Never Quiet
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Never Quiet

  1. 592 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Never Quiet

Informazioni su questo libro

In Italia esistono mille modi diversi perconvincere qualcuno a desistere dal farequalcosa. Il romano Gnafà, il perentorioveneto Non se pol, il laconico piemontese Niente da fé. Oscar Farinetti se l'è sentitodire spesso, ma ha avuto sempre la megliola scimmietta un po' fuori di testa che dasessantasette anni vive sulla sua spalla e lospinge costantemente verso nuove imprese.Alcune finite molto bene, altre meno.
Sia Oscar sia la sua scimmietta sanno peròche nella vita se non ci si mette in camminonon si arriva da nessuna parte, e chel'indecisione provoca uno stato di infelicità, per sé e per gli altri. "Bad decision isbetter than no decision" è una delle primelezioni di questo libro: si prende una direzionee si tengono gli occhi bene apertisulla strada. Troppo lavoro, poco lavoro, padroni egoisti, lavoratori scansafatiche, giovani indolenti, anziani egocentrici...Perché ci sentiamo sempre vittime di qualcunaltro?
Oscar Farinetti si è ribellato a tutto questoe nel libro che avete tra le mani raccontacome ci è riuscito. Dai primi anni a fiancodel padre fino alla sua rocambolesca esperienzada leader, ci mostra cosa significaper lui "fare impresa" con coraggio e qualisono i valori essenziali del buon "mercante", ma anche cosa vuol dire scontrarsicon la burocrazia e come scegliere buonicompagni di viaggio. La storia di Oscardimostra infatti quanto sia importante lasquadra con cui si sceglie di lavorare, e imolti amici che sono ancora con lui e sidivertono come matti quando lo vedono"intignarsi" in un nuovo progetto. Nel libroci sono anche loro, ma c'è soprattuttol'accanimento lucido e irriverente di unascimmietta inquieta.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2021
Print ISBN
9788817157964
eBook ISBN
9788831805391
Argomento
Business

Il senso della vita… tra doveri e piaceri

Parte II, Capitolo 29

From duty to beauty: Green Pea

Torino, 2014 – 9 dicembre 2020
Oscar ha sempre avuto un debole per le figure retoriche. Si compiace di sfoderarle frequentemente, trovando che rendano originali e memorabili i suoi discorsi. La sua preferita è forse l’ossimoro. La mia, ça va sans dire, è l’iperbole.
Chi aveva confidenza con lui lo prendeva in giro per questa sua/nostra mania di infilare «-issimi» e «il più… al mondo» in ogni frase. Chi invece lo conosceva meno, di norma rimaneva stordito da tutti quei superlativi e punti esclamativi (che quando lui parlava si vedevano a occhio nudo).
Esistevano centinaia di prodotti, perfino nella medesima categoria, che si beccavano il primato assoluto. Diceva: «Ecco il vino più buono del mondo» (barolo). E poco dopo: «Questo è il migliore sulla faccia della Terra» (pinot nero). Il bello è che ogni volta gli sembrava vero, e in un certo senso lo era. Perché quei superlativi erano un’espressione di meraviglia, di entusiasmo sincero e appassionato, dunque non potevano davvero essere in contrasto tra loro. C’erano decine e decine di, mettiamo, scrittori che lui definiva di volta in volta «il più grande di tutti i tempi». Lo stesso avveniva per architetti, chef, pastai, imprenditori, cantanti, artisti. Il tizio che Oscar si trovava davanti, purché si rivelasse in possesso di un talento fuori dal comune, era sempre il migliore. Però mai che qualcosa o qualcuno fosse «il peggiore al mondo», a Oscar la negatività non interessava. Del brutto e del cattivo fingeva di non accorgersi neppure. Preferiva concentrarsi sul bello, dunque adorava far complimenti iperbolici.
A eufemismi e circonlocuzioni ricorreva invece quando c’era qualche punto debole che saltava agli occhi. A proposito di un barbaresco di Gaja diceva per esempio: «Be’, magari il prezzo di questo vino non è tra i più convenienti, tuttavia possiamo affermare che è sostenibile per un appassionato dal medio portafoglio». Un giorno che un cliente gli fece notare che in negozio si moriva dal freddo, replicò: «Concordo con lei che non c’è la temperatura dei Caraibi, dovremo rivedere l’equilibrio tra risparmio energetico e comfort umano. Ci scusi».
Gli ossimori, poi, erano per lui il modo migliore per definire l’unicità della sua offerta. «Dobbiamo essere capaci di creare luoghi informali e autorevoli.» «Vorrei che foste capaci di esprimere orgoglio e autoironia.» «La mia filosofia è altissima qualità e prezzi sostenibili.»
Con le metafore e i paragoni si divertiva un sacco a conquistare i clienti. «Entrare dentro un Eataly è come tuffarsi nell’acqua fresca dopo venti minuti di sauna. Buttatevi!» Oppure: «Basta una leccata a questo gelato per sentirsi come seduti in un prato, all’ombra di un pesco in fiore, mentre godi della brezza che giunge dal mare». Una volta a un giornalista, che gli chiedeva come si sentisse dopo essersi beccato, nei social, un bel po’ di critiche anonime, rispose: «Mi sento come Eschilo quando diceva: “Non è felice l’uomo che nessuno invidia”».
Questo modo di usare le parole era diventato per lui così naturale da determinare addirittura la forma dei suoi progetti. Nel senso che certe idee strutturali erano in sé figure retoriche. Prendete l’ultima (per ora) in ordine di tempo, Green Pea. Intanto il nome nasceva da una metafora. Il pisello sferico a rappresentare la Terra. E poi verde, come la Terra sarebbe dovuta tornare. Si era inventato un pay off costituito da una specie di ossimoro, per di più assonante: «From duty to beauty». In quello slogan di quattro parole c’era tutta la vision di Green Pea.
«Se vogliamo modificare definitivamente il nostro atteggiamento di consumo, puntando alla sostenibilità, occorre trasferire il valore del rispetto dal senso del dovere a quello del piacere. Dobbiamo comportarci bene perché ci sentiamo fighi a farlo. Se continuiamo a parlare solo di senso del dovere ci metteremo una vita. Il dovere è vissuto come fatica, dolore, sacrificio. Voglio sentire un ragazzo di vent’anni che dica: “Faccio la differenziata perché poi lo racconto in giro e cucco di più”. Voglio vedere gente che prova invidia per una famiglia che in casa utilizza energia da fonti rinnovabili. Mica rispetto, e neanche ammirazione, invidia! Voglio vedere una bella ragazza che si rifiuta di salire sul suv di Mario, perché preferisce la piccola auto elettrica di Giorgio. E che proprio per questo trova Giorgio molto più figo di Mario. Voglio vedere un tipo che sulla camicia, invece di farsi ricamare le iniziali, ci fa scrivere “Organic cotton Ogm free” e che, mostrandola, ne va fiero. Il rispetto dell’ambiente deve diventare bellezza, basta con il dovere. From duty to beauty
In questo modo arringava il pubblico quando descriveva il suo nuovo progetto. In realtà voleva testare l’efficacia dello slogan. I risultati erano ottimi, quel motto piaceva assai, risultava chiaro, convincente e originale. Ma la retorica più potente stava nella trovata del quinto piano, quello che avrebbe dovuto essere il tetto. Qui la metafora assumeva contorni leggendari.
«E, dopo quattro piani di negozio, vi aspetta un piano interamente dedicato all’ozio. Come avveniva sull’Acropoli di Atene 2500 anni fa. Il mio amico Domenico De Masi lo chiama ozio creativo, e dobbiamo essere riconoscenti al dolce far niente di Pericle, Socrate, Platone e Aristotele. Perché quei quattro fenomeni hanno inventato un nuovo modo di intendere la vita, le relazioni umane e l’arte del governo. Ne godiamo i benefici ancora oggi. Ma, per alcune centinaia di eletti che in punta al colle facevano girare il cervello, ce n’erano decine di migliaia che a valle usavano le mani. Contadini, falegnami, fabbri eccetera. In alto, sull’Acropoli, quelli che si dedicavano all’ozio. In basso, nell’Agorà, quelli che si occupavano del neg-ozio. Ebbene, Green Pea non è che una replica di Atene, con la differenza che qui tutti potranno fare tutto. Nei primi quattro piani troverete una moltitudine di beni da acquistare e, volendo, negoziare. All’ultimo, sul tetto, potrete oziare. Troverete una bella piscina con l’acqua calda d’inverno, sauna, bagno turco, sale per massaggi e cura del corpo, cocktail-bar e ristorante. Il tutto immerso in un bel giardino con tanti alberi. Ma attenzione, anche da voi ci aspettiamo che l’ozio sia creativo. Tranquilli, nulla di impegnativo. Vi chiederemo di scrivere un pensiero sul vostro cellulare, anche solo una riga. Attraverso la nostra app i vostri testi entreranno a far parte di una raccolta di idee e pensieri a disposizione di tutti i Green Pea Members. È questo il quinto piano che ho in mente. Ma lo sapete come si diceva “ozio” in greco antico, la lingua di Socrate e Platone? Si diceva scholé, da cui il latino schola, da cui il nostro scuola. Capite la meraviglia? La scuola non c’entra niente con il dovere, c’entra anzi con il suo contrario, dovrebbe essere un posto in cui ci si dedica appunto all’ozio, alla bellezza, e così avverrà sul tetto di Green Pea…»
Tra il 2015 e il 2020 divennero sempre più frequenti queste prediche. Il pubblico che se le doveva sorbire era variegato. In sequenza: suo figlio Francesco che si era accollato il compito di realizzare e condurre Green Pea, gli architetti che dovevano disegnare l’immobile, il gruppo di lavoro che Francesco aveva messo in piedi, i candidati partner che avrebbero preso in consegna gli spazi, i giornalisti curiosi di sapere cos’era quel pisello verde, gente comune che lo fermava per chiedergli di quell’astronave in legno, vetro, acciaio e alberi che stava crescendo accanto al primo Eataly di Torino. Quanto a me, mi sentivo sempre più Demostene che arringava gli Ateniesi; il cambiamento climatico e l’inquinamento assumevano ai miei occhi le sembianze di Filippo II di Macedonia, il peggior nemico di Atene. Quindi più che prediche erano filippiche. Oscar tentava di placarmi, ma non c’era verso.
Ora che sono decisamente meno infervorata, proverò a elencare con calma gli elementi che portarono il mercante-mai-quieto a inventare Green Pea. Stiamo parlando di quello che sarebbe stato il suo ultimo progetto nel campo degli affari. Dunque non poteva sbagliarlo. Il nome provvisorio che gli aveva affibbiato, agli albori delle sue pensate, era «Eataly 2, la vendetta». Perché nella sostanza il nocciolo era lo stesso: salvare qualcosa. Se in Eataly la missione era quella di salvare la produzione artigianale delle eccellenze agroalimentari italiane (mentre la visione consisteva nell’andare a raccontarle e a venderle nel mondo), con Green Pea Oscar si era dato un obiettivo ancor più modesto: salvare il pianeta. Come? Semplice, convincendo le persone a cambiare le abitudini di consumo. Lui per primo (la sottoscritta, devo dire, un po’ meno) aveva ben chiaro in mente che si trattava di un’utopia e che non sarebbe certo diventato il salvatore del mondo in persona. Ma, come sempre, pensava che dare il buon esempio e incorrere nelle critiche di chi le cose le pensa ma non le fa, sarebbe stato già un gran risultato.
Elemento numero 1: nel 2012 Oscar era rocambolescamente riuscito ad aggiudicarsi il terreno accanto al primo Eataly del Lingotto, l’area dove un tempo sorgeva il grande magazzino dei liquori della Carpano, abbattuto anni prima. Sicché ora deteneva un permesso di costruzione di oltre 10.000 metri quadri. Doveva farci qualcosa, okay, ma cosa? Anche perché Eataly non necessitava di ampliamento.
Elemento numero 2: tra il 2013 e il 2015 era stato invitato a diverse conferenze sul tema dell’inquinamento ambientale. A lui toccava affrontare quello causato da agricoltura e domesticazione intensive, ma c’erano altri conferenzieri, veri e propri scienziati, che sapevano spiegare con notevole capacità di persuasione l’immenso rischio costituito dal nostro modo di produrre energia, di consumare e di creare rifiuti. Oscar ne era rimasto colpito.
Elemento numero 3: durante l’Expo 2015 era andato più volte a visitare il padiglione dell’ENEL, realizzato da Piuarch, uno studio di architetti bravi, di Milano. Uno spazio aperto, di circa 1000 metri quadri, era attraversato da una passerella che conduceva il visitatore all’interno di un bosco virtuale dove seicentocinquanta vettori luminosi interagivano con lui. L’itinerario era ricchissimo di contenuti. Oscar aveva scoperto il mondo dell’energia e soprattutto come avrebbe potuto evolversi. Aveva appreso per esempio che l’Italia era già molto avanti nell’utilizzo di fonti rinnovabili e che avrebbe potuto accelerare in quella corretta direzione.
Elemento numero 4: Capodanno 2015, sulla Bleecker Street, la via dello shopping nel West Village di Manhattan, c’era una vetrina strana. Oscar si era fermato a guardarla dapprima incuriosito, poi rapito, alla fine entusiasta. Si trattava di un negozio di abbigliamento. Esponeva un solo manichino vestito con un tailleur color cammello chiaro, sotto a un impermeabile blu. Non c’erano immagini di modelle bellissime, non si vedevano marchi famosi. Accanto al manichino solo due cartelli. Uno a destra spiegava il tailleur. «Quest’abito è stato prodotto con lana rigenerata ecosostenibile. Per produrla abbiamo immesso nell’atmosfera soltanto 100 gr di CO2, contro i 6500 kg rilasciati per la produzione di appena 1 kg di lana vergine. Abbiamo ridotto il consumo d’acqua del 90% e quello di energia del 77%. Non abbiamo utilizzato alcun colorante chimico… E ora entrate a toccarla per sentire quanto è soffice.» L’altro cartello spiegava l’impermeabile: «Questo impermeabile è stato realizzato al 100% con fibre ricavate da bottiglie in PET riciclate. Con 7 bottiglie facciamo 1 m² di tessuto. Il colore blu è stato ottenuto in modo naturale, con succo di mirtillo». Non aveva mai visto nulla di simile. E poi tutti quei numeri, a Oscar piacevano tanto i numeri.
Ora provate a mescolare i quattro elementi dell’analisi. Aggiungeteci il fatto che il 90 per cento degli scienziati ci sta dicendo che, se non cambiamo alla svelta il nostro modo di creare energia e di trattare i rifiuti, andremo a sbattere. Condite il tutto con l’inguaribile convinzione di Farinetti che, nel nostro modello sociale, le cose si cambiano attraverso i consumi, nel bene e nel male. Per esempio grazie a un incremento dei consumi di libri si migliora la vita collettiva, mentre aumentando il consumo di tv spazzatura la si peggiora. Spruzzateci come tocco finale un’altra sua convinzione, cioè che il piacere personale e il comportarsi bene con il prossimo non sono affatto inconciliabili, e avrete di fronte le linee di principio del progetto: una minestra buona, bella e pronta da mangiare.
Andò a guardarsi i volumi dei consumi nel Nord del mondo. Il cibo rappresenta meno del 20 per cento, dunque l’80 per cento viene speso in beni e servizi che non entrano nel nostro corpo, ci stanno sopra o intorno. La parte del leone la fa la casa, abitare ci costa quasi il 35 per cento. L’11 per cento lo spendiamo nei trasporti, per vestirci impieghiamo circa il 10 per cento del nostro reddito. Il restante 24 per cento lo dividiamo tra salute, divertimento, istruzione, altri servizi e risparmio. Oscar calcolò che, se metteva insieme nello stesso posto veicoli, energia, mobili, materiali per la casa, abiti, borse, calzature, libri, prodotti per l’igiene e un po’ di ristoro, avrebbe coperto circa il 60 per cento dei consumi di una famiglia media del mondo evoluto. E proprio al mondo evoluto è imputabile l’immissione del 90 per cento della CO2 nell’atmosfera e di una percentuale più o meno simile di rifiuti nell’ambiente. Occorre drasticamente abbassarle, queste immissioni eccessive. Già, ma li avrebbe trovati dei prodotti che fossero realizzati in armonia con il benessere del pianeta?
A questo punto non restava che parlare direttamente con loro, con i produttori. Prima di tutto per imparare, poi per capire a che punto stavano sul fronte della sostenibilità, infine per rendersi conto di quanto avrebbero gradito far parte di un progetto che si poneva come umile obiettivo quello di salvare la vita umana sul pianeta Terra. Oscar passò due anni, tra il 2016 e il 2018, a incontrare produttori di auto, energia, mobili e abiti. Gli sembrava di essere tornato ai primi tempi di Unieuro, quando non sapeva nulla di elettrodomestici ed elettronica se non che quei marchingegni gli piacevano un sacco. Così come agli albori di Eataly, quando l’unico talento che possedeva nel campo del cibo di qualità era cedere compulsivamente alla lussuria di mangiarselo. Ascoltò, rapito, i migliori interpreti dell’arte sartoriale italiana, poi cercò di comprendere i trucchi di una categoria che porta l’Italia a fare gran bella figura nel mondo: i figli dei figli dei maestri falegnami. Gli uni e gli altri erano riusciti a mettere su grandi imprese di design, invidiateci dal resto del pianeta. Scoprì che stava montando un’atmosfera nuova intorno a tanta bellezza. Si fece ripetere infinite volte le origini dell’energia, il modo di crearla e distribuirla, con il conseguente impatto sull’ambiente, da diversi ingegneri che avevano progettato diversi tipi di centrali. Incontrò anche John Elkan, i capi italiani della Toyota e della BMW, si confrontò con i gestori delle reti di acquedotti, si divertì a intrattenersi con produttori di shampoo e bagnoschiuma che promettevano bellezza senza inquinare. Andò a visitare centri di raccolta dei rifiuti, inceneritori e termovalorizzatori. Trascorse giornate intere ad ascoltare un signore che aveva inventato una vernice che possedeva la magica proprietà di purificare l’aria, una signora che tingeva i tessuti con erbe, frutti e fiori, un ragazzo che riciclava le vecchie gomme delle biciclette trasformandole in cinghie per pantaloni. Restò stupefatto nel gironzolare in un’azienda di complementi d’arredo che usava soltanto cartone, eppure com’erano belli e solidi quei mobili! Visitò, nei pressi di Mantova, una fabbrica che produceva pannelli truciolari utilizzando solo legno riciclato, ed è la più grande d’Europa.
Insomma, capì che ce la poteva fare. Esisteva un mondo della produzione di beni e servizi sensibile ai problemi dell’ambiente. Alcuni erano molto avanti, altri avevano incominciato un percorso e si dichiaravano determinati ad arrivare in fondo. Doveva metterli insieme, quei produttori virtuosi. Ricordate la frase di Bezuchov nel finale di Guerra e pace?
Volevo solo dire che le idee che hanno enormi conseguenze sono idee semplici. E l’idea mia è tutta qui: se le persone viziose sono tutte ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Never Quiet
  4. Nota del protagonista
  5. Il profumo della vita
  6. Agire… con sani dubbi
  7. L’imprenditore… tra regole, sentimenti e risultati
  8. It’s difficult to be simple
  9. Non basta possedere denaro
  10. Ci sono amici… e amici
  11. Quando il coraggio diventa incoscienza
  12. C’è solo una via: la pace
  13. Non conviene mai personalizzare
  14. Espandersi con fantasia
  15. Grandi valori ma… flessibili
  16. Lavorare in armonia
  17. Come si affronta l’ignoto
  18. Mettete fiori nei vostri cannoni
  19. Saper promettere… saper mantenere
  20. Il crocevia del mercante
  21. Le riunioni? Poche, potenti, brevi
  22. L’impegno creativo
  23. La burocrazia dipende da noi
  24. Il vino è un fatto di sentimenti
  25. Procedere… sapendo da dove si è partiti
  26. Nessuno decide dove nascere
  27. Siamo esseri imperfetti
  28. Meglio aiutare che giudicare
  29. Bello cambiare… al momento giusto
  30. Serve equilibrio
  31. Il crocevia tra cambiamento e inventiva
  32. L’utilità della finanza
  33. L’amicizia viaggia nel tempo
  34. Diamoci nuovi orizzonti
  35. Meglio in branco
  36. Il senso dello Stato non si ottiene solo con le regole
  37. Con gli amici costruisci la rete
  38. C’è negozio… e negozio
  39. Il dilemma del mercante
  40. Incontri biodiversi
  41. Più gesti… meno parole
  42. Il tempo è valore
  43. L’Italia verso il mondo
  44. Ragionare… e poi agire
  45. L’oratore rivela il suo cuore
  46. Mai sbagliare l’analisi
  47. La fortuna (non raccontata) non esiste
  48. Belli fuori… belli dentro
  49. Numeri + emozione = bellezza
  50. Meglio riconoscenza che orgoglio
  51. È bello osare… ma con sani dubbi
  52. Affrontare le crisi
  53. Il negozio è un luogo o un non luogo?
  54. Il senso della vita… tra doveri e piaceri
  55. Post scriptum
  56. Il denaro è uno strumento
  57. Ultime, doverose, diciannove righe
  58. Ringraziamenti a persone e opere
  59. Copyright