Sono nato nel 1942, in un grigio pomeriggio nebbioso di Santo Stefano, a Walthamstow, Londra, E17. Niente male come città in cui venire al mondo, per quanto in realtà giusto fuori dalla porta di casa ci fosse la guerra. Fui fortunato, comunque: il quartiere era pieno di artisti. Un sacco di visionari famosi e tipi creativi bazzicavano la zona, e molta gente del posto aveva già lasciato il segno in giro per il mondo. Per esempio, Walthamstow aveva dato i natali a William Morris, che era venuto al mondo centootto anni prima di me nella vicina Elm House, in Forest Road, di fronte all’odierna stazione dei pompieri, praticamente nel luogo esatto in cui, a quindici anni, trovai lavoro nella fabbrica che c’era allora.
Sono cresciuto in Chingford Road, che incrocia Forest Road. In Forest Road c’è l’auditorium nel quale mi sarei poi esibito molte volte. Vicinissimo all’auditorium sorge la scuola d’arte di Walthamstow, dove Sir Peter Blake insegnò dal 1961 al 1964. Fra i suoi studenti, fra l’altro, ebbe persone piuttosto speciali, compresi Vivian Stanshall, Ian Dury e Peter Greenaway. Anche Ken Russell frequentò quell’istituto. Da adolescente, per un breve periodo, mi iscrissi ai corsi d’arte serali, ma trovavo abbastanza noioso disegnare sempre dei vecchiacci nudi, e soltanto una volta ci diedero l’opportunità di riflettere e riprodurre sul foglio le assai più interessanti forme femminili. Insomma, mentre io vivevo la mia vita, giusto dietro l’angolo si stavano formando molti futuri luminari delle arti creative. Vivian Stanshall e Peter Blake addirittura ci vivevano, a Walthamstow.
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A quanto pare la cara vecchia istituzione britannica della scuola d’arte è un rito di passaggio per i musicisti in erba. Non sto parlando della mia brevissima esperienza, ma dei suddetti Ian Dury e Vivian Stanshall, due menti dalla fantasia incredibile, oltre che di gente come Keith Richards, John Lennon, Pete Townshend, Jimmy Page e, naturalmente, della persona che più di ogni altra citeremo in questo libro: il nostro Dave.
Altri nativi di Walthamstow senz’altro degni di nota sono Geoffrey Wellum, medaglia al valore e asso aeronautico della Battaglia d’Inghilterra (le sue coinvolgenti memorie, narrate nel libro First Light, ti danno l’impressione di essere seduto accanto a lui sullo Spitfire), e l’autore e artista Robert Barltrop. Quest’ultimo in realtà era un mio cugino, e quand’ero giovanissimo fu una sorta di mentore per me: mi diede da leggere una combinazione di opere filosofiche e altri libri serissimi, e mi spronò affinché mi ci dedicassi a dovere. Scrisse libri su Jack London e sull’inglese cockney, oltre al racconto autobiografico della sua infanzia nei sobborghi nordorientali di Londra fra le due guerre.
Nel novero degli altri musicisti importanti che frequentavano la zona non posso non citare Mick Ronson, membro degli Spiders From Mars e collaboratore-chiave di Bowie, che spesso stava a casa della sorella a Walthamstow. E, naturalmente, come dimenticare gli East 17…
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I miei primi ricordi del palcoscenico risalgono a quando avevo cinque anni. Mio nonno materno, David Pope (anche lui uomo di spettacolo), si esibiva regolarmente al Buxton Club, un locale situato a poca distanza da High Street, a Walthamstow. Ricordo che mio padre, Wally, mi passò a qualcuno, sopra la testa di altri membri del pubblico, e un attimo dopo mi ritrovai sul palco, dove cantai una canzone a quei tempi molto famosa, intitolata Open the Door, Richard. Era un vecchio brano che affondava le radici nel vaudeville afroamericano e che era stato inciso nel 1947 dai Three Flames e poi dal sassofonista Jack McVea e dai suoi All Stars, che in quegli anni lo trasformarono in un grande successo.
Mio nonno era un comico che non disdegnava le danze tradizionali con gli zoccoli, e il suo nome d’arte era Larry Norman. Conservo ancora il suo fondotinta e i suoi zoccoli, e ogni tanto, da ragazzo, mi capitò di indossare per qualche recita il suo costume di scena in velluto tempestato di lustrini. Me lo sarei messo anche con i Lower Third, se solo ci fossimo decisi a chiamarci i Toys, come avevo suggerito una volta! Nessuno avrebbe battuto ciglio, vista la costante mutazione di stili e di costumi che David avrebbe poi reso uno dei suoi marchi di fabbrica.
Prima del mio debutto sul palco al Buxton Club, però, a me e alla mia famiglia, così come a migliaia di altri, era toccato il tormento di doverci regolarmente accalcare nel nostro angusto rifugio antiaereo Anderson sotto la minaccia dei missili V2 di Hitler. Il nostro cortile, dove sorgeva quel capanno fatto di lamiere ondulate, era altrettanto chic.
Ho pochi ricordi delle cupe nottate passate nel rifugio Anderson, ma di sicuro c’è che era molto buio, dato che stavamo a lume di candela. Era così angusto che, una volta entrati tutti gli adulti, ci si stava davvero stretti. Quando il rifugio si allagava, usavamo quello dei vicini, e probabilmente è per quello che mi ricordo tanta gente così stipata. Ero troppo piccolo per avere paura, e non ricordo nessuna esplosione, per cui mi sa che alla fine avrò dormito per la maggior parte della Seconda guerra mondiale.
Molti anni dopo, mi esibii al Buxton con il chitarrista di una band chiamata gli Outlaws, o anche Mike Berry and The Outlaws. Quella volta, però, decidemmo bene di non inserire in scaletta Open the Door, Richard.
Un altro ricordo divertente del Buxton risale ai miei sedici anni, quando suonavo in un complesso che una sera accompagnò un duetto di drag queen. Scendendo dal palco dopo l’inchino di rito, una delle due si voltò verso di me, mi sorrise, mi passò le dita fra i capelli e disse: «Ciao, ricciolino». Essendo un adolescente parecchio ingenuo, c’era il rischio che la cosa mi turbasse un po’, invece mi ricordo soltanto di essermi sentito lusingato. A proposito, i riccioli ce li ho ancora, anche se ammetto che oggi sono un tantino ingrigiti.
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La mia passione per il palcoscenico (un tema ricorrente di questo libro) risorse intorno agli undici anni, quando mi misi in testa di fare il ventriloquo. Ero un grande ammiratore di Peter Brough e Archie Andrews.
Brough si era fatto un nome come ventriloquo su Bbc Radio a partire dal 1944, e nel 1950 aveva presentato al mondo il personaggio di Archie Andrews, un pupazzo dall’aria lievemente inquietante, in una trasmissione intitolata Educating Archie. Oggi sembra una sciocchezza – un ventriloquo famoso con un programma radiofonico tutto suo – e già vi sento che chiedete: «Come faceva uno a sapere se muoveva le labbra oppure no?». Naturalmente erano sempre spettacoli registrati dal vivo, ed era la reazione entusiasta del pubblico a rendere credibili lui e Archie. Sembrava davvero che funzionasse e io ne andavo matto. Poi dovete anche tenere a mente che a quei tempi per noi la radio era come la televisione. Le immagini ce le costruivamo da soli, con la fantasia.
Nel 1956 Archie Andrews ormai aveva un programma televisivo tutto suo e, anche se all’epoca gli schermi erano piccolissimi, si vedeva bene che Brough era un ventriloquo strepitoso.
A ogni modo, mi misi in testa di diventare il Peter Brough di Walthamstow, e mi ci impegnai, tanto che imparai a parlare senza muovere le labbra quasi come un professionista, e di sicuro abbastanza bene da dare l’impressione che fosse il mio pupazzo a farlo. Nello stesso periodo cominciai a lavorare a un numero di escapologia, con l’obiettivo di diventare un consumato artista poliedrico.
Mia madre, una sarta altrettanto consumata, fece al mio pupazzo un completo di velluto a coste come si deve, con una bella camicia e una cravatta, in modo tale che facesse la sua figura. Ce l’ho ancora, il piccoletto, e molti anni più tardi una donna che frequentavo andò fuori di testa quando le presentai il mio Archie. Ovviamente, ragazzi, non è che si possa tirar fuori il piccolo Archie al primo appuntamento!
Partendo da quel minuscolo svago in veste di intrattenitore solista, finii per organizzare uno spettacolo per i bambini del quartiere a casa dei miei, con tutte le sedie che avevamo a disposizione messe in fila per creare una platea. Oddio. Finì in lacrime (le mie) dopo che uno degli altri bambini accettò la mia sfida, allorché lo invitai a farsi legare, con tanto di lucchetto, per poi tentare di liberarsi. Quella parte dello spettacolo l’avevo iniziata dando l’esempio, ovvero facendomi legare io stesso e scassinando abilmente il lucchetto con l’aiuto di un vecchio chiodo che avevo tenuto nascosto. Finsi di liberarmi con un turbinio di gesti plateali, dopodiché saltai fuori dalle catene per accettare compiaciuto l’applauso del mio giovane pubblico, poco numeroso ma senz’altro entusiasta.
Dopodiché venne il turno del mio amico. Mi aspettavo che si sforzasse invano per poi supplicarmi di liberarlo. Quel che non avevo messo in conto era l’approccio alquanto pragmatico del mio ospite al problema in questione. Con totale nonchalance, spezzò in un baleno le catene di plastica, liberandosi all’istante e suscitando un applauso ancor più fragoroso.
Buu. E con questo, il mio numero di escapologia fu prontamente rimesso al proprio posto.
In realtà non credo che fossi poi tanto male, dato che mi esibivo regolarmente alla scuola primaria di Winns Avenue a Walthamstow, facendo lo spettacolo completo. A dire il vero conservo una copia del giornalino scolastico, chiamato «The Acorn», che include un breve articolo sul ventriloquio firmato dal vostro affezionatissimo. In nota, un redattore spiega che, all’età di undici anni, mi ero già esibito in diversi spettacoli scolastici. E non solo, visto che, con l’aiuto del mio amico Jack White, diedi vita a una compagnia di intrattenitori così potevamo sgattaiolare astutamente via dalle lezioni con la scusa di mettere su degli spettacolini per le varie classi della scuola. Facevo anche qualche trucco da prestigiatore, oltre al numero di escapologia (quello in realtà lo inserii dopo aver visto Tony Curtis nel film Il mago Houdini) e addirittura uno spettacolo di marionette. Jack suonava la chitarra, e gli altri ragazzi suonavano tutti qualche strumento. Ma che stronzetto precoce, direte voi. Ma no, in realtà ero parecchio timido e mi piaceva solo intrattenere: sul palco potevo concretamente diventare un’altra persona e nascondermi dietro la sua maschera. Quel modo di pensare, a ben vedere, mi ricorda un tizio che avrei conosciuto qualche anno più tardi quando diventai un batterista professionista. Aveva un approccio molto simile, se si trattava di esibirsi di fronte al pubblico, e avrebbe fatto, grandi cose, grandissime. Chissà chi sarà?
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È difficile da credere, ma la nostra preside consigliava a tutti i suoi studenti di non iscriversi agli esami finali della scuola primaria, che erano facoltativi e che interessavano soprattutto a chi sperava di essere ammesso in qualche liceo molto selettivo. Bel modo di credere in noi. Certo, aveste visto il manoscritto originale del libro che avete in mano (prima che il controllo ortografico lo fulminasse), probabilmente non la biasimereste. E se poteste vedere i miei vecchi quaderni (alcuni li conservo ancora), la mia grafia in effetti fa pensare che un ragno fosse uscito dal calamaio per scrivere al posto mio. E va be’, alla fine forse aveva ragione lei.
Nonostante tutto, però, io e i miei compari creativi – con vari livelli di successo e di apprezzamento – riuscimmo a sottrarci agli stereotipi dello stampo in cui ci avevano versato, con l’idea di provare a combinare qualcosa. Un insegnante una volta disse al mio caro amico Denis Payton – siamo stati compagni di scuola in tre istituti diversi – che non sarebbe andato da nessuna parte, suonando il sassofono. Ma che ne sapeva, lui? Soprattutto visto che Denis fondò poi uno dei gruppi britannici più famosi degli anni Sessanta, i Dave Clark Five.
Walthamstow era anche messa bene in quanto a offerta di musica dal vivo, tanto che piuttosto spesso passavano di lì i più grandi idoli musicali degli anni Cinquanta e Sessanta. Il cinema Granada, per esempio, faceva anche da sala concerti ed era una delle destinazioni più ambite per gli artisti di maggior successo, come i Beatles e gli Stones. Ospitò spesso anche grandi band e artisti americani come Count Basie e Duke Ellington. Al Granada si esibirono pure Buddy Holly e Roy Orbison. Io ci avrei poi suonato regolarmente con uno dei miei gruppi, i Blue Dukes: prima però dovevo imparare a farlo.
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Cominciò tutto in maniera molto innocente, come spesso capita con passioni del genere. Iniziai a suonare la batteria a quattordici anni, per volere di un mio compagno di scuola con straordinarie capacità motivazionali e persuasive. L’amico in questione era (ed è) Jack White, che a sua volta era pieno di un talento creativo naturale e voleva che i suoi amici prendessero in mano degli strumenti e mettessero su un complesso. Già ero rimasto folgorato da gente come Eddie Calvert – un ottimo trombettista – e Tommy Steele, il nome più famoso all’epoca, nonché la prima vera pop star britannica. Io mi consideravo un frontman, proprio come uno di quei personaggi famosi degli anni Cinquanta. Be’, sognare non costa nulla.
Comunque sia, Jack, con la sua immensa forza di persuasione, mi convinse invece a suonare la batteria. Francamente ero colpito da qualsiasi tipo di talento in ambito musicale, ma la batteria mi emozionava in particolare, specie quando artisti come Gene Krupa si lasciavano andare. Così Jack l’ebbe vinta e io mi avvicinai allo strumento.
La mia prima «batteria», per modo di dire, probabilmente avrebbe convinto gran parte della gente di buon senso a lasciar perdere la musica una volta per tutte. Ma da qualche parte dovevo pur cominciare. Con una manciata di penny in tasca, ci toccò arrangiarci alla buona, così iniziai con una serie di fusti di detersivo sistemati sulla scala di mio papà. A dire il vero all’epoca non era strano vedere strumenti improvvisati di tutte le fogge: tavole per il bucato, bidofoni eccetera. La mia batteria era un esempio di Pop art prima ancora che esistesse la Pop art; il signor Warhol e compagnia sarebbero stati fieri di me.
Ben presto ci procurammo una batteria in miniatura, soltanto che arrivò senza le pelli. Nessun problema! Non per un tipo pragmatico e ingegnoso come Jack: «Usiamo qualche camicia vecchia» dichiarò, scorgendo la delusione sul mio volto. «Basta inamidarle per farle irrigidire un po’.» Così facemmo e più o meno funzionò. Nel frattempo, Jack imparò a suonare la tromba (che fino a poco prima avrei voluto suonare io).
Incoraggiammo, assillammo e supplicammo il mio amico Denis Payton (inseparabile compagno di Jack, in pratica erano gemelli) perché si procurasse anche lui uno strumento. Il papà di Denis faceva l’usciere al Savoy di Londra, quindi magari qualche soldo in più dei miei lo aveva. Fu proprio lui ad accompagnarci da Selmer, un negozio di musica in Charing Cross Road, dove comprò al figlio un clarinetto. Non una brutta mossa da parte sua: Denis alla fine passò dal clarinetto al sax tenore per poi unirsi ai Dave Clark Five. Purtroppo Denis se n’è andato nel 2006. E alla nostra piccola banda di fratelli manca ancora come il primo giorno.
Denis aveva un vicino di casa più grande che suonava bene la batteria. Una volta, mentre stava cambiando la gomma di un’auto accanto al marciapiede, si mise a tenere un ritmo spettacolare sul cerchione. Fui come rapito. Rimasi a guardarlo, sognando di poter suonare anch’io così. Di sicuro mi fece venire sempre più voglia di esercitarmi.
Per quanto Jack fosse stato l’iniziatore di questa corsa agli strumenti, immagino che comunque fosse da sempre scritto nelle stelle. Eravamo un gruppo di ragazzini sulla stessa lunghezza d’onda, tutti smaniosi di combinare qualcosa nel campo della musica, e Jack fu semplicemente il primo a prendere l’iniziativa. Divenne il nostro catalizzatore.
Un altro compagno di avventura (e tutt’ora mio caro amico) che era prontissimo a prendere in mano uno strumento e che non ebbe bisogno dell’incoraggiamento di Jack o di nessun altro era John Urquhart. John si era innamorato di come mia mamma suonava l’ukulele così lei glielo insegnò di buon grado (suonava anche il pianoforte, mia madre: era molto talentuosa). Ripensandoci, gran parte della mia passione per la musica e per l’intrattenimento deve essermi stata trasmessa da lei e mio nonno, per quanto all’epoca non me ne rendessi conto. Le lezioni di ukulele di John sembravano un sentiero destinato a condurlo naturalmente alla chitarra, strumento con il quale infatti sarebbe diventato un musicista eccellente. Negli anni Sessanta ebbe grande successo con la band Nero and The Gladiators, che una volta addirittura aprì per i Beatles al Cavern (tra i loro successi spicca In the Hall of the Mountain King). Eravamo tutti ragazzi di Walthamstow e andavamo a scuola insieme: l’istituto si chiamava William McGuffie Secondary Modern ed era un liceo frequentato in larga parte da scapestrati come noi.
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Devo ammettere che nelle lezioni di musica che facevo a scuola non ero particolarmente dotato, il mio amico Denis, invece, di sicuro si distingueva. Me lo ricordo ancora, sed...