È piccolo di statura, il boss, e per questa sua caratteristica nell’ambiente della ’ndrangheta lo chiamano il Nano. È anche un modo per distinguerlo da altri suoi omonimi di Reggio Calabria, perché nella punta dello Stivale, quella che guarda alla Sicilia, i componenti della famiglia Lo Giudice sono tanti, e quasi tutti hanno avuto a che fare con le cosche. Nino Lo Giudice è un pezzo grosso: non sarà imponente a livello fisico, ma la sua statura criminale è riconosciuta. È lui a fare da cerniera fra determinati segmenti della ’ndrangheta e figure riconducibili ai servizi segreti. Personaggi oscuri, che hanno avuto un ruolo in affari illegali e in omicidi eseguiti dagli uomini dei clan. Adesso il Nano collabora con la giustizia, e per lo Stato può diventare una risorsa preziosa: ha un immenso bagaglio di conoscenze sulle dinamiche interne alla ’ndrangheta e, come raccontano altri suoi compari, custodisce informazioni scottanti sulle relazioni esterne dei boss calabresi con ambienti istituzionali.
Sono state proprio queste sue “relazioni pericolose” a fargli incontrare un uomo «caratterizzato da un significativo inestetismo ad una guancia» come segnala il 29 novembre 2012 Gianfranco Donadio, il magistrato che sta indagando su quest’uomo misterioso su mandato che gli era stato conferito dall’allora procuratore nazionale antimafia, Piero Grasso. Nella cerchia dei membri della ’ndrangheta viene indicato come un poliziotto, una figura pericolosa, particolarmente riservata e cauta. Un sicario cocainomane. Si parla di una deturpazione al volto, «come se la carne fosse stata mangiata».
A due settimane dal Natale del 2012, Nino Lo Giudice viene fatto sedere davanti a Donadio. Il collaboratore di giustizia si accomoda, si scioglie un po’, si prende il suo tempo per mettersi a proprio agio. E poi inizia a raccontare la sua storia criminale. Fino a quando si tratta di ’ndrine, il Nano ha un atteggiamento assolutamente disteso, molto attento alla descrizione dei fatti, alla ricostruzione di come nasce e si evolve il suo gruppo criminale a Reggio Calabria.
Del resto, in passato ha già affrontato interrogatori e controesami assai spinosi, non solo su questioni e delitti legati al suo operato personale, ma anche sulla responsabilità e il coinvolgimento di suoi congiunti, primo fra tutti il fratello Luciano. Insomma, non si ferma neppure quando le indagini vanno a scavare nella carne viva della sua stessa famiglia. Riferisce persino dei contatti che lui e Luciano avevano con membri della magistratura e delle forze dell’ordine.
Sempre tranquillo, rilassato. Per un’ora e mezza parla delle dinamiche della sua famiglia in senso anagrafico, che è particolarmente ampia: un padre ucciso, un fratello ammazzato, parenti arrestati. Il clima è quasi di autocelebrazione.
Ma poi il raggio dell’indagine si allarga. I riflettori si spostano dalla famiglia ad altri personaggi, esterni alla ’ndrangheta. E adesso il Nano non è più a suo agio. Nuota in acque troppo profonde, poco sicure. Lontano dalla riva.
«Ve lo dico dopo»
Il magistrato ha approfittato della prima fase più distesa per osservare e valutare, per percepire le sfumature. Adesso è il momento di attaccare. Gli chiede dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, uccisi nei pressi dello svincolo di Scilla sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria il 18 gennaio 1994. È sicuro che Lo Giudice abbia qualcosa da dire, perché in precedenza un suo complice aveva rivelato che in quell’agguato c’era la mano di componenti esterni. «Dovevamo fare come quelli della Uno bianca» aveva affermato il compare. Un’espressione che non può non colpire qualsiasi uomo di Stato, e quindi il magistrato nel frattempo aveva avviato altre linee d’indagine, effettuando un’analisi comparativa con altri delitti. «Tra gli identikit raccolti ve ne erano taluni sostanzialmente uguali e riferiti alla strage di Capaci e agli omicidi della Uno Bianca».
Insomma, si intravedono i fili di un arazzo di complicità e commistioni criminali. Ogni nodo, ogni brano di tessuto va immediatamente a collegarsi in un quadro molto più complesso. Appena viene toccato l’agguato ai carabinieri l’atteggiamento di Nino Lo Giudice cambia di colpo. Si irrigidisce, dice che non sa nulla di quel duplice omicidio. Il magistrato non lo forza. Si ferma. Verbalizza. Ed è qui che qualcosa si accende nel Nano. Durante la lettura del verbale riassuntivo dell’interrogatorio, il boss compie un gesto ben preciso, che potrebbe a prima vista sembrare quasi un moto di stizza, ma che a occhi esperti assume un altro significato. Mentre l’ufficiale di polizia giudiziaria legge piano piano il verbale, Lo Giudice muove la mano, fa roteare l’indice aperto come se avvolgesse qualcosa. E il magistrato capisce. Ve lo dico dopo. Sono disposto a svelare il contesto anche degli omicidi dei carabinieri.
Ecco cosa ha detto il Nano, senza pronunciare parole.
Non ci si mette un cane in famiglia
L’interrogatorio ha però un momento persino più caldo. Il magistrato gli chiede se tra i sicari esterni alle cosche, implicati in alcuni omicidi a Reggio Calabria, ci fosse anche uno con una «faccia sfigurata». A questa domanda ciò che restava della supponente, esibita tranquillità di Lo Giudice evapora una volta per tutte. «Al momento non ricordo». Vorrebbe prendere tempo, il PM però non ha intenzione di concederglielo. E non solo per motivi strategici. La sua urgenza non è dovuta esclusivamente alla sensibilità dell’investigatore, che sa dosare i tempi nel mettere pressione e nel concedere attimi di respiro; ci sono anche ragioni puramente tecniche. Quella che sta portando avanti non è un’indagine classica, il suo scopo adesso è prendere informazioni, ed è nella natura dell’operazione non concedere occasioni predeterminate, che il teste potrebbe magari sfruttare per mettere a punto delle linee difensive. Quindi ribatte: «Guardi, io non posso, questo è un colloquio investigativo, non è un’azione che può durare nel tempo. O le tematiche si affrontano ora, io non posso rimandare il colloquio investigativo per darle tempo di riflettere o elaborare». Insomma, il colloquio non può essere effettuato a rate.
E il Nano concede una prima apertura: «Mio fratello Luciano aveva contatti con un uomo dei servizi». Non ne ricorda il cognome, però ammette che era stato coinvolto nell’omicidio di un gioielliere di Reggio Calabria.
Pian piano, con sapienza, l’interrogatorio si sposta sempre più verso il punto fondamentale, la freccia si avvicina al centro del bersaglio. «Ho un ricordo di una persona con il volto bruciato e con ciò intendo riferire una persona con il volto chiaramente deturpato».
È una lenta danza di affondi e ritirate, di slanci e fughe. Il Nano non ricorda l’auto su cui viaggiava l’uomo dei misteri, «non sono in grado di ricordare dove ho incontrato la persona con il volto sfigurato», ma di sicuro «questo soggetto può essere ascritto ai servizi».
Il magistrato percepisce con chiarezza che il suo teste è consapevole dell’importanza delle sue dichiarazioni. Della posta in palio.
«Io credo che il personaggio con il volto sfregiato sia un personaggio molto pericoloso». E poi afferma: «È un cane». Il magistrato sbalordito lo guarda e chiede: «Scusi, non ho inteso», e Lo Giudice ripete: «È un uomo cane» e poi, «sto parlando di un uomo fuori dalle regole». Durante il colloquio è stata posta molta enfasi sul tema delle regole, è un pilastro dell’identità stessa del boss. Ha parlato spesso del rapporto con il padre, dell’importanza che egli attribuiva al rispetto delle norme non scritte che ordinano il mondo mafioso. Il padre, che pure doveva essere un personaggio marginalizzato all’interno dell’organizzazione criminale, era uno inquadrato. Uno che rigava dritto, pur in un ambiente per sua natura distorto.
L’uomo sfregiato, invece, era appunto un «cane». E, par di capire, un cane sciolto.
«Ma era nelle regole? Agiva? Perché?» chiede il magistrato, quasi incredulo. «Anche lei è coinvolto in eventi gravissimi, cioè anche le ’ndrine sono pericolose. Mi faccia capire che cos’è questa straordinaria pericolosità. Lei se l’è messo in famiglia?»
«Io il cane in famiglia? Ma non se ne parla proprio. Quando dico che è pericoloso, questo è un uomo completamente al di fuori delle regole». A verbale si spiega meglio: «Quando dico questo è perché ho appreso che questo personaggio era stato coinvolto in eventi stragisti dove sono state colpite anche persone innocenti e questo è contro le regole della ’ndrangheta». Infine, una dichiarazione secca e raggelante. Lo definisce «terrorista».
Le parole di un collaboratore di giustizia ci forniscono così il nostro primissimo ritratto. Un soggetto di elevata pericolosità, «fuori dalle regole», che siano quelle dello Stato o quelle della mafia. Uno che non si limita a colpire i nemici, cosa normale in un contesto bellico, ma non esita neppure a prendersela con gli innocenti. Un terrorista dei servizi deviati.
Lo Giudice ci tiene a ribadirlo ancora, con forza: «Era calabrese e certamente non ci sono stati rapporti di affiliazione con la mia famiglia».
Qui non è Hollywood
Avete presente quei caratteristi dei film che hanno un volto particolare e quindi vengono scritturati dai registi? Te li ritrovi ovunque, ma sempre sullo sfondo, pronunciano al massimo una battuta o due, ma in fin dei conti sono sempre lì, a indugiare proprio sul bordo dell’inquadratura, presenti e inafferrabili, indimenticabili e un attimo dopo dimenticati? Quegli attori che conosci benissimo, di cui sapresti descrivere il volto a memoria, e però il nome ti sfugge, hai la sensazione di averlo come sulla punta della lingua. Poi ci pensi meglio e ti accorgi che non è così, in realtà il nome non l’hai mai saputo.
Il nostro uomo è così.
Appare e scompare in molti, troppi fatti di sangue.
Per il Nano è un portatore di informazioni, uno che vendeva notizie riservate sulle attività di varie forze di polizia e in cambio veniva pagato, anche con oggetti preziosi come gioielli e orologi. Questa operazione di riscossione Faccia da Mostro (così lo ha ribattezzato Vincenzo Agostino, il padre di Nino, l’agente ucciso dalla mafia che conosceremo nei prossimi capitoli) la portava avanti anche nei confronti di diverse ’ndrine. Chiedeva il pizzo alla mafia, per così dire.
«Questo personaggio, parlando con me, si vantava di avere ucciso anche un bambino» afferma Lo Giudice. Sono le prime tracce di un percorso di sangue che si è dipanato per un intero decennio e anche oltre, come vedremo punto per punto.
Il Nano parla anche di tutta una serie di azioni criminali di Faccia da Mostro, a partire dall’omicidio di un poliziotto, Nino Agostino, e della moglie, e…
Ma non acceleriamo troppo.
Lo Giudice si sta rilassando, la paura che gli ispira il killer non lo ha certo abbandonato, ma col passare del tempo le sue risposte si fanno più fluide, il suo discorso più elaborato. A sorpresa, svela anche che in alcune occasioni Faccia da Mostro si è presentato con una donna. «Qualche volta lei ha maneggiato le armi in mia presenza, facendo il gesto della scarrellata». E da qui sembra che la realtà lasci veramente il posto a una sceneggiatura hollywoodiana. Abbiamo una complice con una particolare attitudine all’uso delle armi, e altri elementi che un produttore cinematografico riterrebbe forse eccessivi, poco realistici: pare che sia lui che la donna guerriera siano stati addestrati in un campo paramilitare in Sardegna. Sembra che in qualche modo c’entri Gladio. E sembra che Faccia da Mostro sia coinvolto in parecchi crimini eccellenti: è stato avvistato all’Addaura, quando per la prima volta hanno cercato di far saltare in aria il giudice Falcone, l’hanno individuato sulla scena del crimine di tre, quattro omicidi, difficile dirlo con certezza.
Sospetti molti, avvistamenti parecchi. Brandelli di verità che vanno a comporre un ritratto oscuro, non meno deturpato del volto su cui tutte le descrizioni concordano.
Il Nano, seppur vinto da quella ritrosia così insolita per lui, ha fornito anche dei dettagli significativi, ha citato persino la marca di champagne preferita del soggetto. Soprattutto, ha detto che esistono delle foto. Sì, perché per Lo Giudice lo shock è stato tale che ha deciso di andare a fondo della questione. Determinato a scoprire chi fossero quei due, Faccia da Mostro e la donna esperta di armi, ha chiesto a un affiliato della sua ’ndrina, Antonio Cortese, di seguirli. Cortese si è infilato in macchina, si è messo sulle tracce dell’auto su cui viaggiava lo sfregiato, una Range Rover scura, ed è arrivato fino alla provincia di Catanzaro, quasi davanti al mare. Lì è riuscito a strappare qualche scatto di straforo.
Ha consegnato le foto al Nano, che adesso ha giurato di darle al magistrato.
Il problema però è che un simile materiale non si può certo infilare in una busta con un francobollo da novanta centesimi e aspettare che le poste lo portino a destinazione.
Ci sono procedure precise, e il magistrato Donadio ha insistito per seguirle con scrupolo.
Senza mai interrompere la registrazione, convoca il capo scorta e gli consegna due buste bianche con il timbro della DNA, la Direzione nazionale antimafia.
Insieme alle buste, gli affida istruzioni chiare. Alla fine dell’interrogatorio Lo Giudice deve essere portato nel domicilio protetto, che Donadio non conosce e non vuole conoscere.
Il pentito non deve far altro che salire nel suo appartamento, mentre la scorta lo aspetta in strada, mettere le foto all’interno delle buste, scendere e consegnarle. Semplice, no? Cosa potrebbe andare storto?
15 dicembre 2012, le buste tornano
È sabato mattina, in ufficio alla procura nazionale antimafia in via Giulia a Roma non c’è molta gente, e del resto chi volete che ci sia, manca poco a Natale ed è pure stato proclamato un qualche sciopero. Il procuratore stesso è fuori per altri impegni.
Gianfranco Donadio invece è alla sua scrivania.
Il dottor Riccardo Trotter, del Servizio centrale di protezione, bussa alla sua porta verso mezzogiorno. Deve consegnare qualcosa. Il plico è chiuso, lo stemma della DNA ben visibile, il destinatario è indicato correttamente. Tutto come da istruzioni. Trotter si congeda e Donadio aspetta, la mano sulla busta. Ovviamente non è il caso di tirar fuori materiale così delicato davanti a testimoni.
Appena rimane da solo nel suo ufficio Donadio apre il plico. Prende la precauzione di non recidere il nastro adesivo che lo sigilla sul davanti, lo apre di lato, anche per non distruggere le impronte digitali.
Le buste sono una dentro l’altra, un’ulteriore misura di sicurezza che era stato lui stesso a raccomandare. Apre la prima, estrae la seconda. Il materiale vero è qui dentro. Il primo foglio è un semplice A4 bianco, poche righe scritte a mano con la grafia incerta del Lo Giudice, un uomo che ha più dimestichezza con le armi che con la penna. Per quanto l’it...