È un tiepido pomeriggio di agosto del 1970.
La partita di baseball al Comunale di Nettuno è finita da pochi minuti e, con il borsone in spalla, sto tornando a piedi nella mia casa di via Romana, civico 142. La strada è stretta, su entrambi i lati incombono edifici a due piani.
Noi abitiamo al pianterreno. Un piccolo cancello di ferro nasconde il portoncino da cui si accede alla cucina e alle due camere.
Papà Andrea è appena rientrato da Roma, dove fa il muratore, e mamma Secondina è ai fornelli per preparare la cena. Il menu prevede fettuccine al ragù. Naturalmente il tutto è fatto in casa. Una ricetta di famiglia tramandata da nonna Angela. Ogni volta che mia madre portava in tavola le fettuccine, per noi era una festa. Di solito, infatti, mangiavamo altro: affettati, mortadella e le bruschette che papà faceva abbrustolire sulla stufa a legna.
Così per settimane intere, perché potevamo permetterci quello e poco di più. Quando mamma e papà andavano in drogheria, facevano le “segnate” per portare a casa il cibo. Per capirci, prendevano quello di cui avevano bisogno e chiedevano di mettere in nota. A fine mese, quando arrivava lo stipendio di mio padre, tornavano per pagare il debito.
Per questo, le fettuccine di stasera hanno un sapore speciale. A tavola siamo io, mamma, papà e i miei sei fratelli, quattro femmine e due maschi. Io sono il quinto figlio. La casa era molto piccola per nove persone, ma ci arrangiavamo: per noi ragazzi c’era solo una camera con due letti, i tre maschi dormivano in uno, le quattro sorelle nell’altro. Ogni sera ci sistemavamo come capitava, chi con la testa ai piedi del letto e chi al contrario.
Ci eravamo trasferiti qui nella seconda metà degli anni Sessanta. Prima abitavamo cento metri più indietro, al civico 140, sempre in via Romana, in una casa ancora più angusta. Due camere, il cucinino e… il bagno all’esterno dell’appartamento. Vi lascio immaginare il disagio a uscire per lavarsi durante i mesi d’inverno.
Ma, anche in pochi metri quadrati, siamo sempre stati una famiglia unita e il momento della cena era sacro, ogni giorno alla stessa ora. Alle otto dovevamo essere tutti in cucina, altrimenti erano guai. Una volta, quando avevo quindici anni, a quell’ora ero ancora fuori casa: mio padre stava rientrando in motorino e mi vide al bar di via Romana mentre giocavo a biliardo con gli amici. Avevo la stecca in mano e un mozzicone di sigaretta in bocca. Entrò nel locale e, da dietro, mi tirò uno schiaffo fortissimo sul collo. Feci il giro del tavolo da biliardo per scappare, tornai di corsa a casa e mi chiusi in bagno prima che lui arrivasse. Mamma mia, che spavento.
Certo, una volta non si scherzava, né con l’imporre una certa disciplina in casa, né con le punizioni nel caso in cui le norme fossero state infrante. Allora, era giusto così. Papà voleva insegnarmi l’importanza del rispetto delle regole, iniziando da quelle in famiglia, la più piccola forma di società. Per un bambino era fondamentale capire fin da subito come ci si dovesse comportare per prepararsi al mondo dei grandi.
E la paura che provai, vedendo mio padre così arrabbiato, mentre mi rincorreva nella sala da biliardo, fu molto educativa per la mia crescita e il mio carattere.
Stasera siamo tutti seduti a tavola e, mentre stiamo per iniziare a mangiare, suona il campanello. Non aspettiamo nessuno, chi sarà? Vado ad aprire.
È Alberto De Carolis, il presidente del Nettuno Baseball, la squadra per la quale gioco durante l’estate, perché in inverno mi diverto invece con il calcio.
Non è solo, al suo fianco c’è il manager della squadra di baseball del Santa Monica. La formazione americana è in tournée a Nettuno e oggi pomeriggio ha giocato un’amichevole proprio contro di noi. Vogliono parlare con papà. Di lì a poco, si deciderà della mia vita.
Ma facciamo un passo indietro. Nettuno è la culla del baseball in Italia. Quando gli americani sbarcarono qui nel 1944, durante la Seconda guerra mondiale, non portarono solo libertà, boogie-woogie e sigarette, ma anche il gioco del baseball. Le partite rappresentavano uno dei rari momenti in cui i soldati riuscivano ad allontanare la mente dagli orrori della guerra. Una novità d’importazione che si era presto radicata nel tessuto sociale della città e che, inevitabilmente, aveva colpito anche me.
Avevo iniziato a giocare a baseball da bambino, nel piazzale di via Lombardia, dietro alla stazione di Nettuno. Siccome non c’erano soldi per comprare i guantoni io e mio cugino Vittorio, di un anno più grande di me, ci arrangiavamo con la parte esterna dei palloni, fatta di dodici strisce di cuoio legate tra loro: prendevamo quelli rovinati, toglievamo la camera d’aria e li piegavamo verso l’interno per ricavarci i guanti da baseball.
Ogni estate andavamo al campo Comunale dove zio Luciano, il padre di Vittorio, faceva il custode e aveva un appartamento. Preparava i campi per gli allenamenti delle squadre di baseball e calcio: quando si allontanava per sistemare l’erba o tracciare le linee sul terreno, io e mio cugino sfilavamo i palloni dalla sacca e iniziavamo a giocare. Ore e ore a lanciare quelle palle pesantissime, rivestite di lana e cariche di piombo.
Passavo giornate intere al campo e, a volte, marinavo la scuola pur di giocare anche di mattina. Peccato che, poi, mia madre veniva informata delle mie assenze dal personale scolastico e la sera, quando tornava papà, erano calci nel sedere o schiaffi in faccia.
Mi divertivo molto a giocare a baseball e, in effetti, me la cavavo anche bene. L’ho sempre visto come uno sport di inventiva. Palla lenta, curva e drop, colpi tutti simili alle finte a rientrare nel calcio.
Avevo anche un giocatore a cui ispirarmi: Alfredo Lauri, lanciatore del Nettuno e pure nel giro della Nazionale. Era mancino come me e cercavo di emulare le sue giocate.
La mia prima squadra di baseball, a dodici anni, era stata il Black Angels, la formazione dell’oratorio che giocava accanto alla chiesa di Santa Maria Goretti, in piazza San Rocco. Il presidente si chiamava padre Federico Pirozzi. Aveva il viso tondo, le guance grandi, i capelli brizzolati e le labbra sottili. Era originario di Mugnano di Napoli, ma si trasferì a Nettuno giovanissimo, a soli dieci anni.
L’allenatore delle formazioni giovanili, invece, si chiamava Emilio Della Millia. Aveva una quarantina d’anni, un fisico atletico e i capelli bianchi nonostante conservasse i capelli castani sulle tempie.
Era stato proprio Emilio a scegliermi dopo aver visto come giocavo al piazzale della stazione.
Disputai con i Black Angels tutti i tornei fino alla categoria Allievi, e poi passai al Nettuno Baseball, che all’epoca vantava già nove Campionati italiani. Avevo tredici anni e, un anno più tardi, feci anche il mio debutto nella Serie A di baseball, grazie anche al presidente De Carolis.
De Carolis si trova a casa mia, insieme al dirigente del Santa Monica. Mio padre non sa neanche chi sia, il mio presidente. Per lui le uniche cose importanti sono il lavoro e i soldi per mantenere la famiglia.
La pensa allo stesso modo mia madre tanto che, quando esco per andare al campo, mi dice: «Brù, basta giocare. Lo capisci che è una perdita di tempo? Guarda che queste cose non ti daranno da mangiare».
Ma stavolta i miei genitori non possono protestare, né tentare di spaventarmi agitando spauracchi: sono costretti ad ascoltare quei due personaggi arrivati proprio all’ora di cena, all’improvviso. De Carolis fa da interprete al presidente americano.
«Signor Conti, suo figlio Bruno è davvero bravo e vorremmo portarlo con noi in America.»
Alla parola “America”, mia madre chiede senza pensarci due volte: «Scusate, ma l’America dove si trova?».
Nessuno le risponde, nell’aria si diffonde un po’ di imbarazzo, e si arriva dritto al punto della questione.
«Potremmo offrirgli vitto e alloggio al college e farlo diventare un giocatore professionista nel Campionato più prestigioso per la disciplina, la Major League Baseball.»
Mio padre riflette senza parlare.
Mio fratello Silvano, invece, è più diretto: «In America? Ma ’ndo deve annà alla sua età?».
In effetti, ho solo quindici anni.
In cucina c’è silenzio assoluto.
«Volete un caffè?» chiede mia madre stemperando la tensione.
Passano quindici, venti minuti al massimo. L’aroma emanato dalle tazzine ci distrae da una risposta che non arriva.
Poi, dopo una manciata di minuti, mio padre si decide: «Mio figlio è piccolo e da Nettuno non si muove».
Dieci parole, non una di più, che il presidente De Carolis traduce al presidente del club californiano.
Poi entrambi escono di casa e siamo di nuovo soli in cucina, seduti tutti insieme. Neanche un accenno a quanto è successo.
Mamma ha gli occhi lucidi, ma non dice niente. Mio padre, invece, sta pensando solo alla sveglia delle tre e mezzo per andare al lavoro. Eppure, in quei venti minuti si è decisa la mia vita.
E se lui avesse detto sì all’offerta degli americani in quella tiepida serata di agosto, non sarei mai diventato Bruno Conti.
È il momento che tutti aspettiamo dopo due ore di fatica. Il mister dice: «Per oggi basta così» e una luce riempie i nostri occhi, pieni di sudore.
L’allenamento del NAGC del Nettuno Calcio è finito.
L’acronimo sta per Nucleo Addestramento Giovani Calciatori, un autentico laboratorio per i giocatori di domani tra i dieci e i quattordici anni.
C’è chi sistema i palloni nella sacca e chi corre dritto verso lo spogliatoio, con la testa già alla doccia calda che scioglie i muscoli e libera la mente.
Io, invece, sono appeso con le braccia alla traversa della porta e le gambe a penzoloni dondolano davanti all’occhio vigile di Franco Ferrari, allenatore nostro e della prima squadra, sulla sessantina, che sembra un lord inglese.
Non c’è una volta che venga al campo senza la giacca nera e la camicia bianca, perfettamente stirata. Ai suoi giocatori non dice mai una parola fuori posto, né alza la voce. Ha un evidente debole per me, ma mi vede esile e mingherlino.
In effetti, per avere tredici anni sono magro; in più, di statura, supero appena di poco il metro e sessanta e così anche oggi, come alla fine di ogni benedetto allenamento, ha pensato bene di appendermi alla traversa.
«Daje Brù! Tieniti che ti allunghi. Resta appeso finché resisti.»
L’esercizio prevede le braccia tese e le gambe in sospensione. Per me è un massacro, ma lo eseguo pensando: “Allena la squadra dei grandi in Promozione. Se mi dice di fare così, ci sarà un motivo”.
Non mi pongo domande perché per me l’unica cosa che conta è fare tutto quello che serve per migliorare. Quando sei giovane e inesperto, è una grande fortuna avere un maestro che ti indichi la strada da seguire. Diventa il tuo punto di riferimento, la guida cui affidarsi senza timori, colui che ti spiega le regole del grande gioco della vita anche senza rendersene conto, con il suo solo esempio. È fondamentale, e non a tutti è dato di incontrare un vero maestro nella propria giovinezza. Quando torno a casa, però, gli effetti di questo particolare allenamento si fanno sentire. Il dolore sotto le ascelle è lancinante, tanto che mi metto a letto quasi paralizzato. E sto così tutte le sere dopo gli allenamenti, tre volte a settimana, per un anno intero da settembre a giugno. All’inizio riuscivo a tenere per una decina di minuti, poi ho aumentato la mia resistenza fino ad arri...