Atlante delle case maledette
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Atlante delle case maledette

  1. 228 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Atlante delle case maledette

Informazioni su questo libro

In un mondo sospeso dal Virus, Dimitri ha scelto di fare ordine nel suo passato, disegnando a memoria la geografia delle case in cui ha vissuto. Per un giorno o una notte, per qualche anno o qualche mese, non importa. Quel che conta è che in ciascuna di queste case Dimitri ha lasciato o scoperto una parte di sé. In una ha capito di essere stato tradito, in un'altra si è rintanato dopo aver rischiato di essere ucciso di botte. In una ha sentito di essere solo, in un'altra ha sognato di invecchiare con Nina.
Grazie a una scrittura densa e avvolgente, Francesco Bianconi ha creato un romanzo in cui possiamo rifletterci come in uno specchio, un libro che parla di chi eravamo, di chi siamo e di chi potremmo diventare domani, quando il mondo si riaprirà e noi torneremo a viverlo.

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Informazioni

Print ISBN
9788817155809
eBook ISBN
9788831804332
SECONDO DISIMPEGNO

Un supermarket

Avrebbe dovuto rimanersene a casa, il Ragazzo, ad aiutare Emanuela a occuparsi del bimbo. E invece a volte ci si impunta senza neanche sapere bene il perché e con una scusa qualsiasi si esce dal guscio protettivo delle Case e ci si avventura nel mondo. “Ma che avventura e avventura” pensa il Ragazzo. Comprare delle uova, di quello si tratta, seguendo una pista battuta: un corridoio di cinquanta metri che collega il portone del suo palazzo col Carrefour dall’altro lato del marciapiede. Trenta secondi per attraversare la strada, alzare gli occhi al cielo e vedere il sole tramontare dietro le Alpi in via Farini. Cinquanta secondi per trovare le uova in mezzo agli scaffali e presentarsi alla cassa, primi, senza neanche dover fare la coda, a quest’ora del mercoledì. Dieci secondi per appoggiare le uova sul nastro trasportatore, fare il gesto di infilare la mano dentro la borsa per prendere il portafoglio e voltare la testa di scatto verso le porte automatiche. Due tizi col passamontagna e il bomber entrano in scena formulando la battuta classica: «Fermi tutti, questa è una rapina!»
Il Ragazzo riesce con inaspettata eleganza a far riscivolare il portafoglio dentro la shopper. In situazioni di pericolo il tempo si blocca o rallenta fortemente. Ed è in questi stati di deformazione temporale, di dilatazione del reale che, come nei viaggi con l’LSD, o si perde totalmente il controllo, precipitando nell’angoscia, o si raggiunge una lucidità superumana e per certi versi ridicola. Infatti il Ragazzo pensa al portafoglio, non alla vita.
«Nessuno si muova, tutti tranquilli» dice uno dei rapinatori, rivolto ai clienti in coda. Ma punta il cannone sulla fronte di uno solo, il Ragazzo. Che, senza ancora riuscire a provare paura, osserva la pistola a cinque centimetri dagli occhi. “È vera” pensa. Ma il tizio gliela toglie all’improvviso e la punta addosso alla cassiera, che è una signora di mezza età, con i colpi di sole e gli occhiali. È nuova, oppure è la sostituzione di qualcuno, perché il Ragazzo non l’ha mai vista prima. «Dammi i soldi» dice l’uomo. Colpi di Sole apre la cassa e consegna il denaro. Dietro il Ragazzo ci sono dieci persone in fila, qualcuno ha le mani alzate. Una giovane madre ha voltato le spalle ai rapinatori e si tiene la bimba neonata stretta in grembo, per schermarla da colpi eventuali. Allora il Ragazzo pensa alla sua, nata l’anno prima. Pensa alla sua compagna, e adesso sì, ha paura: potrebbe essere quello il suo ultimo giorno sulla Terra.
Trecento euro in cassa, sì e no: bottino magro. «Adesso apri la cassaforte» ordina l’uomo. Colpi di Sole fa: «Non posso aprirla, solo il direttore ha il permesso». E il rapinatore, a voce più alta, decisa: «Adesso apri la cassaforte oppure facciamo un casino!»
Il Ragazzo capisce da come quella frase viene pronunciata che il malvivente è italiano, lombardo, probabilmente milanese. Una goccia di sudore freddo gli riga la fronte. Vorrebbe dire: “Apra quella cazzo di cassaforte, signora, e andiamo tutti a casa”. Ma Colpi di Sole è calma e determinata, e ripete: «Non sono tenuta ad aprire un bel niente».
“Oddio, è finita” pensa il Ragazzo chiudendo gli occhi.
E invece.
«Via!» grida il compare rimasto a sorvegliare l’ingresso. Senza sparare alcun colpo, camminando all’indietro fino alla porta a pistole spianate, escono e si perdono chissà dove con i loro trecento euro.
Arriva la polizia poco dopo, per tutti i controlli del caso. Vengono interrogati i commessi e la cassiera. Poi la vita riprende lentamente il suo corso. Il Ragazzo deve ancora pagare le uova. Si accorge di non avere contanti. Estrae la carta di credito. Ma Colpi di Sole non riesce né a strisciarla sul lettore né a tenerla in mano.
«Mi scusi, non mi sento tanto bene» dice. Trema come una foglia.
Uscito dal supermarket, il Ragazzo ha chiamato casa, ma non ha avuto la forza di raccontare l’accaduto. «Vi voglio bene» ha fatto in tempo a dire, prima di riagganciare di colpo; come spinto da un demone, è sgusciato dentro il ristorante cinese lì accanto. Nel locale ancora deserto, ma con gli acquari, i dragoni e i quadri animati già accesi, ha chiesto a Mei Ling: «Una vodka doppia ce l’hai?»
SCHEDA 6

La Casa nel Bosco

Anno di costruzione: 1992-1994
Luogo: strada privata di Poggiosale, Ceriano, Italia
Architetto: Arturo e Olga Borghini
Superficie: 280 mq
Non ci sono più tornato. Chissà se esiste ancora. Anche se non mi è riuscito di vederla terminata, ho fatto in tempo a viverla, e non lo dimentico. La Casa nel Bosco torna a visitarmi spesso, in sogno e da desto. L’ho vista crescere piano, pietra dopo pietra, ed è l’unica volta nella mia vita in cui abbia visto sorgere dal niente un edificio. Dove c’erano macchie di rovi intricati, dove invadenti crescevano le erbacce, nel punto più a ovest di una radura aperta quasi per miracolo in mezzo al fitto dei lecci: quello fu il punto in cui si sarebbero scavate le fondamenta.
I lavori cominciarono nel 1992. E continuarono il tempo necessario a erigere il guscio esterno della villa; vista da lontano, il giorno in cui i lavori si fermarono, ci si poteva illudere che fosse terminata. I muri erano fatti di blocchi di pietra antichi recuperati da altre costruzioni, come si usa ancora fare nelle case di campagna di quelle zone. Il tetto era di tegole di terracotta. L’aspetto generale era rustico e vissuto. Avvicinandosi però il sogno si sgonfiava ed era visibile che mancassero completamente gli infissi, che non ci fossero porte, persiane, niente. Anche per quanto riguardava l’interno non c’era ancora alcuna rifinitura, e ancora alcun impianto idraulico o elettrico; erano stati soltanto tirati su i muri per la divisione degli spazi. Il pianoterra era stato pensato come un grande open space, col camino e il pavimento in cotto; questo spazio avrebbe dovuto fungere da taverna, soggiorno, cucina, sala da pranzo. Al piano superiore avrebbe dovuto esserci, invece, la zona notte. Due o tre camere. Il mio ricordo è confuso, perché non ho dettagli a cui appigliarmi: quando sono entrato io, quegli ambienti erano stanze vuote; mura, pavimento, soffitto. Puri contenitori. Sono sicuro però che nella camera matrimoniale ci fosse un’apertura a parete intera affacciata sul salone sottostante. E sul lato est del salone c’era infatti un’apertura simile, anch’essa a tutta parete; sarebbe poi dovuta diventare una imponente vetrata, con affaccio sulle colline boscose. Così com’era, quando i lavori si fermarono, la casa sembrava il rudere di una chiesa romanica.
Ornamento di separazione
Quasi una giapponese piovuta per sbaglio in Occidente, per via di quegli occhi a mandorla che ti guardavano fissi e a cui nessuno poteva rimanere indifferente, Olga portava i capelli tagliati corti, da maschio. Nerissimi, lisci e profumati. Aveva labbra sottili e così chiare da confondersi nell’incarnato del volto. Arrivò nella mia classe al quinto anno. Non ho mai capito perché avesse abbandonato il liceo che aveva frequentato per quattro anni ad Arezzo e si fosse trasferita nel nostro a Volci.
Abitava con la famiglia a Ceriano, un paese distante neanche venti chilometri dal mio. Eppure non l’avevo mai vista in giro prima di ritrovarmela, come un’illuminazione, in classe. Era strana. Oscillava fra momenti di espansione e altri di isolamento. A me piaceva che sapesse prender forme diverse all’improvviso, che fosse imprevedibile. A differenza delle mie altre compagne, si vestiva da maschio. I primi giorni non diede confidenza a nessuno; sembrava agitata per qualcosa. Cominciai a pensare che ce l’avesse con me. Che mi snobbasse. A un certo punto mi parve chiaro: le stavo antipatico. Perciò cominciai a starle alla larga, a evitare qualsiasi contatto con lei. Eppure, dopo neanche una settimana di questa mia linea di comportamento, vincendo ogni inibizione si manifestò in me il desiderio di spiarla: durante la ricreazione, o dopo la scuola, al piazzale dei bus, prima di tornare a casa. La osservavo, sperando ovviamente che lei non mi notasse. Man mano che l’anno scolastico passava cominciai a sentirmi infastidito dal fatto che lei iniziasse a interagire coi miei compagni. Per esempio, avevo notato che rispondeva ai saluti di certi altri ragazzi con un sorriso che giudicavo troppo generoso. Chiunque le parlasse, sembrava svegliarla da un sonno triste e magico, da un’apatia misteriosa.
Riuscii a rompere il ghiaccio quando un giorno all’uscita di scuola, seccato dall’essere rimasto l’unico a non averle mai rivolto la parola, vedendola seduta su una panchina ad aspettare l’autobus, mi feci avanti. Le chiesi, dato che già la musica occupava gran parte dei miei interessi, che cosa ascoltasse. Un approccio banale, e forse troppo a gamba tesa, ma se non altro era sincero. Mi interessava davvero capire cosa contenesse la cassetta che lei infilava nel walkman a ricreazione.
«Tuxedomoon. Conosci?»
Non conoscevo. Il disco era uscito nel 1980 e si chiamava “Half Mute”. Qualcuno al liceo precedente glielo aveva copiato su una TDK da quarantacinque.
Ornamento di separazione
Io e Olga diventammo molto amici. Cominciammo a frequentarci fuori dalla scuola: andavo spesso a studiare da lei, e lei, più raramente, veniva a casa mia.
Non vestiva in maniera vistosa, non faceva la gattamorta e non parlava delle stronzate di cui mi sembrava parlassero le altre mie compagne. A un certo punto pensai che fosse lesbica. Eppure in lei bruciava qualcosa che mi attraeva terribilmente. Un fuoco nascosto.
«Ti va di vedere una cosa che stanno costruendo i miei?» mi chiese un giorno. Avrei scoperto di lì a poco che era direttamente coinvolta in quel progetto. Sapeva già che l’anno venturo si sarebbe iscritta ad Architettura a Firenze. «Amo le case» diceva. «Sono scatole ordinate, modi di organizzare il caos.»
Aveva disegnato lei stessa la casa che i suoi genitori volevano costruire in un terreno che avevano comprato tre anni prima. Un incolto boscoso, in un pezzo di campagna selvaggia, al di fuori delle mete turistiche. «I miei vorrebbero passarci i weekend. Per non pensare a niente. Sai, il lavoro, la ditta, sono stressati. Io invece, un giorno, quando ci sarà la casa, ci voglio venire ad abitare. A vivere e a morire.» Disse proprio così, quella prima volta che mi portò alla radura, «a vivere e a morire», e mi gettò uno sguardo in bilico fra la sfida e la richiesta di salvataggio. Avvicinai il mio volto al suo, a due centimetri dalle labbra – sottili, inesistenti, bianche – di lei, e teneramente, facendomi molto coraggio, provai a toccarle con le mie. Mi ritrassi, come se per un attimo mi fossi reso conto di aver sbagliato qualcosa. Allora fu lei a farsi avanti. Mi prese con forza per i capelli e portò la mia testa alla sua. Ci baciammo in quello spiazzo di erbacce e gramigna e terra polverosa e rossa, come un respiro aperto in mezzo all’apnea minacciosa e apparentemente senza fine di boschi di leccio. «La casa la costruiremo qui» disse toccando il terreno col palmo della mano.
I lavori procedettero veloci. Da quel primo bacio, fino al momento in cui venne innalzato il guscio della casa, passarono un paio di mesi. Un paio di mesi in cui io e Olga non perdemmo l’occasione di andare a visitare il cantiere, scherzare coi muratori, fare passeggiate interminabili. Parlavamo per ore, come fanno gli innamorati. Di libri, canzoni, film, progetti. Di tutto e di niente. Guardavamo il sole tramontare; provavo per lei un bene e una felicità tali, e un tale struggimento, che spesso mi succedeva di scoppiare in lacrime. «Perché piangi?» mi chiese un giorno. Le risposi che era perché per la prima volta avevo pensato di vivere insieme a una persona, in una casa. In quella casa. Un giorno, neanche troppo lontano, quando sarebbe stata completata. «Allora bisogna far fuori i miei» disse seria. Poi, vedendomi preoccupato, scoppiò a ridere e mi scompigliò i capelli.
Ci avevo creduto davvero, per un attimo, perché Olga poteva anche far paura.
Era un pomeriggio d’estate. Eravamo stesi sul prato davanti alla casa, sotto un albero, per ripararci dal sole che cominciava a scottare, a quell’ora. Mi passò la sigaretta che stava fumando: avevamo preso l’abitudine di fumare la stessa in due, passandocela a metà. Non feci in tempo a portarmi il filtro alla bocca che mi sentii dare una botta forte sulla spalla. Olga si alzò in piedi, decisa. «Vieni con me» disse così, e io sapevo che non era quello il momento di chiedere nulla; come da apostoli del Messia, bisognava soltanto seguire. Sapeva dove portarmi. Entrammo dentro la casa, tenendoci per mano. La nostra chiesa era fresca: i muri di pietra spessi facevano il loro lavoro. Non c’era niente in giro: nessun mobile, neanche una sedia. Soltanto una scala a pioli appoggiata al muro, dei secchi, un mucchio di mattoni. In un angolo, un grosso borsone, accanto a degli attrezzi lasciati dai manovali. Olga lo aprì, sicura di sapere cosa contenesse. Tirò fuori un plaid a quadri. Lo stese al centro della stanza. Quello sarebbe stato il nostro letto. Lo aveva deciso lei. Aveva sistemato la coperta in un punto del salone molto vicino a quella che un giorno sarebbe diventata la vetrata affacciata sul bosco. Ci sdraiammo e cominciammo a baciarci. Lei mi mordeva le labbra, io ero eccitato e sentivo che anche lei lo era. «Tu lo hai già fatto?» le chiesi. «Sì» mi rispose a occhi chiusi, continuando ad accarezzarmi i capelli con una mano e a sbottonarmi i pantaloni con l’altra. Sapevo che l’aveva già fatto, perché mi aveva raccontato di questo suo ragazzo precedente, il figlio di un farmacista di Arezzo, un imbecille sempre in giro con la macchina sportiva del padre. Due secondi prima ero eccitatissimo, eppure quando pensai al Bmw spider l’erezione cessò di colpo. Olga capì, e capì che mi ero rattristato, o spaventato, o un mix di queste e altre emozioni. Mi sussurrò nell’orecchio la parola «scemo». Mi aprì la zip dei pantaloni e provò a toccarmelo con la mano. Non succedeva niente. Allora cominciò delicatamente a leccarmi, prima sul collo e poi sul petto, e finalmente l’erezione ritornò. La toccai, sentii che era bagnata, sentii che voleva più di ogni altra cosa che la penetrassi. E, come succede a tutti, o quasi tutti, la prima volta, senza sapere a quale mistero s...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. PROLOGO. DAL CONFINO
  4. PRIMO DISIMPEGNO. UNA CAPANNA
  5. SECONDO DISIMPEGNO. UN SUPERMARKET
  6. TERZO DISIMPEGNO. UN DEPOSITO
  7. QUARTO DISIMPEGNO. LA VILLA DEL BAMBINO URLANTE
  8. EPILOGO. L’ULTIMA CASA
  9. ANNOTAZIONI
  10. RINGRAZIAMENTI
  11. Copyright