Come potrebbe essere il domani
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Come potrebbe essere il domani

Perché la scienza può rendere il nostro futuro migliore

  1. 224 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Come potrebbe essere il domani

Perché la scienza può rendere il nostro futuro migliore

Informazioni su questo libro

In un'epoca di sconvolgimenti globali - pandemici, climatici, sociali e politici - la scienza è il filo d'Arianna. Solo un forte ritorno di fiducia collettiva e di investimenti nella ricerca guiderà la società fuori dal labirinto e la sua intelligente resilienza ci proietterà ancora una volta verso il futuro. Sfruttando lo sguardo a vasto raggio del Consiglio Nazionale delle Ricerche, ente di ricerca numero uno in Italia e tra i principali in Europa e nel mondo, che nel 2023 celebra i primi cent'anni, Massimo Inguscio e Gabriele Beccaria viaggiano dal passato al presente, verso il domani, esplorando le nuove frontiere: Intelligenza Artificiale, super-computer, tecnologie quantistiche, biomedicina, climatologia, bio- economia, digital humanities. Scopriremo come si imita la capacità delle piante di trasformare la luce in energia e cibo. Esploreremo le personalità multiple dell'Intelligenza Artificiale e le opportunità controintuitive delle tecnologie quantistiche. Accarezzeremo alcune idee anticonvenzionali per metterci al sicuro dai disastri climatici e indagheremo come si dà la caccia ai virus. Studiando i cervelli biologici, approderemo a quelli sintetici per spingerci sulla Luna, Marte e oltre. È un viaggio verso un domani che prende forma adesso e che ha bisogno della libera creatività di ricercatrici e ricercatori, di strategie multidisciplinari e di una ritrovata consapevolezza da parte delle élite politiche e imprenditoriali. Tutto ciò dipenderà dalla capacità di tutti noi di comprendere il vero valore della scienza, compiendo uno sforzo di immaginazione e volontà, lasciandosi conquistare dalla meraviglia che la ricerca scientifica e la tecnologia sanno suscitare.

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Informazioni

1

Inseguendo la profezia di Fermi

Era l’ultimo incontro. Di corsa verso Varenna, sul Lago di Como, il professore vuole ancora un consiglio dal maestro, premio Nobel. I fili della storia e dei reciproci destini si sarebbero annodati di nuovo.
Estate 1954. Il professore si chiama Marcello Conversi e insegna fisica all’Università di Pisa. Il premio Nobel è Enrico Fermi. A unirli è una domanda apparentemente bizzarra. Qual è il modo migliore di spendere 150 milioni di lire?
Oltre che brillante, Conversi, destinato a dirigere il progetto per la realizzazione del Centro di calcolo elettronico CSCE, è fortunato. Ha a disposizione una cifra notevole, che all’inizio del XXI secolo equivale a oltre 2 milioni di euro, e di fronte un personaggio – Fermi – che lo fissa con la preveggenza dell’oracolo. È lui che gli ha spiegato i principi della fisica negli anni Trenta, prima di rifugiarsi negli Stati Uniti, e l’ha accolto nella sua casa di Chicago nel 1947, come ricercatore fellow. Conversi si è lasciato catturare da quell’intelligenza che i testimoni hanno definito cristallina, capace di attrarre a sé i problemi come un campo gravitazionale fa con la luce e di deviarne gli enigmi verso soluzioni eleganti. Anche adesso, nel 1954, alla Scuola internazionale di fisica, fondata da Giovanni Polvani l’anno precedente (diventerà presidente del CNR nel decennio successivo, tra il 1960 e il 1965), la sensazione è quella di trovarsi a un passo da un’altra emozionante rivelazione.
«Costruite una calcolatrice elettronica» è il responso, a sorpresa, di Fermi rivolto a Conversi e ad altri due pesi massimi della fisica, Gilberto Bernardini e Giorgio Salvini. E la scelta del verbo è importante: «costruite», non «acquistate». Il messaggio è una scossa per il mondo accademico italiano, convinto che le calcolatrici siano un business da lasciare alle aziende, invece che un’opportunità per fare scienza ai massimi livelli. Prima di avere tra le mani la nuova macchina, con cui addentrarsi in calcoli che carta, matita e regolo faticano a gestire, è essenziale – ammonisce il Nobel – affrontare le questioni necessarie per realizzarla. Teoriche e pratiche. Il suggerimento di Fermi è mettere al lavoro una squadra composita, di fisici, ingegneri e matematici. È il concetto di team – destinato a diventare onnipresente nel XXI secolo –, ed è lo stesso che aveva ispirato il suo lavoro a Roma, in via Panisperna, e poi negli Stati Uniti, con la pila atomica e il Progetto Manhattan per la realizzazione della bomba atomica.
Il consiglio è il presagio di un futuro alle porte, che Fermi sa essere inevitabile. Vuole che l’Italia entri a farne parte, diventando protagonista di una gara scientifico-tecnologica che avrà pochi vincitori e molti vinti. Il suo suggerimento viene rafforzato da una lettera. Il Nobel la scrive al rettore dell’università di Conversi: si chiama Enrico Avanzi ed è un altro cervello capace di guardare lontano. Agronomo e genetista, ha fatto dell’ateneo pisano quello che più tardi sarebbe stato trendy definire un «centro d’eccellenza». La calcolatrice – gli suggerisce Fermi – «costituirebbe un mezzo di ricerca di cui si avvantaggerebbero in modo oggi quasi inestimabile tutte le scienze e tutti gli indirizzi di ricerca».
Nei decenni ci siamo abituati a certe bizzarrie dei Nobel, così innamorati di se stessi da lanciarsi in provocazioni estreme, fino a corteggiare l’autodistruzione: è successo – ed è un caso clamoroso – a James Watson, scopritore della struttura del DNA, e poi scioccante sostenitore dell’inferiorità intellettuale delle donne e dei neri. Ma, nel caso di Fermi, la bizzarria è di altro tipo. Si tratta dell’assaggio di un domani che pochi hanno in mente, perché circoscritto a un’élite di studiosi di cui l’opinione pubblica non sa quasi nulla: è il mondo dell’onnipotenza del calcolo, all’epoca in embrione, che ci porta, mezzo secolo dopo, nell’era del Big Data, del digitale e delle reti neurali che animano le esibizioni dell’Intelligenza Artificiale.
Se si ama ricordare Fermi per le ricerche sulla radioattività ai tempi di via Panisperna, il tormentone sul suo gruppo di giovani promesse follemente disperso – Emilio Segrè, Franco Rasetti, Bruno Pontecorvo, Edoardo Amaldi ed Ettore Majorana – ha il difetto di oscurare molto altro. Di passare sotto silenzio, prima di tutto, la sua frequentazione con le questioni delle simulazioni numeriche e con lo scatenamento dei calcolatori. Analogici e digitali.
A Varenna Fermi incontra Conversi per l’ultima volta tre mesi prima di morire. Si parlano nella scuola di fisica che l’anno dopo, nel 1955, gli sarebbe stata intitolata con una commemorazione del Nobel statunitense Isidor Isaac Rabi, lo scopritore della risonanza magnetica nucleare, alla base del test medico che rende visibili i tessuti e gli organi del corpo. Ora l’universo mentale di Fermi è arrivato a una tale estensione che dei computer non può più fare a meno, come un esploratore cinquecentesco a bordo del suo galeone o un astronauta del XXI secolo ai comandi della propria nave spaziale. Li ha seguiti passo dopo passo, nella loro sempre più veloce evoluzione, e una di queste macchine – il FERMIAC – porta il suo nome.
Qualche anno prima, nei laboratori di Los Alamos, in New Mexico, Fermi aveva stretto amicizia con un altro genio in fuga, l’ungherese John von Neumann, tra i padri dei calcolatori elettronici. E lì ha vissuto la folgorazione per i primi strumenti che sanno tradurre i numeri e le formule in calcolo automatico. Nel 1943 se dicevi calcolatore – o computer – i più avrebbero pensato a esseri umani dotati di talenti speciali, non a ingombranti strumenti a base di valvole e affamati di energia elettrica: in genere chi faceva i conti, infatti, erano ragazze brillanti e blandamente ossessive, relegate in uffici-ghetto per controllarne l’esuberanza intellettuale.
Ma i rapporti tra umani volenterosi e oggetti sapienti stavano per cambiare per sempre, come aveva compreso Fermi. Abbandonata la fedele calcolatrice meccanica Brunsviga, «made in Germany», regredita a fossile dell’Europa stravolta dalla guerra, trascorre ore a studiare un successore che ha del meraviglioso. È un computer IBM, a schede perforate, ideato e assemblato da altri fisici come lui. Uno è il quasi dimenticato Nicholas Metropolis, mentre l’altro ha appena venticinque anni e diventerà una star. La sua popolarità tracimerà, trasformandolo in personaggio della cultura pop. Si chiama Richard Feynman e nel 1982 lancerà un’idea fondamentale per la creazione dei calcolatori del secolo successivo: è l’intuizione del simulatore quantistico.
Forse la bomba atomica non sarebbe nata così velocemente senza le istruzioni contenute in quelle schede. Di sicuro Fermi e un altro collega destinato a fare storia, Edward Teller, si convincono che la progettazione, nel dopoguerra, della nuova bomba a idrogeno ha bisogno di un’ulteriore potenza di elaborazione, non disponibile ai tempi del Progetto Manhattan: a fornirla sarà un computer chiamato ENIAC. Debutta il 16 febbraio 1946, all’Università della Pennsylvania. Occupa un po’ meno di 200 metri quadrati, pesa oltre 30 tonnellate ed è costato quasi mezzo milione di dollari. I «nerd» dell’informatica lo considerano il primo computer elettronico «general purpose», capace di oltrepassare i limiti di un compito specifico e di svolgere più funzioni: un passaporto universale per il futuro, non dissimile dai laptop di cui non possiamo fare a meno nel XXI secolo.
A Philadelphia Fermi contempla un prezioso elemento dell’astronave che condurrà l’umanità in un’epoca cognitiva in cui ogni problema può essere sottomesso alle leggi della matematica. Velocemente e con efficacia che si pretende suprema. Ma – come sa bene – tutto è cominciato tempo prima, in un accidentato viaggio di scoperta, negli anni Venti del Novecento. È il periodo, insolitamente breve, in cui il futuro Nobel è stato nominato professore a Firenze. Ed è un momento chiave che gli storici tendono a dimenticare. A torto. Si impegna in una ricerca che diventerà nota tra gli addetti ai lavori come «statistica di Fermi» e che alcuni specialisti giudicano il suo lavoro di fisica teorica più importante. Sotto la lente ci sono le stranezze della materia, contemplata con lo sguardo multiplo dell’insetto.
Quella realtà è ai limiti dell’intrattabile, la stessa che un giorno avrà bisogno dell’intervento di valvole, transistor e chip. Una realtà quantistica, relegata nell’infinitamente piccolo. Al centro ci sono popolazioni di particelle che non possono essere inseguite singolarmente, una a una, mentre l’obiettivo dello studioso è calcolarne l’energia e poi dedurre i valori delle grandezze macroscopiche che dipendono proprio da queste energie.
Sono necessari calcoli complessi e ripetitivi, se si vuole venire a capo di quel caos e dargli una parvenza di ordine. Nel 1946, a Philadelphia, il matematico Stanislaw Ulam vedrà nelle super-prestazioni dell’ENIAC un’opportunità unica per rendere operative alcune delle rappresentazioni statistiche previste da Fermi un paio di decenni prima. Così si mette al lavoro e gli suggerisce un’ulteriore avventura: dal momento che l’ENIAC deve essere smontato e trasportato nella base dell’esercito ad Aberdeen, nel Maryland, quel tempo morto che rischia di restare a secco di calcoli potrà essere riempito con le operazioni di un dispositivo analogico, il FERMIAC. Sui suoi piccoli tamburi dorati – ideati da Fermi – si materializza un modello matematico che analizza gli schemi di comportamento dei neutroni e le loro collisioni.
Arrivato a Varenna, a tu per tu con Conversi, e con Bernardini e Salvini, il fisico Fermi adotta la logica del biologo: osserva con fredda passione l’evoluzione di una specie aliena che sta affiancando le capacità cognitive dell’uomo e dà loro nuova linfa. Due anni prima, a Los Alamos, è entrata in funzione un’altra macchina, dallo splendido acronimo di MANIAC, costruita sull’architettura suggerita dall’onnipresente Von Neumann: compito numero uno è analizzare la complessità dei processi termonucleari e ci si convince che, una volta affrontata la microdimensione dell’atomo, non ci sarà problema che non possa essere trattato. Il nome dà un’idea del furore di cui quei circuiti si riveleranno presto capaci. Ecco il senso del messaggio contenuto nella lettera al rettore Avanzi.
Abituato alla supersonica velocità di reazione del mondo accademico e industriale degli Stati Uniti, Fermi non fa accenni espliciti ai tempi. Forse sbagliando. Il computer che consiglia di progettare e che diventerà noto con la sigla di CEP, Calcolatrice Elettronica Pisana, vedrà la luce solo dopo cinque anni, entrando finalmente in funzione nel 1961. La corsa, faticosa, arriva alla meta e tuttavia il record è sfumato. Altri computer sono già comparsi in Italia, sebbene più piccoli e comunque acquistati, non progettati e costruiti, come, saggiamente, chiedeva il Nobel. Appena due mesi dopo la visita di Fermi a Varenna sbarca a Milano, all’Istituto di elettrotecnica generale, un esemplare made in USA: si tratta del CRC-102. Comprato per 120.000 dollari dalla società californiana Computer Research Corporation, diventa il primo in assoluto a entrare in funzione, mentre a Ivrea l’attivismo di Adriano Olivetti non conosce soste. Già nel giugno 1954, poco prima del viaggio di Fermi, aveva convinto l’ingegnere italiano di origine cinese Mario Tchou a lasciare gli USA e a dirigere il Laboratorio di ricerche elettroniche a Barbaricina, non lontano da Pisa. E nella primavera del 1957 è felice di battezzare a Ivrea il primo modello della fortunata serie ELEA.
Nell’informatica il tempo è una funzione decisiva, come ci insegnerà, a partire dagli anni Settanta, la celebre legge di Moore, secondo la quale le prestazioni dei microprocessori, misurate attraverso il numero dei transistor per chip, raddoppiano ogni diciotto mesi. Alla fine degli anni Dieci del Duemila questa legge è entrata in crisi. Per alcuni studiosi appare perfino superata, e tuttavia è noto che, quando si maneggia la potenza di un calcolatore, ogni rallentamento e ogni accelerazione dei tempi genera conseguenze imprevedibili. Nel caso della CEP il fardello dei cinque anni si sente. Nel momento in cui l’elettricità inizia a percorrerla, è un ibrido, idealmente sospeso tra l’era dei prototipi e quella delle apparecchiature avanzate. La struttura, più ingombrante di un grosso armadio, comprende sia vecchie valvole sia nuovi circuiti a transistor.
Si tratta, comunque, di un ibrido riuscito. Che sa cogliere molti successi. Nata grazie alla dedizione di Conversi, nel frattempo nominato direttore dell’Istituto di fisica dell’Università di Pisa, e del matematico Alessandro Faedo, destinato a diventare presidente del CNR dal 1972 al 1976, CEP dimostra di essere una delle macchine più potenti d’Europa e, pochi mesi dopo l’impresa spaziale di Jurij Gagarin, il primo uomo a orbitare nello spazio, inizia a essere utilizzata per quelle ricerche che Fermi aveva immaginato. Tra queste, ci sono anche delle indagini sulla struttura logica che possono adottare i calcolatori.
Se i tempi si sono dilatati più del dovuto, lo sforzo della progettazione e della costruzione ha comunque scatenato forze positive. È il riverbero di creatività e innovazione che Fermi aveva sperimentato negli USA e che voleva consegnare, come eredità, all’Italia: CEP prospera, perché sboccia da un centro dedicato, come un bozzolo per la futura farfalla. Nel super-laboratorio pisano è impegnata una grande squadra di sessanta specialisti, per lo più matematici, fisici e ingegneri. Non è un caso che nel 1962 il centro entri nell’orbita del CNR e, dopo una serie di metamorfosi, si trasformi nell’Istituto di scienza e tecnologie dell’informazione Alberto Faedo e nell’Istituto di informatica e telematica.
Fragile e forte allo stesso tempo, come spesso accade per molte iniziative italiane, l’informatica prende il volo. Pisa sarà con Ivrea uno dei fuochi dell’ellisse che mette in comunicazione cervelli, idee e prodotti. Peccato che il sogno di Fermi inizi rapidamente a degradare in una realtà contraddittoria. Mentre prende forma, è circondato da miraggi evanescenti. E accanto al sogno spuntano i primi incubi. Olivetti muore nel 1960, un anno prima che CEP si accenda, e quattro anni più tardi, nel 1964, la sua straordinaria divisione di computer si sfalda: viene venduta – o meglio svenduta – all’americana General Electric e il primato tecnologico dell’Italia viene perduto. Mentre si vive il Boom, avvolto dalla luccicante mitologia di auto e frigoriferi, pochi si rendono conto della sua debolezza. L’informatica, insieme alle infrastrutture energetiche e alla ricerca biomedica, vive uno splendore effimero e di lì a poco comincerà una fuga di cervelli che un sessantennio più tardi continua indisturbata.
Chissà quale sarebbe stato il commento di Fermi, prematuramente scomparso nel novembre 1954. Von Neumann muore nel febbraio 1957, anche lui nel pieno della creatività, a cinquantaquattro anni. Non sappiamo quali direzioni avrebbero imboccato la fisica e la matematica e – di conseguenza – i computer, se il destino avesse dato loro più tempo. Fermi, è probabile, non si sarebbe risparmiato. Avrebbe inviato altre lettere d’incoraggiamento agli amici professori e accettato altri deferenti inviti dai rettori per spronarli e spiegare l’indispensabilità di inoltrarsi nel super-calcolo. Il rimpianto di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato è inevitabile, ed è spontaneo immaginare sviluppi alternativi. Tuttavia, indagando il genio di Fermi, si corre sempre a perdifiato. E l’eccitazione delle sue scoperte attenua gli interrogativi più cupi. Fermi ha consegnato messaggi e pronunciato profezie. Molte rotte che aveva intuito ci sono di fronte nel XXI secolo. Il suo sapere assomiglia a un oceano nel quale navighiamo adesso e del quale non possiamo dire di conoscere i limiti.
Viaggiatore nel tempo, Fermi ci ha proiettato in una serie di futuri multipli, che all’inizio degli anni Venti del Duemila suggeriscono prospettive entusiasmanti. I computer e l’epoca digitale, certo, in compagnia dell’Intelligenza Artificiale. Ma la sua statistica è anche alla base del prodigioso sviluppo della fisica dei semiconduttori e, indicandoci le tecnologie che sfruttano l’interazione tra luce e atomi, ha annunciato una nuova era per la superconduttività e la superfluidità, fenomeni che permettono ad alcuni materiali, a temperature prossime allo zero assoluto, un’elevatissima conducibilità elettrica o termica. A fare da palcoscenico per questi intrecci – temporali e concettuali – sono stati, nel 2016, due eventi, uno organizzato dall’Istituto nazionale di ottica del CNR a Firenze e l’altro dall’Accademia dei Lincei a Roma. L’occasione era il novantesimo anniversario dello studio che Fermi, giovanissimo professore all’Università di Firenze, pubblicò in un articolo per la rivista tedesca «Zeitschrift für Physik». Il titolo – ammettiamolo – suona enigmatico, se non per gli eletti: La quantizzazione del gas perfetto monoatomico.
Inoltrandosi in quelle pagine – presentate in origine sotto forma di nota proprio all’Accademia dei Lincei –, si ha a che fare con una descrizione del comportamento delle particelle che sono i mattoni fondamentali dell’universo, a cominciare da elettroni, protoni e neutroni. Una famiglia che oggi, in suo onore, li riunisce sotto il nome di fermioni. E, così, nel Salone dei Cinquecento la statistica di Fermi è riemersa nel suo inattaccabile splendore. I suoi primi novant’anni – hanno spiegato, tra gli altri, Sandro Stringari e Rudolf Grimm – le hanno fatto bene. Benissimo. Ne hanno dimostrato la potenza e il fascino. Dallo studio delle particelle elementari alle indagini dell’astrofisica, fino alla fisica dei superfluidi, ispira ricerche in campi diversi e dà vita ad applicazioni che nel 1926 sarebbero state fantascienza: mentre cambiano la visione della natura, le «nuvole» di fermioni, raffreddate a pochi miliardesimi di grado sopra lo zero assoluto (temperatura che equivale a –273,15 gradi Celsius), sono diventate il motore dell’high-tech digitale e si spingono verso la prossima frontiera dei computer quantistici.
Questa rivoluzione concettuale – analizzata nell’ubiquità dei suoi aspetti durante l’evento di Palazzo Corsini a Roma – non si lascia svelare facilmente (altrimenti come potrebbe essere tale?): proiettata sulla Terra ed espansa nell’Universo, si inoltra nella superconduttività o nelle collisioni nucleari ad alta energia e si spinge nelle stelle di neutroni. E...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Come potrebbe essere il domani
  4. Prologo
  5. 1. Inseguendo la profezia di Fermi
  6. 2. La pandemia e la rinascita
  7. 3. In viaggio verso l’inatteso pianeta Q
  8. 4. L’inquieta compagnia delle Intelligenze Artificiali
  9. 5. L’acqua, la luce e l’imitazione delle piante
  10. 6. La memoria del ghiaccio e l’ultimo appello per la Terra
  11. 7. I dannati di Dante e il problema dell’incertezza
  12. 8. L’immaginazione e l’imprevedibilità
  13. Ringraziamenti
  14. Copyright