Gli inizi
Sotto, un oceano di magma fuso di colore rosso fuoco. Sopra, una pioggia incessante di meteoriti e piccoli asteroidi, bolidi che si schiantano sulla superficie liquida e bollente del pianeta, rilasciando ancora più calore e seminando composti del carbonio, che più tardi sarebbero stati incorporati nelle molecole della vita. Nei primi 200 milioni di anni della sua esistenza, la Terra ribolliva incessantemente, somigliando alle descrizioni più pulp di un Inferno dantesco.
In questo primo eone geologico, non a caso detto Adeano, l’interno del pianeta si andava differenziando fra un nucleo denso, ricco di metalli, e un mantello roccioso più leggero, costituito di materiali silicei e ancora parzialmente fuso. Durante l’Adeano, in un periodo di tempo di circa 500 milioni di anni terminato 4 miliardi di anni fa, l’orbita di un planetoide grande circa quanto Marte, chiamato Theia, incrociò l’orbita del nostro pianeta, scontrandosi con la Terra in un urto di proporzioni colossali. I due corpi celesti si fusero e la violenza dell’impatto proiettò fuori un gigantesco frammento incandescente, che con il tempo si solidificò dando forma al più algido dei satelliti che conosciamo: la Luna.
Nei milioni di anni successivi, lentamente, la superficie della Terra si raffreddò e divenne solida, ricoperta di basalti prima e di graniti in seguito, mentre gli impatti con gli asteroidi diminuivano, i continenti iniziavano a formarsi e grandi eruzioni vulcaniche dominavano la scena planetaria. Era nata la crosta terrestre. I vulcani liberavano le grandi quantità di energia termica ancora presenti nelle viscere del pianeta, rilasciando gas e acqua che andavano a formare l’atmosfera primordiale. Altra energia veniva prodotta dal decadimento di elementi radioattivi che erano stati incorporati nel mantello durante la formazione della Terra. In quell’epoca, con la diminuzione della temperatura superficiale, nuovi oceani di acqua liquida ricoprirono la superficie, l’atmosfera iniziò la sua lunga evoluzione chimica e la Terra si trasformò in un pianeta pronto a ospitare la vita. Era l’inizio dell’Archeano, il periodo che va da circa 4 a 2 miliardi e mezzo di anni fa.
La vita, dunque, apparve relativamente presto sulla Terra: numerosi indizi suggeriscono la presenza di vita cellulare pienamente sviluppata più di 3 miliardi e mezzo di anni fa, quindi poco dopo che le condizioni divennero meno ostili. Come si sia originata la vita sulla Terra rimane oggi uno degli enigmi scientifici più affascinanti, collegato ovviamente alla domanda se organismi viventi abbiano potuto svilupparsi anche su altri pianeti. Ma qui, ora, siamo interessati a come fosse il clima di quel tempo lontano, come l’oceano, l’atmosfera e la superficie interagissero fra loro e quali fossero le condizioni climatiche globali.
L’atmosfera dell’Archeano
Nell’Archeano, l’atmosfera era diversa da quella che conosciamo oggi. Per parecchio tempo, gli scienziati hanno ritenuto che l’atmosfera primitiva della Terra fosse fortemente «riducente», ossia povera di ossigeno e ricca invece di molecole contenenti idrogeno, come metano, idrogeno solforato e ammoniaca, sostanze in verità non troppo piacevoli per i nostri gusti. Nel 1952 e 1953, due ricercatori statunitensi, Stanley Miller, allora giovane assistente, e Harold Urey, il suo professore, effettuarono un esperimento che è ancora oggi una pietra miliare. Seguendo l’intuizione di Alexander Oparin, biochimico russo che trent’anni prima aveva proposto una teoria sull’origine biogeochimica della vita, Miller e Urey inserirono in un contenitore chiuso una miscela di gas allora ritenuta simile all’atmosfera dell’Archeano, aggiunsero acqua e fecero scoccare diverse scintille nel contenitore, per simulare l’effetto dei fulmini.
Il risultato, sorprendente, fu che si produssero molte molecole organiche complesse, inclusi diversi tipi di aminoacidi che oggi sono presenti negli organismi viventi. L’entusiasmo e l’emozione furono enormi, e sembrava che si fosse ormai a un passo dal comprendere come era nata la vita sulla Terra.
Dai composti organici di Miller e Urey al funzionamento di una cellula vivente, tuttavia, la strada è ancora lunga. Nei decenni successivi, altre possibilità furono esplorate: ad esempio, che la vita fosse nata intorno alle sorgenti idrotermali sottomarine, oppure per l’azione catalitica di alcuni tipi di argilla sulla formazione di membrane protocellulari. Oppure, ancora, che avesse avuto origine nelle profondità della crosta terrestre, diversi chilometri sotto la superficie, con organismi capaci di utilizzare il metano come sorgente di energia. C’è stato invece chi, come Fred Hoyle, un noto astrofisico statunitense, ha sostenuto l’ipotesi della panspermia, e cioè che la vita fosse arrivata sulla Terra portata da comete e asteroidi provenienti da altri pianeti (ma questo non risolve il problema di come si fosse formata la vita su quegli altri pianeti). Oggi, sappiamo che molecole organiche complesse possono essere osservate nelle nubi molecolari interstellari e ritrovate sulle meteoriti che cadono sulla Terra. Nel 2019, ad esempio, è stato identificato uno zucchero complesso, il ribosio, in due meteoriti diverse. Ma, almeno per ora, non siamo ancora in grado di ricostruire completamente la catena di passaggi che porta da queste molecole complesse alla prima cellula funzionante.
Anche l’atmosfera dell’Archeano, in realtà, non era così riducente come si pensava fino a pochi anni fa. Nel 2011, Dustin Trail e due suoi colleghi del centro per l’Astrobiologia del Politecnico di Rensselaer, nello Stato di New York, hanno pubblicato un articolo scientifico in cui analizzavano la composizione dei minerali più antichi presenti sulla Terra. I risultati dello studio suggeriscono che l’atmosfera primordiale fosse composta principalmente di anidride carbonica, diossido di zolfo e acqua, tutte molecole molto stabili. Un’atmosfera, quindi, assai meno riducente e decisamente diversa da quella ipotizzata nell’esperimento di Miller e Urey. Insomma, la ricerca sull’origine della vita sulla Terra continua tuttora e plausibilmente occuperà i ricercatori per molto tempo a venire.
Quel mondo lontano era molto diverso da quello che conosciamo noi. Niente vita sulla terraferma, vita unicellulare (soprattutto organismi simili ai batteri e agli Archea) nelle acque marine, e un’atmosfera in ogni caso diversa da quella che respiriamo ora. Se uno di noi fosse trasportato da una macchina del tempo in quell’ambiente, soffocherebbe all’istante. Niente ossigeno molecolare nell’atmosfera, nessuno strato di ozono che protegga dai raggi ultravioletti solari, insomma un pianeta alieno con un ecosistema basato perlopiù su metabolismo anaerobico, sostenuto da reazioni chimiche che possono avvenire solo in assenza di ossigeno. Ma è l’ambiente in cui si è sviluppata la vita che, dopo una lunga catena di evoluzioni successive, ha portato a noi e al mondo che ci è familiare.
Oceani anossici
Anche gli oceani dell’Archeano erano differenti da quelli attuali. La salinità oceanica probabilmente non era tanto diversa, ma poiché non vi era ossigeno libero nell’atmosfera, non ce n’era neppure disciolto nelle acque marine: gli oceani erano anossici. Grazie alla quasi totale assenza di ossigeno, le calde acque dell’Archeano contenevano grandi quantità di ferro solubile disciolto (detto «ferro ferroso», ovvero ione ferro con due cariche positive), proveniente dalle rocce, che negli oceani attuali risulterebbe invece immediatamente ossidato e, insolubile, precipiterebbe nel sedimento. Gli organismi unicellulari presenti in quei mari vivevano in condizioni anaerobiche, ovvero il loro metabolismo richiedeva la quasi assenza di ossigeno libero e un ciclo vitale basato su reazioni chimiche fra gli ioni di ferro disciolto e l’anidride carbonica. Altri tipi di metabolismo utilizzavano lo zolfo, ampiamente disponibile negli oceani archeani. Ad esempio, il processo di fotosintesi sviluppato dai cosiddetti «batteri viola» (purple sulfur bacteria) era basato su un ciclo anaerobico che utilizzava la luce solare e l’idrogeno solforato.
In quel mondo basato sulla chimica del ferro e dello zolfo, però, erano presenti anche alcuni organismi unicellulari capaci di un diverso tipo di fotosintesi, ben più efficiente. I cianobatteri, un tempo chiamati alghe verdi-azzurre, con un nuovo processo fotosintetico riuscivano a utilizzare l’anidride carbonica dell’atmosfera, l’acqua e la luce solare per generare energia, producendo, come materiale di scarto… ossigeno molecolare. Sappiamo che quasi sicuramente i cianobatteri erano presenti già 2 miliardi e 700 milioni di anni fa, e forse anche prima. In quel mondo, l’ossigeno era un gas tossico, letale per gli organismi anaerobici, e i nuovi arrivati erano destinati a espandersi dalle nicchie ecologiche in cui si erano sviluppati per sconvolgere il mondo anossico dell’Archeano.
La presenza di ferro disciolto e la produzione di ossigeno da parte dei cianobatteri nelle acque oceaniche del tardo Archeano ha dato origine alle spettacolari rocce sedimentarie dette banded iron formations, le «formazioni a strati di ferro». Queste coloratissime strutture, importanti anche per l’estrazione mineraria del ferro, sono oggi visibili nelle rocce più antiche in Australia, Brasile, Canada, Sudafrica, India, Russia e Stati Uniti. Ciascuna banda ha uno spessore che può variare da meno di un millimetro fino a un metro, ed è composta di ematite o magnetite, due ossidi di ferro. Fra le bande, si trovano rocce sedimentarie silicee, costituite da selci o anche da scisti.
Ma in che modo si sono formate queste bande? È presumibile che la produzione di ossigeno da parte dei cianobatteri abbia giocato un ruolo essenziale. Abbiamo visto che, durante la fotosintesi, viene prodotto ossigeno come materiale di scarto. L’ossigeno prodotto dai cianobatteri nelle acque basse delle piattaforme continentali archeane veniva quindi rapidamente eliminato, perché si combinava con il ferro disciolto, generando ossidi di ferro insolubili che precipitavano sul fondo. Si creavano così i depositi ricchi di ferro che oggi vediamo nelle rocce in tante zone del mondo.
Perché, però, il processo di precipitazione degli ossidi di ferro non è stato continuo, ma ha dato origine a un’alternanza fra sedimenti ricchi di ferro e rocce silicee che invece ne sono quasi prive? Al momento, non vi è ancora una risposta definitiva. Una possibilità è che l’ecosistema dei cianobatteri passasse attraverso una serie di oscillazioni in cui era più o meno efficiente, quindi più o meno in grado di produrre ossigeno con la fotosintesi. Oppure, potrebbero esserci state fluttuazioni nelle caratteristiche chimiche dell’ambiente, che lo hanno reso più o meno adatto alla precipitazione del ferro. Di recente, infine, un gruppo di ricercatori australiani, tedeschi e canadesi ha proposto una spiegazione diversa: secondo questa ipotesi, suffragata dalle analisi della struttura microscopica delle rocce a bande di ferro, la sedimentazione del ferro sarebbe stata approssimativamente continua. Solo dopo la deposizione, nei processi di diagenesi e metamorfismo (che modificano sedimenti e rocce sedimentarie quando i processi geologici li portano in profondità, a temperature e pressioni ben più alte che in superficie), ci sarebbe stata una «migrazione» degli ossidi di ferro, che si sarebbero separati dal sedimento siliceo formando bande alternate ad alta concentrazione di ferro.
Indipendentemente dal fatto che le banded iron formations siano state originate da oscillazioni nella produzione di ossigeno o da processi avvenuti dopo la sedimentazione, queste strutture a bande ci dicono due cose importanti: la prima è che già più di 2 miliardi e mezzo di anni fa esistevano organismi unicellulari capaci di fotosintesi, che producevano ossigeno come materiale di scarto; la seconda, che l’ossigeno era comunque presente in concentrazioni relativamente basse, altrimenti il ferro non sarebbe potuto rimanere disciolto e sarebbe stato invece ossidato subito, appena entrato in contatto con l’acqua di mare, come avviene negli oceani moderni. Non a caso, non si trovano rocce a bande di ferro più giovani di un miliardo e 800 milioni di anni, se si esclude un episodio significativo intorno a 600 milioni di anni fa, su cui torneremo nel prossimo capitolo.
Il regno dell’ossigeno e dello zolfo
Tre miliardi di anni fa, l’ossigeno molecolare era pressoché assente nell’atmosfera e negli oceani della Terra. Oggi, la concentrazione atmosferica dell’ossigeno è di circa il 21% e gli oceani sono ossigenati fino a grandi profondità. Qualcosa è dunque successo fra quel lontano passato e i tempi più recenti, qualcosa che ha fatto crescere enormemente la quantità di ossigeno libero nell’atmosfera e ha modificato drasticamente l’ambiente del nostro pianeta.
Nelle acque non troppo profonde che coprivano le piattaforme continentali dei mari archeani, i cianobatteri all’inizio producevano piccole quantità di ossigeno che si combinavano con il ferro disciolto, producendo ossidi che venivano rapidamente depositati nei sedimenti del fondo. Più le popolazioni di cianobatteri crescevano, più ossigeno veniva prodotto. Non tutto l’ossigeno veniva riutilizzato dal ciclo biologico (i cianobatteri, come le piante, producono ossigeno nelle reazioni della fotosintesi e lo riassorbono durante la respirazione notturna). Infatti, parte della materia organica prodotta con la fotosintesi veniva seppellita nel sedimento, lasciando un surplus di ossigeno nell’acqua. Come conseguenza, il ferro disponibile venne ossidato e l’ossigeno iniziò ad accumularsi nelle acque marine, e da lì a passare nell’atmosfera. Gli organismi anaerobici vennero confinati in zone marginali, sotto i fanghi del fondo marino o a grandi profondità, mentre in superficie il mondo diventava sempre più ricco di ossigeno.
La concentrazione atmosferica di ossigeno è comunque cresciuta molto lentamente a partire da circa 2,4 miliardi di anni fa. Per centinaia di milioni di anni, l’ossigeno è infatti rimasto a valori inferiori al 10-15% della concentrazione attuale: la figura 1.1, ridisegnata dal lavoro di Donald Canfield, un biogeochimico che lavora in Danimarca, mostra una ricostruzione approssimata del livello di ossigeno nell’atmosfera.
Però… c’è un però. Se i cianobatteri sono stati la causa dell’ossigenazione ed erano già presenti più di 2,7 miliardi di anni fa, perché la concentrazione di ossigeno nell’atmosfera non ha iniziato a crescere ancora prima, appena si sono evoluti, ed è invece rimasta bassa tanto a lungo?
Figura 1.1 Ricostruzione approssimata della concentrazione di ossigeno nell’atmosfera, in percentuale rispetto al valore attuale, tratta dal lavoro di Donald E. Canfield (2015).
È difficile rispondere con certezza a questa domanda, perché le informazioni in nostro possesso sono ancora scarse. In ogni caso, due sono i fattori che possono aver limitato la concentrazione di ossigeno: una scarsa produzione da parte di popolazioni non così abbondanti di cianobatteri, oppure una rapida eliminazione dell’ossigeno dall’atmosfera. O entrambe le cose insieme. E, in generale, la chimica dell’oceano e dell’atmosfera ha necessariamente giocato un ruolo essenziale nel determinare la composizione di quel mondo.
Una possibilità è che nei mari archeani vi fosse poco fosforo, un nutriente essenziale per i cianobatteri e le alghe, allora come oggi. Infatti, il fosforo era facilmente assorbito dagli ossidi di ferro che precipitavano generando le banded iron formations (BIF) di cui abbiamo parlato prima. Il fosforo disciolto nelle acque marine sarebbe risultato così di gran lunga inferiore a quello odierno, limitando notevolmente la produttività dell’ecosistema dei cianobatteri e, di conseguenza, la produzione di ossigeno dalla fotosintesi. Avrebbe potuto quindi innescarsi un ciclo di cause ed effetti in cui i cianobatteri producevano ossigeno, che si combinava con il ferro disciolto e lo faceva precipitare come ossidi di ferro; questi ultimi però assorbivano il fosforo, rimuovendolo dall’acqua e limitando così i nutrienti e la crescita dei cianobatteri e, infine, la produzione di ossigeno. Tale ciclo avrebbe potuto anche dare origine a oscillazioni temporali dell’intero processo, generando le bande ferrose dei sedimenti.
Intorno a 2,4 miliardi di anni fa, invece, un nuovo evento potrebbe aver interrotto il ciclo ossigeno-ferro-fosforo: le analisi dei sedimenti e delle rocce indicano che in quel periodo l’oceano divenne più ricco di zolfo, che si combinava con il ferro disciolto nell’acqua portando alla formazione di pirite, con formula chimica FeS2 (un atomo di ferro e 2 atomi di zolfo). La pirite precipitava sul fondo, rimuovendo il ferro dall’acqua. A quel punto, la formazione di ossidi di ferro e di BIF risultava fortemente ridotta, il fosforo non era più eliminato dall’acqua, i nutrienti diventavano abbondanti e i cianobatteri potevano espandersi e dominare l’ecosistema, portando al graduale aumento della concentrazione di ossigeno nell’acqua e nell’atmosfera.
Magmi dal profondo
Per avere un quadro completo, non possiamo trascurare un altro elemento fondamentale del puzzle: la rimozione diretta dell’ossigeno dall’acqua e dall’atmosfera.
L’ossigeno viene rimosso dalla superficie terrestre in due modi principali: mediante l’alterazione e l’ossidazione delle rocce e della materia organica sulla superficie del pianeta, oppure mediante le reazioni chimiche con gas riducenti emessi dai vulcani, che provengono dalla crosta profonda e dal mantello terrestre. Entrambi questi processi erano attivi nell’Archeano (come lo sono ancora oggi), ma a un certo punto, quando l’ossigeno ha iniziato ad accumularsi nell’atmosfera, sono evidentemente diventati meno efficienti.
In particolare, è probabile che all’inizio il mantello terrestre fosse in uno stato chimicamente riduc...