Storia del fascismo
eBook - ePub

Storia del fascismo

Da piazza San Sepolcro a piazzale Loreto

  1. 416 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Storia del fascismo

Da piazza San Sepolcro a piazzale Loreto

Informazioni su questo libro

Quattro anni dopo la fine della Grande Guerra, dopo due anni di scontri sanguinosi, la classe dirigente dell'età liberale assisteva all'ascesa legale di Mussolini. Molti, anche convinti democratici, tirarono un sospiro di sollievo pensando che l'incarico di Presidente del Consiglio al capo delle camicie nere fosse il prezzo minore, e provvisorio, da pagare per lo scampato pericolo della rivoluzione bolscevica. Non andò così. In questa approfondita storia del fascismo, rigorosa e al contempo accattivante, due dei maggiori storici francesi dell'età contemporanea ripercorrono tutte le fasi dell'età mussoliniana con occhio distaccato e imparziale - dall'Italia del 1918 all'offensiva proletaria, dalle origini del fascismo fino all'epilogo della Repubblica di Salò - ricostruendo un periodo fondamentale della nostra storia e aiutandoci a capire, attraverso questa ricostruzione, chi siamo oggi. Perché interrogarsi sul fascismo significa interrogarsi sulla nostra identità nazionale.

Domande frequenti

Sì, puoi annullare l'abbonamento in qualsiasi momento dalla sezione Abbonamento nelle impostazioni del tuo account sul sito web di Perlego. L'abbonamento rimarrà attivo fino alla fine del periodo di fatturazione in corso. Scopri come annullare l'abbonamento.
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Perlego offre due piani: Base e Completo
  • Base è ideale per studenti e professionisti che amano esplorare un’ampia varietà di argomenti. Accedi alla Biblioteca Base con oltre 800.000 titoli affidabili e best-seller in business, crescita personale e discipline umanistiche. Include tempo di lettura illimitato e voce Read Aloud standard.
  • Completo: Perfetto per studenti avanzati e ricercatori che necessitano di accesso completo e senza restrizioni. Sblocca oltre 1,4 milioni di libri in centinaia di argomenti, inclusi titoli accademici e specializzati. Il piano Completo include anche funzionalità avanzate come Premium Read Aloud e Research Assistant.
Entrambi i piani sono disponibili con cicli di fatturazione mensili, ogni 4 mesi o annuali.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì! Puoi usare l’app Perlego sia su dispositivi iOS che Android per leggere in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo — anche offline. Perfetta per i tragitti o quando sei in movimento.
Nota che non possiamo supportare dispositivi con iOS 13 o Android 7 o versioni precedenti. Scopri di più sull’utilizzo dell’app.
Sì, puoi accedere a Storia del fascismo di Serge Berstein,Pierre Milza in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Storia e Storia italiana. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
BUR
Anno
2021
Print ISBN
9788817156608
eBook ISBN
9788831805308
Argomento
Storia

STORIA DEL FASCISMO 1919-1945

I

NASCITA DEL FASCISMO

1

L’Italia nel 1918

Quando nel novembre 1918 l’Italia esce dalla Prima guerra mondiale, fa parte del campo dei vincitori ma è un Paese in piena crisi che deve affrontare le difficoltà del dopoguerra. A dire il vero, tale crisi non è un fenomeno nuovo. Essa dipende in buona parte dall’arcaicità e dalle contraddizioni di un sistema politico che non ha saputo adattarsi alle trasformazioni economiche e sociali del periodo postunitario e al difficile inserimento del giovane regno nel gioco tormentato delle relazioni internazionali. Alla vigilia della guerra tuttavia la crisi si è fatta particolarmente acuta. Per tanti aspetti influenzato dal passato, il quadro politico e istituzionale si trova sottoposto alla pressione di forze socioeconomiche che lo superano in tutte le direzioni e i tentativi di adattare il Paese alla nuova situazione aggravano addirittura le difficoltà. L’Italia dunque nel 1915 si impegna in condizione di grande vulnerabilità in un conflitto che ne sconvolgerà radicalmente le strutture.

L’unità incompleta

Fra il 1859 e il 1870 si costituì l’unificazione italiana, intorno al piccolo regno di Piemonte, prima col sostegno militare e diplomatico della Francia, poi nonostante, se non contro di essa, quando sotto la pressione dell’opinione pubblica cattolica Napoleone III fu costretto a proteggere contro gli italiani ciò che restava del potere temporale del detentore del trono di San Pietro. Fino al momento in cui la sconfitta di Sedan priverà Pio IX del sostegno dell’esercito francese permettendo al re d’Italia di insediare la capitale a Roma.
L’unificazione territoriale lasciava però ancora sul campo numerosi problemi. Prima di tutto molti italiani ritenevano incompiuta l’unificazione del Paese. Fuori dalle frontiere nazionali restavano terre «irredente» che l’Italia rivendicava con molto vigore. Secondariamente, si registravano altre rivendicazioni su terre diventate francesi, Nizza e la Savoia, le «mance» pretese da Napoleone III, ottenute nel 1860 e annesse dopo un plebiscito. Erano rivendicazioni avanzate da un pugno di ultranazionalisti dotati di assai poco seguito. Le rivendicazioni più sentite riguardavano territori appartenenti all’Austria, il Trentino e la regione di Trieste, la cui popolazione parlava italiano. Tali rivendicazioni erano state accantonate negli ultimi due decenni del XIX secolo, per volere del governo italiano impegnato, dal 1882, nella Triplice Alleanza, con la Germania e l’impero austro-ungarico. A partire dal 1900 si assistette però a un riavvicinamento alla Francia mentre i legami fra l’Italia e le potenze centrali si allentarono. Di colpo l’irredentismo antiaustriaco riprese prestigio e i suoi rapporti con la monarchia si fecero tesi, tanto più che con la nascita del movimento nazionalista l’irredentismo si coniugava con mire imperialistiche verso il litorale adriatico, l’Istria e l’Albania. In larga misura per realizzare questi obbiettivi e soprattutto per completare l’unità territoriale del regno l’Italia, dopo avere proclamato la propria neutralità agli inizi della guerra, finì per entrare nel conflitto nel maggio 1915 dalla parte delle potenze dell’Intesa che, promettendo territori che appartenevano ai loro avversari, avevano potuto mostrarsi più generose nei negoziati con Roma.
Anche all’interno delle stesse frontiere del 1914, l’unità italiana restava incompiuta. Si delineava il problema del Mezzogiorno, sottosviluppato e per molti aspetti «colonizzato» dal Nord. L’unità era stata realizzata dagli uomini del Nord che – con l’eccezione di F. Crispi – erano alla testa dello Stato italiano dal 1861. Le loro preoccupazioni erano tutte per gli interessi del Nord e la maggior parte di essi ignorarono completamente il Sud (Cavour non vi mise mai piede e Giolitti vi si recò una sola volta). Essi si basavano sull’idea che il Mezzogiorno fosse una regione assai fertile la cui scarsa valorizzazione era imputabile prima di tutto alla cattiva amministrazione dei Borboni e all’incapacità di una classe contadina oziosa e ignorante. Su queste basi, dal 1860 al 1914, la situazione del Mezzogiorno non poteva che aggravarsi. Paese essenzialmente rurale, il Sud non disponeva in partenza dei capitali necessari al suo decollo economico. La politica protezionistica inaugurata dalla sinistra nel 1878 e aggravata dalle tariffe insostenibili del 1887, volta a proteggere la giovane industria del Nord, aveva, per le ritorsioni messe in atto dagli altri Stati, messo in grave difficoltà le esportazioni agricole delle provincie meridionali (olio, vino, frutta ecc.). Inoltre, l’unificazione aveva privato il Sud di un buon numero di posti di lavoro nei servizi governativi del regno di Napoli e rovinato le industrie locali (artigianato, industrie portuali, cantieri navali) abbandonate senza alcuna protezione alla concorrenza dei prodotti del Nord, più a buon mercato. La responsabilità di questa situazione non poteva essere attribuita unicamente agli uomini politici. Vi erano anche cause naturali al sottosviluppo meridionale: la scarsità di terre fertili, l’assenza di carbone e di ferro, di possibilità di produrre energia idroelettrica, di grandi vie di penetrazione, la distribuzione dei rilievi sul territorio, la lontananza delle grandi aree di circolazione economica dell’Europa del Nord-Ovest. Soprattutto, bisogna tener conto della presenza del latifondo nell’assetto proprietario agrario. La terra era nelle mani di grandissimi proprietari che la sfruttavano estensivamente e il cui ideale di vita consisteva nel percepire le rendite pagate da affittuari e mezzadri e nello spenderle senza procedere ad alcun investimento destinato a migliorare la redditività del suolo.
Ostacoli dovuti alla struttura sociale, ostacoli naturali, elementi derivanti dalla congiuntura postunitaria si combinavano quindi per fare del Sud una «palla al piede» dell’economia. Ma l’azione degli statisti italiani lasciò che le cose si aggravassero più che correggerle. Certo alcune misure vennero prese: esenzioni fiscali e anche sovvenzioni agli industriali che accettavano di aprire imprese in certe città del Sud, sforzi per impiantare una rete ferroviaria, bonifica di terreni ecc. Ma, partendo da un livello estremamente basso, il Mezzogiorno avrebbe avuto bisogno di grandi investimenti che il governo non gli concesse. Così, si è potuto calcolare che, dal 1862 al 1896, lo Stato spese in lavori idraulici 270 milioni di lire nel Nord, 187 milioni nelle regioni centrali e solo 3 milioni nelle province meridionali. Nello stesso periodo, il Nord ricevette 142 milioni di lire per le sue strutture portuali e il Sud 86 milioni. Certamente, dopo il 1900, Giolitti fece votare tutta una serie di leggi miranti a sviluppare in regioni come la Basilicata, la Sicilia o la Sardegna, la rete ferroviaria, le strade, le canalizzazioni d’acqua, che però non vennero, in generale, applicate.
Non ci stupiremo certo che gli uomini d’affari del Nord, poco interessati a investire nel Mezzogiorno in opere che avrebbero potuto produrre profitti solo a lungo termine, abbiano spinto un potere quanto mai favorevole ai loro interessi su questa via. Più difficile da interpretare è l’atteggiamento delle classi dirigenti dell’antico regno di Napoli. In un primo tempo, esse si ribellarono contro la situazione che veniva inflitta alle provincie meridionali, rifiutando di collaborare col potere «piemontese» e sostenendo, contro di esso, il brigantaggio e l’azione delle società segrete: camorra napoletana e mafia siciliana. A poco a poco però esse accettarono di legare la loro sorte a quella della borghesia piemontese, nella misura in cui essa permetteva loro di conservare il loro potere economico nelle campagne e l’influenza politica locale. Si stipulò così fra gli ambienti industriali del Nord e i grandi proprietari del Sud un «alleanza» messa in evidenza da Gramsci, la cui conseguenza fu un allargamento del fossato che separava le due Italie. Da un lato, come abbiamo visto, il Sud si trovò sistematicamente sacrificato negli investimenti e, d’altra parte, la aristocrazia latifondista del Mezzogiorno non esitò a collocare nelle imprese industriali e finanziarie del Nord i profitti che traeva dalla mediocre gestione delle sue proprietà. Rosario Romeo ha dimostratoa come in questo modo, e con l’enorme pressione fiscale che gravò sulle masse italiane dopo la realizzazione dell’unità, la borghesia transalpina poté, in assenza di una riforma agraria che avrebbe distrutto i modi di produzione arcaici legati alla grande proprietà, operare la accumulazione del capitale necessaria al decollo industriale. In altri termini, come ha scritto Sergio Romano, bisognava scegliere «fra due diverse strategie: l’accumulazione capitalista o l’integrazione sociale. La classe dirigente scelse la prima senza esitazione»b scontando però effetti catastrofici per il Sud e per l’equilibrio socioeconomico dell’intera penisola.
Questa difficile situazione delle province meridionali, conseguenza del loro sottosviluppo, e della loro mancata integrazione, fu percepita da molti italiani come un ostacolo al compimento dell’unificazione. Inoltre, le popolazioni del Sud si sentirono e si dichiararono italiani «di serie B» e anche da questo punto di vista la guerra approfondì la frattura. Il governo, infatti, mentre accorderà generosamente agli operai impiegati nelle industrie necessarie agli sforzi richiesti dalla guerra esenzioni dal servizio militare, attingerà largamente fra i contadini per costituire la fanteria di cui il generale Cadorna si mostrerà assai prodigo. E naturalmente il Meridione fornì i contingenti più numerosi.

Ambiguità del regime

In teoria l’Italia era dotata di una costituzione democratica, lo Statuto concesso al Piemonte dal re Carlo Alberto nel 1848 ed esteso al regno d’Italia nel 1861. Questa costituzione affidava al re il potere esecutivo. Egli nominava e revocava i ministri, che erano responsabili solo di fronte a lui. Il re chiedeva loro consiglio ma non era affatto tenuto a seguirlo, era comandante dell’esercito, negoziava e firmava i trattati, pur essendo tenuto a informarne il Parlamento quando la sicurezza e l’interesse della nazione lo permettevano. La ratifica parlamentare era obbligatoria solo quando i trattati implicavano impegni finanziari o se erano suscettibili di modificare le frontiere dello Stato. Infine, poiché le competenze legislative erano assai poco definite, il sovrano poteva, in certe occasioni, emanare decreti dotati della stessa forza delle leggi.
Il potere legislativo apparteneva a due camere: una Camera dei deputati eletta fino al 1912 con suffragio censitario, che venne allargato nel 1882 in modo da integrare politicamente la piccola borghesia. Nel 1912, Giolitti estese il diritto di voto a tutti gli italiani di almeno trent’anni, che avessero compiuto il servizio militare e ai ventunenni che sapessero leggere e scrivere. In Italia come in Francia, anche se su scala più ridotta, la scolarizzazione e la coscrizione costituivano gli strumenti privilegiati dell’integrazione politica e della democratizzazione. Il Senato, i cui membri erano scelti dal re, condivideva con la Camera l’iniziativa delle leggi e il diritto di votare il bilancio.
Nella pratica il regime non sfuggiva a una certa ambiguità. L’applicazione dello Statuto avrebbe dovuto sfociare in un sistema di tipo tedesco nel quale la preponderanza apparteneva all’esecutivo. Ma la pratica costituzionale si sviluppò in direzione di una forma bastarda e caricaturale di regime parlamentare. L’uso impose a poco a poco un sistema assai simile al modello francese che però non corrispondeva né allo spirito né alla lettera della costituzione, mentre l’evoluzione sociale e politica del regno non permettevano la nascita di una vera via parlamentare. Nella pratica, i ministeri ben raramente si dimettevano per essere stati messi in minoranza dalle Camere e spesso invece per ragioni decise nei corridoi o per iniziativa di certi gruppi di pressione. Si constata infine che il potere giudiziario era controllato strettamente dall’esecutivo attraverso l’azione del ministro di Grazia e Giustizia che nominava e trasferiva i magistrati, mentre il Parlamento non disponeva di alcuna reale indipendenza. Il Senato era uno strumento nelle mani del sovrano che poteva modificarne la maggioranza a piacere nominando un’«infornata» di senatori. Il regime dipendeva quindi da una ristretta oligarchia che poteva farlo oscillare, sostenendosi sullo Statuto, verso un sistema autoritario saldamente detenuto dal re o, secondo la tradizione iniziata da Cavour, controllato dall’alta borghesia i cui rappresentanti dominavano il gioco parlamentare. L’imprecisione del testo costituzionale permetteva allora tutti gli adattamenti, entro i limiti di un sistema non democratico. Tale carenza istituzionale affidava l’Italia al dominio delle personalità più forti, fossero dirigenti oligarchici o lo stesso re. Dal 1900 – data della morte di Umberto I ucciso a Monza dall’anarchico Bresci – il re d’Italia era Vittorio Emanuele III, sovrano di gusti semplici, di aspirazioni borghesi, ma personalità debole, profondamente segnata dalla rigida educazione. Sensibile alle tradizioni militari della dinastia, tendeva a prestare molta attenzione ai punti di vista dell’esercito e più tardi dei nazionalisti. Poco interessato a riaffermare il potere personale del re, Vittorio Emanuele si sforzò di seguire gli impulsi popolari e di adattare a essi la sua politica, ma ciò lo condurrà ad assumere per sentimento profondo del suo popolo quello che erano solo le vociferazioni di gruppi minoritari.
L’aspetto pericoloso del sistema politico italiano consisteva nel fatto che l’accordo fra il re e il presidente del Consiglio bastava per rendere una decisione costituzionalmente valida. Così nel 1915 la decisione di tre persone, il re, il presidente del Consiglio Salandra e il ministro degli Esteri Sonnino basterà a gettare l’Italia nella guerra.

Oligarchia e potere politico

Fino alla riforma elettorale del 1912, su una popolazione totale di 36 milioni, solo 3 milioni di italiani avevano legalmente diritto di voto. Le donne – come in tutte le più antiche democrazie occidentali – l’intera classe operaia e quasi tutti i contadini ne erano esclusi. Questo rifiuto all’accesso delle masse alla vita politica era stato deciso nel 1860 perché il governo temeva il sostegno che le popolazioni agricole, rimaste profondamente cattoliche, avrebbero potuto dare alla Chiesa, allora in conflitto con i nuovi padroni di Roma. In seguito, la volontà di tener lontano il popolo dalla rappresentanza parlamentare si rafforzò quando lo sviluppo della grande industria ebbe prodotto la formazione di un proletariato di fabbrica sensibile alle idee socialiste e pericoloso per il dominio della borghesia italiana. Ma nemmeno tutti i 3 milioni di possibili elettori si recavano alle urne perché la maggior parte dei cattolici praticanti fino al 1896 applicarono alla lettera le direttive astensioniste della Santa Sede.
In queste condizioni è chiaro che la vita politica era interamente monopolizzata dalla borghesia e da quel settore di aristocrazia che, al di fuori del Piemonte, aveva scelto di legarsi ai Savoia. Ogni circoscrizione era composta di non più di qualche migliaio di elettori, il che facilitava la formazione di «clientele». I prefetti intervenivano, su ordine del governo, per favorire il «candidato ufficiale» e togliere all’opposizione qualsiasi seria possibilità di prevalere. Erano autorizzati a promettere agli elettori, se «votavano bene», vantaggi locali – ferrovie, strade, acquedotti ecc. – o ricompense individuali. Addirittura, in nome dell’ordine pubblico, arrivavano a far incarcerare preventivamente i candidati dell’opposizione, a cassare certi nomi dalle liste elettorali, a minacciare di licenziamento certi funzionari. Tali pratiche erano diffuse soprattutto nel Sud dove le autorità, in occasione delle elezioni, non esitavano ad accordarsi con le società segrete illegali, mafia e camorra, facendo mettere in libertà prigionieri appartenenti a tali organizzazioni perché usassero la loro influenza a favore del candidato di governo.
In un’epoca in cui si ritiene che non vi fossero più di 4500 elettori per circoscrizione, questi procedimenti bastavano a garantire al gruppo di potere una maggioranza stabile. Così si spiega la longevità ministeriale di coloro che in Italia sono stati chiamati «dittatori parlamentari», padroni del Parlamento grazie alla loro clientela e che si perpetuano al potere per anni e anni, tranne per i periodi in cui lo delegano a qualche luogotenente incaricato di prendere, al loro posto, misure impopolari. Dal 1876, tre personalità hanno dominato così la vita politica italiana: Depretis, Crispi e Giolitti.
In simili condizioni non potevano formarsi dei veri partiti. Il solo partito organizzato, il PSI, venne fondato solo nel 1892 e non poté giocare un ruolo politico effettivo prima del 1914, nonostante gli sforzi prodigati da Giolitti per attirare i suoi dirigenti più moderati in alleanze governative.
In Parlamento erano rappresentate solo le classi dirigenti, dall’aristocrazia fondiaria del Sud alla piccola borghesia urbana. La maggior parte dei deputati si proclamava liberale. I «liberali» non costituivano un partito propriamente detto, ma un blocco compatto di deputati diretti da qualche leader importante e aspiranti a impieghi ministeriali o desiderosi di trarre vantaggio dalla loro posizione. Non c’era quindi alternanza al potere di una maggioranza e della sua opposizione ma successione o piuttosto coalizione di gruppi di interessi diversi la cui sommatoria costituiva una maggioranza, non una politica. Sarebbe forzato sostenere che Sonnino sia stato il capo dell’ala destra e Giolitti sia stato quello dell’ala sinistra, perché entrambi erano seguaci del trasformismo, dottrina applicata dai governanti italiani a partire dal 1876 e che consisteva nell’assicurare al governo una maggioranza compatta negoziando preventivamente con i dirigenti più rappresentativi dell’opposizione il loro inserimento nei gruppi di governo.
Di fronte a una maggioranza che rappresentava almeno tre quarti del Parlamento, l’opposizione contava al massimo qualche decina di deputati aderenti a quanto restava della «destra storica» e ai piccoli gruppi della sinistra: repubblicani, socialmente non lontani dai liberali ma di tradizione ideologica mazziniana, radicali favorevoli a una rapida democratizzazione del paese e socialisti, di solito moderati.
L’assenza di una soluzione di ricambio fece della vita politica italiana qualcosa di estremamente accademico. Le masse se ne disinteressavano, quando non si indignavano per le risse che periodicamente rompevano la monotonia della vita parlamentare o per la corruzione rivelata dagli scandali politico-finanziari come quello della Banca romana nel 1892-1893 che colpì i due principali dirigenti dell’epoca, Giolitti e Crispi. Ne derivò una disaffezione al parlamentarismo che alimentò a partire dal XX secolo tutta una corrente del pensiero politico italiano favorevole all’instaurazione di un reg...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Storia del fascismo
  4. Introduzione
  5. STORIA DEL FASCISMO 1919-1945
  6. Conclusione
  7. Bibliografia
  8. Copyright