Ma se io volessi diventare una fascista intelligente?
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Ma se io volessi diventare una fascista intelligente?

L'educazione civica, la scuola, l'Italia

Claudio Giunta

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  1. 176 pagine
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Ma se io volessi diventare una fascista intelligente?

L'educazione civica, la scuola, l'Italia

Claudio Giunta

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«Ma se io volessi diventare una fascista intelligente, perché mai la scuola e lo Stato dovrebbero impedirmelo?» Claudio Giunta se l'è sentito chiedere da una studentessa alla fine di una lezione in un liceo. Una domanda niente affatto banale - anzi, acuta e attualissima - che avrebbe meritato una risposta chiara e articolata, se un insegnante non l'avesse subito bollata come «provocazione», troncando ogni possibilità di dialogo. Questo libro nasce anche dal desiderio di dare una risposta sensata al quesito che la studentessa ha posto con ovvio intento polemico: «Lo Stato e la scuola» osserva Giunta «non dovrebbero impedirle di diventare una fascista intelligente, ma dovrebbero agire in modo tale da non fargliene venire la voglia, e prima della voglia l'idea». Per raggiungere questo obiettivo le prediche non servono, anche perché rischiano di sollecitare negli studenti o un assenso puramente formale, non meditato né sentito, o un'altrettanta irriflessa reazione di antagonismo. Ecco perché bisognerebbe ripensare in particolare all'educazione civica, una materia che nel corso degli ultimi decenni ha faticato a trovare spazio e senso nel curriculum scolastico, nonostante l'impegno degli insegnanti e le buone intenzioni della «pedagogia ministeriale», e che anche ora - dopo la legge 92 del 2019 che la reintroduce in tutte le scuole - rischia di disperdersi «in una nuvola di retorica» e di contribuire a produrre non «cittadini consapevoli ma credenti ed eretici». Agile, ironico, allo stesso tempo equilibrato e tagliente, ma soprattutto profondamente antimanicheo, questo libro riflette con intelligenza sugli spazi, i tempi, i metodi e i contenuti di un approccio alla scuola che non sembra più in grado di intercettare i veri bisogni educativi dei ragazzi italiani, e osserva secondo una prospettiva nuova un insegnamento cruciale che fin qui è stato affrontato in maniera sconclusionata, retorica e persino controproducente.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2021
ISBN
9788831805612
1

Ma queste provocazioni la vogliamo smettere?1

Ho scritto un manuale di letteratura per il triennio delle superiori e da qualche anno vado nelle scuole a presentarlo. Di solito parlo con gli insegnanti, nel primo pomeriggio dopo le lezioni, ma a volte a questi incontri vengono invitati anche gli studenti. Se il numero è troppo alto (cento è più o meno la cifra limite) è quasi tutto inutile, perché metà del tempo se ne va nel tentativo di mantenere la disciplina. Ma se il numero è contenuto è una bella esperienza. Gli studenti, quando arriva qualcuno da fuori, sono abbastanza contenti, sia perché è una novità in una routine un po’ opprimente sia perché, dato che non li conosco, non li vedrò mai più in vita mia e non li giudicherò, finisce per svilupparsi – a volte, non sempre – un rapporto franco, libero: nella conversazione che segue la mia lezioncina succede che mi dicano cose che non hanno mai detto ai loro insegnanti, che mi facciano domande che fino a quel momento non hanno mai pensato di fare, o si sono vergognati di fare.
La letteratura, specie quella del Novecento, incrocia spesso questioni che riguardano il modo in cui gli esseri umani convivono, e cioè quel fascio di questioni che nella nomenclatura scolastica va sotto il nome di «educazione civica». Esempio: nel mio manuale di letteratura ho riportato i princìpi fondamentali della Costituzione, con accanto, a commento, il famoso discorso del 1955 di Calamandrei su che cos’è la Costituzione. Ma anche al di là di questo caso specifico, cioè al piccolo arbitrio di prendere la Costituzione come un «pezzo di letteratura», capita ogni tanto che i brani antologici vengano scelti non solo per la loro qualità letteraria ma anche per il loro contenuto civico e morale. Nel mio manuale c’è molto Brancati perché è sì un grande scrittore, ma anche perché dice delle cose interessanti sull’Italia nell’epoca del fascismo, e sulla vita meschina che si faceva in Sicilia negli anni Trenta e Quaranta; c’è la famosa poesia di Auden che contiene i versi «Io e il pubblico sappiamo / ciò che ogni bambino impara a scuola: / coloro a cui male è fatto, / male faranno in cambio»; ci sono Ottieri e Volponi perché insegnano cos’è stata la fabbrica nell’Italia del pieno Novecento; e ci sono molti scrittori che oltre a essere dei buoni modelli di stile insegnano cose interessanti e utili sui costumi e i malcostumi degli italiani (Salvemini, Sciascia, Pasolini, Cederna ecc.). Quando parlo con gli studenti, piuttosto che infliggergli altro Dante o altro Petrarca, senza svalutare Dante e Petrarca, cerco di interessarli a questa letteratura civile.
Tempo fa in un liceo di Milano mi è successa una cosa interessante. Avevo appena finito la mia lezione sugli illuministi lombardi e i loro eredi novecenteschi (valorizzare le glorie locali, se ci sono, è una scelta sensata). Nel discorso, non ricordo perché, era caduto anche un accenno all’impegno degli intellettuali durante gli anni del fascismo. Avevo chiesto se c’erano domande. In genere a questo punto cala il silenzio, finché un insegnante misericordioso non rompe il ghiaccio chiedendomi cosa penso delle letture dantesche di Benigni. Invece quella volta, prima ancora che io finissi di formulare l’invito, ho visto una mano ben alzata in fondo alla sala. Una ragazza sui sedici-diciassette anni: sorridente, tesa. Mi sono rallegrato e stupito, e le ho ceduto la parola. Lei si è alzata e ha detto: «Ma se io volessi diventare una fascista intelligente, perché mai la scuola e lo Stato dovrebbero impedirmelo?».
C’è stato un momento di silenzio imbarazzato. Non di tutti. I compagni che erano accanto alla ragazza non erano stupiti, mi guardavano aspettando una risposta, evidentemente la cosa era stata preparata, loro erano stati informati, forse erano d’accordo con lei: anche loro volevano diventare, o meglio volevano avere il diritto di diventare dei fascisti intelligenti. Anch’io sono rimasto per qualche secondo in silenzio, e in quei secondi ho raccolto le idee e mi sono preparato a risponderle. Che cosa le avrei detto? Come prima cosa l’avrei ringraziata per aver rotto il ghiaccio con una domanda così sincera e intelligente. Poi… Poi non so bene come avrei continuato. Forse le avrei detto che le società liberali si fondano, di fatto, sull’idea che ogni essere umano può diventare esattamente ciò che vuole diventare, purché la sua scelta non danneggi gli altri esseri umani: quindi anche una fascista intelligente. Considerata però la storia italiana del Novecento, la scuola e lo Stato (nella domanda le due istituzioni erano sovrapposte) avevano il dovere di avvertirla, la scuola del fatto che – alla luce di ciò che sappiamo essere successo negli anni Venti e Trenta – la libertà che lei stava reclamando le sarebbe stata negata nello Stato fascista che, se era conseguente, avrebbe voluto edificare; e lo Stato del fatto che esistono leggi che lasciano piena libertà ai singoli di diventare dei fascisti intelligenti, o anche dei fascisti stupidi, ma che vietano a questi fascisti intelligenti o stupidi di riunirsi in un’associazione o partito che si definisca fascista, e ciò per il timore che questa riunione porti un’altra volta a errori simili a quelli che si sono già prodotti in un recente passato: l’impiego della violenza contro i dissidenti, l’abolizione del pluralismo, la discriminazione nei confronti delle minoranze, la censura sulla stampa, il bavaglio o il guinzaglio imposto ai sindacati ecc. Insomma sì, pur ammettendo il più ampio diritto a libere opinioni su un amplissimo spettro di argomenti, il nostro è uno Stato antifascista, fondato su una Costituzione antifascista, e quindi…
Uso i verbi al condizionale perché prima che avessi il tempo di aprire bocca, un insegnante, o forse il preside, si è alzato in piedi ed è esploso in questo flusso di coscienza: «Ma come è possibile fascista intelligente non c’è intelligenza nel fascismo la violenza che avete studiato nel programma le leggi sugli ebrei la guerra ma queste provocazioni la vogliamo smettere?».
La ragazza, aspirante fascista intelligente, non ha replicato.
2

Credenti ed eretici

Non ho più dimenticato questo episodio, perché mi pare tocchi due questioni su cui di solito non si riflette a sufficienza quando si parla – come faremo qui – di educazione civica o di educazione alla cittadinanza. Due questioni, o per dire meglio i due attori che sono sulla scena: gli studenti e gli insegnanti.
Quanto agli studenti, uno scrittore italiano non ancora trentenne, Valerio Valentini, ha raccontato la sua infanzia e la sua adolescenza in un paesino abruzzese in un libro che s’intitola Gli 80 di Camporammaglia. A un certo punto c’è un passo che mi ha ricordato la ragazza della scuola di Milano:
«Fummo gli ultimi romantici» scherza Giacomo quando ci ritroviamo a parlare di quegli anni. E certo lui lo dice anche alludendo […] alla nostra sbornia fascista dei tempi delle medie. Una scelta, mi ripeto per raccattare un’attenuante, tutta istintiva e per nulla meditata: nata dalla voglia – di nuovo – di avvicinarci ai più grandi. E allora il braccio teso fuori dal finestrino dell’autobus e gli insulti all’autista che ci intimava di smetterla con certe canzoni, il ritratto del Duce appeso in classe, accanto al crocifisso, nella speranza che i ragazzi di terza, passando nel corridoio, notassero il tuo azzardo («Ma è stata la Sansoni a fartelo toglie? Vabbè, ma se sa che quella è ’na zecca travestita»), i discorsi mandati a memoria e recitati fino allo sfinimento. Il Ventennio celebrato come favola mitica […] e la storia ridotta a telenovela […]. Poi forse è vero che questa non è che sia una gran giustificazione, che in fondo è così che quasi sempre s’insinua quella fascinazione che negli anni si sedimenta in ideologia vera, e si trasforma in voto e militanza.
A noi però non accadde: tutto finì con la stessa immediatezza con cui era cominciato. Quando venne meno l’obbligo dell’emulazione […], d’incanto scoprimmo certi libri, certe canzoni, che ci convinsero in breve tempo a scavalcare la barricata.1
La «sbornia fascista dei tempi delle medie». Quando ho letto questa pagina sono rimasto colpito perché non mi ha ricordato soltanto la fascista intelligente di Milano, mi ha ricordato me stesso adolescente e l’infatuazione che sfiorò anche me non negli anni delle medie ma un po’ più tardi, l’infatuazione per gli ideali politici opposti a quelli blandamente sostenuti dalla maggioranza delle persone, insegnanti compresi, e difesi invece da certi compagni di scuola più grandi e risoluti, e anche più forti e cattivi, gente di cui in quarta ginnasio è facile voler cercare l’alleanza. Evidentemente è una trappola nella quale cadono molti ragazzini intelligenti, insicuri e narcisi, un malanno dell’età che proprio per questo andrebbe sdrammatizzato, trattato come una cosa senza importanza. Valentini parla di «certi libri, certe canzoni, che ci convinsero in breve tempo a scavalcare la barricata». Io non ricordo quali libri e quali canzoni mi abbiano fatto cambiare idea e superare quel sentimento di contrarietà. Ma certamente i responsabili furono, per me come per Valentini, libri e canzoni, e anche film e programmi televisivi: per quanto se ne parlasse male, è soprattutto dalla televisione che io e molti miei coetanei abbiamo sentito citare per la prima volta concetti, idee e nomi che poi avremmo ritrovato formulati più distesamente nei libri. Questi concetti, idee e nomi non appartenevano necessariamente, e anzi se ricordo bene non appartenevano affatto, a un orizzonte di valori che si potrebbe chiamare «antifascista»; erano soltanto qualcosa di più raffinato e complesso rispetto alla dieta culturale a cui ciascuno di noi era stato abituato nei suoi quattordici o quindici anni di vita: i discorsi di genitori, zii, nonni che avevano studiato meno di noi, le chiacchiere piene di parolacce con i compagni di scuola o di gioco, i fumetti.
Tutto questo per dire una cosa ovvia, e cioè che per far diventare più intelligenti, saggi e civili degli adolescenti, specie quelli con i pregi e i difetti che ho indicato, il mezzo migliore è esporli all’influenza della cultura. Ovvia, ho detto, ma forse non così ovvia, perché ho invece l’impressione che spesso, a scuola, per raggiungere quell’obiettivo (e vengo a dire del secondo attore sulla scena, gli insegnanti), si tenda a sostituire all’acculturazione, ossia alla persuasione indiretta, la predica, se non addirittura l’intimazione, come nel caso del preside, soprattutto quando – si capisce – a essere in questione non sono concetti o eventi freddi come la faida tra guelfi e ghibellini o la poetica di Foscolo o le ossidoriduzioni bensì concetti o eventi caldi come, poniamo, il problema della violenza politica, o quello delle migrazioni, o del rapporto tra i sessi, o appunto il problema del fascismo. Ma soprattutto a quell’età prediche e intimazioni sortiscono spesso l’effetto contrario rispetto a quello desiderato.
Che c’entra tutto questo con l’educazione civica? C’entra, perché è sui concetti caldi che verte questa vecchia-nuova materia scolastica, dunque qui più che altrove si corre il rischio che la predica prenda il posto di un’acculturazione ampia, problematica e il più possibile obiettiva.
Tempo fa ho conversato di queste cose con il giurista Fulvio Cortese, che va spesso nelle scuole a parlare della Costituzione, e mi ha confermato quello che era parso anche a me frequentando le scuole superiori, e cioè che ciò che si aspettano da lui gli insegnanti non è tanto una spiegazione quanto una perorazione:
Mi è capitato più volte di percepire una specie di aspettativa intorno a ciò che avrei detto sulla Costituzione. Mi è parso spesso che da me si volesse più un sermone che un’analisi. Ora, non c’è niente di male nel parlare della Costituzione, a scuola, come della chiave di volta della nostra vita associata. E non c’è niente di male nel leggere in classe la Costituzione per capire da dove vengono i diritti e le libertà di cui possiamo godere. Il problema sorge quando si fanno presentazioni astratte, nelle quali i grandi princìpi della Repubblica vengono rappresentati e «pre-concetti» anziché agiti e contestualizzati. Questo tipo di approccio idealizzante fa sì che quei princìpi appaiano come un Bene indistinto, inafferrabile, e perciò incomprensibile. È un Bene che non si assimila attraverso una riflessione personale ma viene calato dall’alto, da un’autorità percepita come superiore, non soggetta a discussione […]. La Costituzione è uno spot all’interno di un messaggio di cittadinanza o di convivenza terribilmente vago ed eterogeneo, una sorta di nutshell di civismo dei nostri tempi: più che istruire si sensibilizza (il che, mi pare, non dovrebbe accadere).2
Non istruire ma sensibilizzare. Un insegnamento impostato in questo modo – e s’intende che ciò che vale per la Costituzione vale per la Resistenza, il razzismo, l’eguaglianza tra i sessi, l’immigrazione, la droga – va soggetto alle aporie di qualsiasi dottrina che sia, appunto, calata dall’alto: crea un piccolo numero di eretici per partito preso (la fascista intelligente) e un gran numero di credenti anch’essi per partito preso, cioè per indolenza: più o meno il contrario di quella che dovrebbe essere un’educazione liberale, o l’educazione tout court.
Ora la legge 92 del 20 agosto 2019 reintroduce l’educazione civica in tutte le classi di tutte le scuole italiane, e leggendone il testo ho avuto precisamente questa impressione. Da un lato, mi è sembrato di vedere i segni di un fenomeno che mi pare affiori spesso nella scuola e nei discorsi sulla scuola, e cioè una scarsa fiducia, anche da parte di certi insegnanti, in quello che possiamo chiamare il normale processo di acculturazione, il suo oblio addirittura: come se insegnare bene italiano, matematica, storia, fisica, geografia, il curriculum tradizionale insomma (con le giuste addizioni: inglese, informatica), non fosse veramente il modo migliore per formare dei ragazzi intelligenti e consapevoli; come se per insegnare a essere civili ci fosse bisogno di creare la materia «civiltà». Dall’altro, mi è sembrato di notare l’intenzione di inculcare negli studenti non tanto delle idee o delle nozioni quanto dei valori, con il rischio suddetto di produrre non delle persone sapienti e pensanti ma dei credenti e degli eretici.
3

Liceo d’Azeglio, sezione F

Torneremo su entrambi questi punti. Prima però è bene dare qualche informazione di contesto, e in particolare qualche informazione storica, perché dalla storia di questa disciplina fantasma – dall’oscillazione dei nomi con cui la si è battezzata, dalla varietà degli obiettivi che le sono stati assegnati nel volgere del tempo e dei governi – si può forse dedurre qualcosa intorno all’idea che gli italiani hanno avuto e hanno dell’istruzione scolastica.
Naturalmente l’educazione civica a scuola c’era già, anche prima della legge 92. Più di trent’anni fa, al Liceo Massimo d’Azeglio di Torino, l’educazione civica ce la insegnava il professore di storia e filosofia, un uomo colto, destrorso, con il pallino del cristianesimo primitivo e delle eresie manichee (il collegamento tra l’essere destrorso e la devozione a Mani non eravamo ancora abbastanza scaltriti per farlo). Ho detto ce la insegnava ma in realtà sarebbe più giusto dire che avrebbe dovuto insegnarcela, perché per una serie di circostanze (la principale delle quali era l’overdose di lezioni sulle eresie manichee) i libri di educazione civica non vennero mai aperti, e a distanza di tanti anni sono ancora qui, intonsi, su uno scaffale della mia libreria. Si tratta di Introduzione alla Costituzione di A. Baldassarre e C. Mezzanotte (La...

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