Il tempo di scordare
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Il tempo di scordare

Poesie

  1. 96 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il tempo di scordare

Poesie

Informazioni su questo libro

La voce con cui Sergio Zavoli ha raccontato la realtà è unica per eleganza e lievità, riconoscibile in ogni forma, come ricorda l'amico Carlo Bo: "Zavoli è padrone di tante voci umane, maestro del 'mestiere di chiedere'". Attraverso il microfono di una radio, in un'intervista televisiva, nei capitoli di un saggio, ma più di tutto nei suoi versi, quello di Zavoli è un linguaggio denso di libertà ritmiche e lessicali, impegnato e nostalgico, fotografia emozionata di un Paese. Questa antologia, la sua ultima, è specchio di una maturità poetica che tra queste pagine raggiunge forse il suo punto più alto. Così, leggendone le poesie, si fatica a non immaginarle dette da lui, a non accoglierle come il testamento poetico e spirituale di un grande intellettuale, intriso della sua consueta forza e grazia, e dell'impegno comunicativo di chi ha dedicato la sua esistenza a muovere le coscienze attraverso i più diversi usi della parola.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2021
Print ISBN
9788817159906
eBook ISBN
9788831805599
Argomento
Letteratura

Il tempo di scordare

(il gioco della casa)
Addio alle stanze del casale
e alle porte mai chiuse con la chiave,
era l’avviso di non lasciare all’aria
della vecchia casa solo i ricordi
di un odore rimasto
alle pareti, quando per ognuno la madre
apriva le finestre perché entrasse
nella casa il verde cinerino delle salvie,
o la salita dei rampicanti generosi,
dal profumo di verbena
o il rezzo impertinente della tramontana
destinata all’incrocio del mare
con la selva dei pini inclinati
verso i monti, mentre sui vetri
della terza finestra s’intromette
il tentativo dei due venti con
l’inoltrarsi, insieme, lasciando il passo
per la scesa dei rivoli
fino a doversi arrendere
ai loro ingressi errabondi della maggiorana.
Sulle pareti i giovani stendevano
le loro ideologie canore, che aggiornano, via via,
una nuova mitologia,
secondo i crismi di una più eccitante
fedeltà.
Non era ancora il tempo di capire,
in casa e nella vita
una modalità cosiddetta del cuore,
facendola sortire dalle teche consunte
a “L’altro mondo”.
Era l’aspetto di una storia
che invecchiava nei silenzi familiari,
ai quali nessuno sapeva opporre
una società genitoriale, per trarla
da una sorte in cui s’imprime una vaghezza
e che trattiene l’ingresso di piccola,
e indifesa, cultura umanamente rateale,
ma non il grande jazz
e le canzoni tra le più adescanti
insieme con la grazia di chi, non di rado,
consuma i desideri
coltivati con l’aiuto dei “prodotti”, e il patire delle madri.
Vi consolava Abbado pensando
per quale protesta o ribellione vi cercasse,
ragazzi di ogni etnia e cultura, anziché restare
in questa disordinata libertà;
come se tutto fosse ormai perduto
mentre il maestro scendeva dal podio magistrale
con una forza quasi religiosa, e si capiva il senso
di Montale per una musica avviata
a una vera innocenza quando s’illuminò
l’immenso della poesia,
cioè una dissepolta urgenza indotta a reclamare
il talento creativo
coi suoni di altre prove per avere incontrato
i colori anche dell’animo.
E s’inventò un’orchestra solo di ragazzi,
uditi persino nei luoghi delle sabbie,
liberi dai congegni e gli effetti, le quintessenze e il genere,
tranne le forme di un estro ritrovato
nei modi conquistati da un’idea nata e nutrita dal senso
anche con le “invenzioni” che hanno l’eco vivente
anch’esse nel pensiero.
Poco è restato ai giovani
già in dubbio se prendersi la vita
scoprendo una cultura fatta di parole diverse,
con le scritte in inglese ormai sulle magliette,
e qualcuno persino sulla pelle.
Andrebbe detto che non è finito il tempo
vissuto altrove, con l’identità sfiorata
ai bordi di se stessi, indeboliti
dai lasciti di scuole spesso a lungo lasciate
a una lingua che evade il suo Paese.
Ora, quando potrebbe tornare la certezza
dei valori, provate a dirvi perché,
in silenzio,
restate i primi a proclamarvi nutriti
dai diritti e dai coraggi,
lontani dai modi consumati
nelle notti che si chiamano “La vita è qui!”
oppure “L’altro mondo”, dove
s’inventò lo sgarro, illividito dal potere
dell’infelicità.
Mi accorgerò,
di poter essere felice, con la pace,
scendendo la scalea,
nonostante i morsi lasciati
dalla confusa strategia delle granate
in vena di violare
la salita e la terrazza del Grand Hotel.
Mi tenevo all’idea
di uno scalino che mi precedesse
perché avessi di fronte il gesto risoluto
di qualcuno deciso a scavalcare
i vuoti di una scena qua e là divorata.
Mi assisteva alle spalle l’ombra mia,
la sicurezza d’essere ancora ai piedi della coltre
ondulata dalla bassa marea,
prima dell’indurito chiaro della Luna.
(a Tonino Guerra)
Quando già s’incurvava il sole delle balze,
e alzando gli occhi sorprendeva
la sconsacrata chiesa della valle,
un celeste impreciso, appena acceso
dallo sguardo diritto di un rosone,
ritrovavi, Tonino, il tuo ritorno
dalle infami baracche del nazismo.
Una cornice vuota conservava
l’odore secco dei tarli,
un’accoglienza naturale, senza idee
di risvegli liberi dall’abitudine di vivere.
Con l’aria consumata, si sarebbero ingoiate
soltanto le farfalle
dove tutto era convertito
a quel silenzio: la nudità degli occhi
sugli avanzi lasciati addosso ai muri,
il grigio della calce fra le tegole antiche
che arrossavano i tetti,
con le brevi arature dei tratti bruni e sghembi,
il tartaro lasciato sulle borchie incise negli inverni
dei paesi inventati dagli uccelli.
Quel giorno rivedevi i glicini violetti,
esplosi dentro i grappoli in festa,
accesi come lumi.
Quanto a noi affrettavamo ancora i passi fra i crateri,
fino al cancello che nostro padre spalancava
per sveltire i ritorni, tu fra i primi.
La strada riprendeva il suo cammino mentre
pendeva ancora la colonna ingobbita
dalla guerra, e tornava l’idea di quando
dipingevi la schiuma gialla sull’orlo
della riva.
Si fa largo il varco
alla questione delle libertà
nate da gruppi, movimenti, ispirazioni,
fonti del nuovo numero
di vincitori e vinti, in nome
di questa indebolita qualità
dell’esistenza.
La ricchezza promana
dai più influenti poteri sulla Terra
mentre ottocento milioni di poveri si perdono
sotto le pieghe del benessere
favorendo un potere
prodotto dai problemi creati e difesi
da una sola ideologia,
mentre i sogni
non sono più come una volta,
e la politica non ha più le sue maniere;
sono nate altre guide, senti parlare di “esigenze nuove”,
che crescono in fretta e svuotano i ricordi,
la cronaca straripa,
e la velocità è già la nostra storia,
quasi la teca di noi stessi.
La crisi è ormai decisa
ad arrangiare una prova
che eredita l’eccesso
rimasto ai più dolenti in un’Italia divisa
dove, a mezzogiorno e mezzo,
un cittadino appare alla finestra
e sbatte un panno bianco;
non quello della resa,
ma dell’orgoglio sparso con briciole
tolte da una tavola neppure apparecchiata.
È il suo lieve decoro per salvare
il nome di una casa sbiadita dai suoi anni,
quando l’Italia aveva sulla testa
la frase lunga quanto il corpo dei massi
radunati per stendere la frase distesa
col gesso irrigidito dagli inverni, a Matera,
oggi ben più che rispettata da fierezze civili.
“La questione meridionale non esiste”,
ma è ancora in vita un verso di Montale
quando si domandò:
“Il male di vivere ho incontrato?”.
Servirebbe una civiltà diversa
da quelle temerarie,
camminiamo ogni giorno con il rischio
di cadere e, sotto, la rete è logorata.
Non c’è più chi chieda di capire, insieme,
come si crea una comunità in cui
non geme più il mondo degli ossari
stesi ovunque, anche acquistando
il modico ritaglio di un camposanto
nato...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Prefazione. di Walter Veltroni
  4. Il tempo di scordare
  5. Nota dell’Autore
  6. Nota dell’Editore
  7. Addio al ragazzo che sognava a colori. di Giorgio Giovannetti
  8. Copyright