono le testimonianze che ne parlano? Di fatto, tutto ciò che abbiamo è un vago racconto su una giovane donna che sentiva delle voci e “vedeva cose”. Si dice che sostenesse che le sue due “voci” più importanti fossero quelle di santa Margherita di Antiochia e santa Caterina di Alessandria; ma anche se ai suoi tempi la realtà storica di queste figure era accettata, in seguito si è stabilito al di là di ogni dubbio che, di fatto, nessuna di queste due sante è mai esistita. Quello che ci resta, quindi, è la figura di un’eroina, probabilmente fittizia, che diceva di essere guidata dalle voci di due altre donne che in realtà non erano mai esistite. Tutto questo, comunque, non ha impedito che Giovanna d’Arco venisse canonizzata nel 1920.
Caratini non è certo il solo a ritenere che Giovanna sia un’invenzione dell’Ottocento o, nella migliore delle ipotesi, «una delle tante ragazze che seguivano l’esercito, portando una bandiera per la stessa paga giornaliera di un arciere». A quei tempi, la Francia era in tumulto. Con l’appoggio dei loro alleati borgognoni, gli inglesi controllavano ampie fette del Paese, col risultato che la corte francese si era trasferita al sicuro a Chinon, nella valle della Loira. Se accettassimo l’intera leggenda così com’è, dovremmo credere che una contadina sedicenne analfabeta – era a malapena in grado di scrivere il proprio nome – prese il cavallo, andò fino a Chinon e, dopo aver individuato senza tentennamenti il Delfino (che si era nascosto tra i suoi cortigiani per metterla alla prova), gli raccontò delle sue “voci”, ripetendogli alcune profezie, per poi essere promossa sul posto al rango di comandante. E anche se il Delfino fosse stato così stupido da fare una nomina del genere, è realistico credere che le truppe veterane assegnate al comando della ragazza si siano messe a seguire docilmente qualcuno che non sapeva nulla di armi e di tattiche?
Se la Pulzella fosse veramente il personaggio di cui parla la leggenda, ci sarebbe da stupirsi del fatto che la sua prima biografia sia stata scritta soltanto nel XVII secolo da Edmond Richer, preside della facoltà di teologia della Sorbona, a Parigi, dove il suo manoscritto sarebbe rimasto inedito negli archivi fino al 1911. Dopo Richer, il secondo biografo ad affrontare il soggetto fu Nicolas Lenglet Du Fresnoy nel 1753, seguito un altro secolo dopo da Jules Quicherat, che produsse un’opera in cinque volumi considerata dai più come il lavoro definitivo sulla vita, il processo e la morte della Pulzella. Ma su che cosa si basano queste tre opere? È difficile considerare una prima biografia del XVII secolo, una seconda del XVIII e una terza del XIX come una catena ininterrotta di osservazioni e giudizi in grado di riportarci agli inizi del XV secolo.
Ci sono diversi fraintendimenti nella leggenda del suo processo, che non nacque dalle accuse di stregoneria mosse contro di lei dall’Inquisizione francese (una precorritrice della più famigerata Inquisizione spagnola). Stando ai summenzionati documenti di Notre Dame, l’unico rappresentante dell’Inquisizione francese presente al processo era Jean LeMaître, che, ignorando le minacce del contingente inglese, continuava a sollevare obiezioni sull’illegalità e la caotica confusione del procedimento. La Pulzella venne processata per aver affermato che le voci che sentiva erano di origine divina e perché indossava abiti maschili, contravvenendo ai dettami biblici (Deuteronomio 22:5) che proibivano ogni tipo di travestitismo. Si suppone che ci fossero altre accuse relative al fatto che portava un’armatura e che si era messa alla testa di un esercito, ma anche queste non suonano vere, in quanto nel XIV e nel XV secolo le donne in armatura al comando di eserciti erano molto più comuni di quanto potremmo immaginare oggi.
Jeanne de Montfort (morta nel 1374) organizzò la difesa di Hennebont per poi farsi strada combattendo fino a Brest, in armatura e a capo di una colonna di trecento uomini a cavallo. Nel 1346, Filippa di Hainault, moglie del re inglese Edoardo III, guidò un esercito contro dodicimila invasori scozzesi in assenza di suo marito; sempre nel XIV secolo, Jeanne de Belleville, la Leonessa di Bretagna, divideva il suo tempo tra gli assalti alle navi mercantili inglesi che passavano nella Manica e le scorribande alla guida delle sue truppe nella Francia settentrionale; e, nel 1383, nientemeno che il futuro papa Bonifacio IX raccontò in termini entusiastici le imprese delle donne genovesi che avevano indossato l’armatura per andare a combattere nelle crociate. Margherita di Danimarca, Jeanne de Penthièvre, Jacqueline di Baviera, Isabella di Lorena e Jeanne de Châtillon si misero tutte l’armatura e guidarono degli eserciti. Anche gli infidi borgognoni, alleati degli invasori inglesi e insistenti nel chiedere la morte della Pulzella, avevano squadre di artiglieria composte da donne. La Francia era piena di giovani guerriere in armatura; e se questo non infastidiva neppure il Papa, perché il clero di Rouen avrebbe dovuto infuriarsi così per un caso tra i tanti?
Ulteriori sospetti nascono dai presunti verbali del processo, che presentano l’imputata come una persona ben istruita e molto eloquente pronta a sfidare con eccezionale erudizione i suoi accusatori, dimostrando una comprensione dei più sottili punti teologici tale da suscitare l’ammirazione – sia pure a denti stretti – anche di coloro che erano determinati a mandarla al rogo. All’epoca del suo presunto processo, la Pulzella era una ragazza analfabeta di soli diciannove anni, cosa che fa sembrare improbabile che possedesse tali conoscenze. Pare inoltre chiaro che, sempre ammesso che il processo e l’esecuzione siano di fatto avvenuti, Giovanna – contrariamente a quanto afferma la leggenda – non rimase ferma sulle sue posizioni fino alla fine. La mattina del 24 maggio 1431 venne condotta fuori per l’esecuzione e, di fronte alla prospettiva di una morte così orribile, scelse di ritrattare tutto in cambio del carcere a vita: riconobbe che le sue “voci” non erano divine e promise che in futuro non si sarebbe mai più vestita da maschio. La sua abiura venne accolta ma quando, il 29 maggio, i vescovi le fecero una visita a sorpresa in prigione, la trovarono di nuovo vestita da uomo e la condannarono subito al rogo come eretica recidiva. Così, stando al racconto, si suppone che Giovanna sia stata bruciata viva sulla piazza del Mercato Vecchio di Rouen il 30 maggio 1431.
Per confondere ulteriormente le cose, qualcuno afferma che la cosiddetta Pulzella non venne bruciata a Rouen, in quanto dei documenti trovati negli archivi di quella città attestano che, il 1° agosto 1439, le cariche cittadine avevano autorizzato a versarle un pagamento di 210 livre “per i servizi da lei resi durante l’assedio della suddetta città” (Metz, NdR). Questi documenti molto sospetti furono tirati fuori per la prima volta dal politico francese François Daniel Polluche alla fine del Settecento, e nel secolo successivo furono accreditati dall’antiquario belga Joseph Octave Delepierre. Nel 1898, il dottor E. Cobham Brewer, famoso per il Brewer’s Dictionary of Phrase and Fable, scrisse:
Monsieur Octave Delepierre ha pubblicato un pamphlet, intitolato Doute Historique, per confutare la tradizione secondo la quale Giovanna d’Arco venne messa al rogo a Rouen per stregoneria. Cita un documento scoperto da padre Vignier nel XVII secolo, negli archivi di Metz, per dimostrare che sposò il Sieur des Armoises, con cui andò ad abitare a Metz e da cui ebbe dei figli. In seguito, Vignier trovò tra i documenti della famiglia il contratto di matrimonio tra Robert des Armoises, cavaliere, e Jeanne D’Arcy, soprannominata la Pulzella d’Orléans. Nel 1740, negli archivi della Maison de Ville d’Orléans vennero trovati gli attestati di diversi pagamenti ad alcuni messaggeri mandati da Giovanna a suo fratello Giovanni, datati 1435 e 1436. C’è inoltre l’attestato di un versamento fatto dal consiglio della città alla Pulzella per i suoi servizi durante l’assedio (datato 1439). Monsieur Delepierre ha presentato una sfilza di altri documenti per corroborare questo stesso fatto e mostrare che la storia del suo martirio venne inventata allo scopo di gettare odio sugli inglesi.
Ci sono altre fonti che affermano che dopo il 1431 Giovanna era ancora viva. Gli antichi registri della Maison de Ville d’Orléans e La Chronique du Doyen de Saint-Thibault de Metz fanno entrambi riferimento a una Giovanna post-Rouen. Polluche presentò le sue argomentazioni nel Problème Historique sur la Pucelle d’Orléans (1749), che costituisce in parte la base del lavoro di Delepierre, che pubblicò per la prima volta le sue scoperte sulla rivista «Athenaeum» il 15 settembre 1855. In ogni caso, sembrano esserci parecchi dubbi sulla veridicità della storia di Giovanna d’Arco, con grandi interrogativi riguardo a ogni dettaglio, dal suo nome e nazionalità fino alle imprese, al processo e alla morte.

Erzsébet Báthory: la vera contessa Dracula

È probabile che nessun’altra donna nella storia sia mai stata oggetto di tante calunnie come Erzsébet Báthory. Oggi viene spesso chiamata “la contessa Dracula”, e molti sono convinti che facesse il bagno nel sangue delle vergini per conservare la sua grande bellezza e che sia stata una vampira o magari una licantropa. A quanto si dice, tra il 1600 e il 1610 questa donna ungherese avrebbe assassinato più di seicentocinquanta vergini di diciassette villaggi che sorgevano attorno al suo castello e ricadevano sotto il suo controllo feudale; data la popolazione rurale dell’Ungheria di inizio Seicento, ciò sembra un tantino esagerato, visto che gli abitanti complessivi di quei villaggi erano meno di quattrocento. Come nel caso di Vlad Dracula, voivoda quattrocentesco della Valacchia (una regione dell’odierna Romania), tutte queste storie non sono nient’altro che pruriginose fantasie.
È interessante notare che il primo accenno al rapimento di quelle seicentocinquanta vergini per i bagni di sangue della contessa venne fatto solo nel 1729, ossia più di un secolo dopo la sua morte. In questa stessa fonte troviamo inoltre accuse di cannibalismo, di orge vampiriche e di torture sadiche a sfondo sessuale su molte ragazze. Nelle famiglie ungheresi di inizio Seicento, la sorte dei sottoposti non era certo felice: la più piccola trasgressione veniva spesso punita con percosse violente, e in questa brutalità la Báthory non si distingueva dai suoi pari. A segnare la sua condanna, però, furono le sue ricchezze, e sembra probabile che, alla fine, fu vittima dell’avidità e di manovre politiche. Ma chi la voleva eliminare, e perché?
Nata in una nobile e ricca famiglia di Nyírbátor, ai confini occidentali dell’odierna Ungheria, all’età di dieci anni Erzsébet venne promessa in matrimonio al sedicenne Ferenc Nádasdy; non era un legame d’amore, ma semplici nozze politiche finalizzate a formare un’alleanza tra le due famiglie più potenti del regno. Nel giro di pochi anni, Ferenc si ritrovò impegnato in varie guerre e lasciò la moglie a casa ad approfondire la sua istruzione; nel 1604, quando il marito morì all’età di quarantotto anni, la Báthory era diventata una donna straordinaria, che oltre a parlare correntemente diverse lingue – tra cui il latino e il greco – aveva anche un carattere indipendente e non era disposta a “starsene buona al proprio posto” in una società allora strettamente dominata dai maschi. A quell’epoca, i nobili ungheresi in grado anche solo di scrivere il loro nome erano pochi e, quando c’era da irritare qualcuno, Erzsébet non si tirava mai indietro; e ora che aveva il controllo sulle ricchezze combinate dei Báthory e dei Nádasdy, molti occhi avidi iniziarono a posarsi su di lei e la fabbrica delle dicerie cominciò a lavorare a pieno regime. Dato che tutti i suoi diplomatici e consiglieri più importanti erano donne, iniziò presto a circolare la voce che la sua corte non fosse nient’altro che una malcelata congrega di streghe; bisognava fare qualcosa per rimetterla in riga.
Gli attori principali in questo complotto furono il re Mattia II d’Ungheria e il suo primo ministro, György Thurzó, che tra l’altro era cugino della Báthory. Erzsébet, dimostrando forse una scarsa avvedutezza, continuava a importunare Mattia – un re in bancarotta, oltre che di infima moralità – perché saldasse i suoi enormi debiti con la famiglia Báthory. Thurzó, dal canto suo, le doveva più di quanto sarebbe mai stato in grado di ripagare; aveva già cercato di sistemare le cose con una cinica proposta di matrimonio, ma la contessa gli aveva riso in faccia. Mattia ordinò a Thurzó di far cadere la Báthory, raccomandandogli però di agire con cautela in quanto la donna aveva molti potenti alleati in Ungheria e nella vicina Polonia, che anni prima era stata governata da suo zio, re Stefano I Báthory. Elaborati i suoi piani, Thurzó fece arrestare la Báthory il 29 dicembre 1609 o 1610 (le fonti sono discordi), affermando di averla letteralmente colta con le mani rosse di sangue, intenta a torturare una povera ragazza mentre un’altra vittima giaceva riversa lì accanto. Questo, perlomeno, è ciò che Thurzó disse a tutti, ma il suo mandato di arresto, che non indicava nel dettaglio nessuna accusa, venne spiccato dopo la cattura e nessuno poté mai interrogare la ragazza sopravvissuta o vedere il corpo di quella deceduta. A quanto pare, Thurzó organizzò tutta la sceneggiata in modo da drammatizzare al massimo l’arresto.
Mentre Erzsébet era agli arresti domiciliari, Thurzó portò via quattro dei membri più fidati del suo staff – Ilona-Jó, Dóra, Kata e János Ficzkó – per farli torturare finché non avessero accettato di confermare tutte le accuse da lui formulate. Dopo l’amputazione di varie parti dei loro corpi e il supplizio del fuoco, tutti e quattro riconobbero che la Báthory era di fatto una strega che praticava le arti oscure nel suo castello, dove era solita torturare e uccidere giovani vergini sul suo altare satanico. Il giudice incaricato del caso era uno degli amici più stretti di Thurzó, che provvide inoltre a riempire la giuria di amici e dipendenti; il processo iniziò il 2 gennaio 1611, ma il ministro fece un tale pasticcio che fu costretto a interrompere il suo stesso disastroso procedimento.
All’inizio del secondo processo, il 7 gennaio, Thurzó aveva miracolosamente trovato quello che definì lo spaventoso resoconto, da parte della stessa Báthory, di tutte le gesta sanguinarie e sataniche di cui si era macchiata; tuttavia, la calligrafia di quel testo non assomigliava neppure da lontano a quella di altri documenti scritti dalla donna nello stesso periodo. Per aggirare la possibilità che qualcuno mettesse scomodamente in dubbio le sue “prove”, Thurzó ordinò che il processo continuasse in latino, con alcuni dei testimoni condotti in aula legati e imbavagliati in modo che potessero soltanto annuire o scuotere la testa in risposta alle domande che venivano loro rivolte. I testimoni a cui fu concesso di parlare non fecero altro che riportare delle voci che avevano sentito. Il giudice accolse come prove delle lampanti falsità, confutate da semplici considerazioni cronologiche, giudicando al contempo inammissibile qualunque elemento che avrebbe potuto ostacolare un verdetto di colpevolezza. Nessun membro delle famiglie delle presunte vittime della contessa fu chiamato a testimoniare, e gli scrivani incaricati di redigere i verbali del processo dovevano stare alzati per metà notte a riscrivere le loro stesse trascrizioni, in modo da eliminare ogni fastidiosa incoerenza e contraddizione. Il circo di Thurzó fu una ridicola farsa, alla quale la Báthory ebbe il buon senso di non partecipare e di non presentare dichiarazioni.
Com’è ovvio, giocando coi dadi truccati, Thurzó e Mattia ebbero facilmente partita vinta, e mentre la Báthory veniva giudicata colpevole di tutti i capi d’accusa, la moglie di Thurzó correva su e giù nel suo castello arraffando ogni oggetto di valore che le piacesse. I debiti di Mattia e Thurzó furono dichiarati nulli e cancellati, il grosso delle terre e degli averi della Báthory fu diviso tra le parti interessate e i quattro testimoni chiave vennero portati fuori per essere immediatamente giustiziati, così da tenere in ordine le cose. Sapendo di essersi già spinto ai limiti, Thurzó non fece murare...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. I GRANDI MISTERI DELLA STORIA
  4. Introduzione
  5. 1. Cortine di fumo e giochi di specchi
  6. 2. Viaggi di scoperta
  7. 3. Il delitto più efferato
  8. 4. Enigmi di riti e religioni
  9. 5. Conflitto e catastrofe
  10. Ringraziamenti
  11. Bibliografia
  12. Copyright