Lucio amava il cinema da morire, forse addirittura più della musica. A casa, nella famosa “Stanza dello scemo”, aveva creato una vera e propria sala di proiezione, e quando era a Bologna si intratteneva con almeno un film al giorno.
Quando una pellicola lo colpiva, la guardava e riguardava a ripetizione. I suoi gusti erano davvero vari. Sosteneva di conoscere a memoria i dialoghi di almeno una ventina di film, citando lavori distanti anni luce uno dall’altro come Uccellacci e uccellini di Pier Paolo Pasolini, 8 e 1/2 e Satyricon di Federico Fellini, Il gladiatore di Ridley Scott oppure Matrix delle sorelle Lilly e Lana Wachowski. Adorava i kolossal tipo Indiana Jones e i predatori dell’arca perduta, Excalibur, Titanic e Terminator 2 (a proposito del quale disse che era «uno degli ultimi esempi di cinema di contenuti»); ma anche pellicole snobbate dalla critica come La tigre e il dragone.
Diceva di essersi formato guardando i capolavori di Michelangelo Antonioni, Luchino Visconti, Ingmar Bergman, François Truffaut, ma anche Totò e i western di John Ford. Mettere insieme una lista delle sue pellicole preferite è quindi compito assai arduo, anche perché ne citava sempre di nuove, spaziando da Blade Runner a Tutto su mia madre, da Il signore degli anelli a Kill Bill.
Ma Lucio il cinema lo fece anche, recitando parti più o meno importanti in una quindicina di film e scrivendo le colonne sonore di altrettante pellicole.
Tutto cominciò con piccoli ruoli in alcuni “musicarelli”, genere molto in voga in quel periodo: in pratica si prendeva una canzone di successo e ci si costruiva attorno un film di poche pretese, con protagonisti i cantanti più noti del momento. Nel 1965 partecipò a Questo pazzo, pazzo mondo della canzone di Bruno Corbucci e Giovanni Grimaldi: interpretava “se stesso”, però sbarbato e senza occhiali, cantando le due canzoni del suo primo 45 giri, Lei (non è per me) e Ma questa sera. Pochi mesi dopo comparve, anche in questo caso cantando una canzone, in Altissima pressione di Enzo Trapani. Nel 1966, invece, gli offrirono un ruolo in Per un pugno di canzoni (distribuito anche con il titolo di Europa canta) di José Luis Merino.
Ma la prima parte importante nel cinema la ottenne nel 1967, quando andò persino vicino a vincere una Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile alla Mostra del cinema di Venezia.
I Fratelli Taviani gli offrirono uno dei ruoli principali ne I sovversivi, il primo film di cui avevano firmato la regia da soli. La storia era ambientata nel 1964 e raccontava le vicende di alcuni militanti del Partito Comunista che andavano a Roma per assistere ai funerali di Palmiro Togliatti. Lucio interpretava Ermanno, un neolaureato in filosofia strambo e ribelle che fa a pezzi i biglietti da visita ricevuti in regalo dai genitori. Memorabile la sua citazione da Aden Arabia di Paul Nizan: «Odio i vent’anni e non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita!».
Anche se lo doppiarono (in quegli anni era consuetudine farlo), Lucio interpretò meravigliosamente quel ruolo di un «ventitreenne che dimostra quarant’anni», tanto è vero – come abbiamo detto – che fu in lizza fino all’ultimo per vincere la Coppa Volpi a Venezia (consegnata poi al serbo Ljubiša Samardžić per la sua interpretazione in un film assolutamente dimenticabile e dimenticato, Jutro, l’alba di un giorno).
■ Sul set dei Sovversivi (1967).
I Fratelli Taviani Lucio Dalla lo avevano scoperto nel 1964, quando avevano girato un divertente episodio per “Carosello” con i Flippers, una pubblicità per le camicie Dinamic. L’elemento che li aveva impressionati maggiormente di quello stravagante quintetto che attraversava Roma a bordo di una macchina d’epoca, abbigliato con giacche a righe e pagliette, era proprio Lucio, che suonava il clarino e cantava.
Raccontarono i Taviani: «Quando lo proponemmo per I sovversivi, il produttore del film, Gaetano De Negri, ci disse che eravamo pazzi perché avevamo scelto un ragazzo sconosciuto, grasso e peloso. Ma Lucio aveva magnetismo, con le sue smorfie e la fisicità riusciva a conquistare il pubblico. E in pochi minuti di colloquio seppe ammaliare anche De Negri, che ci dette l’ok per ingaggiarlo».
Poi, sempre nel 1967, Dalla fece una comparsata ne I ragazzi di Bandiera Gialla di Mariano Laurenti, altro “musicarello” dimenticabilissimo: camicia di seta indiana abbottonata fino al collo, accompagnato da una band che suonava strumenti piuttosto bizzarri, cantava Lucio dove vai. Poi gli affidarono un ruolo più corposo in Little Rita nel west di Ferdinando Baldi, con Rita Pavone e Terence Hill. Vestiva i panni di Francis Fitzgerald Grawz, un buffo pistolero, e a un certo punto cantava una canzone piuttosto assurda, Pirulirulì.
Dopo una particina nell’ennesimo musicarello, Quando dico che ti amo di Giorgio Bianchi, nel 1968 apparve in un film di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia diretto da Marino Girolami, Franco, Ciccio e le vedove allegre, storia divisa in tre atti in cui Lucio è voce narrante e canta anche due canzoni: E dire che ti amo (sui titoli di testa) e Il cielo (nel terzo episodio).
Dopo tanti film di serie B, nel 1968 finalmente a Dalla fu offerto nuovamente un ruolo in una pellicola importante, Questi fantasmi di Renato Castellani, liberamente ispirata all’omonima commedia di Eduardo De Filippo. La parte di Dalla era secondaria (aveva sempre il ruolo di un musicista), però ebbe l’occasione di recitare assieme a mostri sacri come Sophia Loren, Vittorio Gassman, Aldo Giuffré, Mario Adorf e la sua vecchia amica Piera Degli Esposti, che vestiva i panni di una suora.
Ancora una volta musicista in Amarsi male di Fernando Di Leo, del 1969 (ma questo non era un “musicarello”: la storia era ambientata in una Roma sessantottina, e Dalla era un ribelle politicamente molto impegnato), solo nel 1972 ottenne nuovamente una parte da protagonista ne Il santo patrono di Bitto Albertini. Lucio interpretava un prete, Don Arcadio, a cui la curia aveva affidato l’ingrato compito di comunicare ai parrocchiani che il santo protettore del paese non sarebbe stato più l’amatissimo San Satiro, ma San Silvestro. Lucio offrì un’interpretazione molto convincente e ottenne grandi complimenti da parte della critica.
Nel 1975 girò una scena ne Il prato macchiato di rosso di Riccardo Ghione, un horror con Marina Malfatti e Nino Castelnuovo in cui vestiva i panni di un ubriacone, ma soprattutto ritrovò un vecchio amico: fu chiamato per un ruolo da Pupi Avati, che nel frattempo aveva abbandonato del tutto i sogni di gloria come clarinettista, e si era buttato anima e corpo nella regia cinematografica. Dopo due film non certo esaltanti (Balsamus, l’uomo di Satana, del 1968, e Thomas e gli indemoniati, 1970), Avati aveva infatti partecipato alla sceneggiatura di Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini, e ora si accingeva a girare il film la cui riuscita avrebbe determinato il suo futuro come regista.
La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone aveva due protagonisti d’eccezione, Ugo Tognazzi e Paolo Villaggio, e Pupi Avati offrì a Dalla una parte piccola ma interessante. La storia è incentrata su un albero di fichi diventato oggetto di venerazione degli abitanti di un paesino romagnolo, e che il proprietario, tale barone Anteo Pellacani (Ugo Tognazzi), cinico e anticlericale, vuole invece abbattere. A Dalla il regista volle affidare il ruolo di Fava, il contadino miracolato a cui il Pellacani ordina di tagliare il fico. È diventata di culto la scena in cui un pelosissimo Lucio, in canottiera e cappello di paglia, arriva a bordo di un trattore nella cui parte anteriore c’è un cartello con la scritta “Scientifica segheria FAVA”. Il contadino chiacchiera con alcune prostitute, esprimendo senza troppi giri di parole le proprie voglie, quindi va via dicendo «Vi saluto troie!», e loro rispondono: «Simpaticone, non correre!».
Anche questa sua interpretazione fu accolta molto bene dalla critica, dimostrando una volta di più che, se solo avesse voluto, Lucio avrebbe potuto ottenere altri ruoli importanti. Invece, eccezion fatta per il documentario sul tour «Banana Republic» (1979), per oltre trent’anni non fece più l’attore.
Però, nel 1982 in pratica divenne il protagonista di Borotalco di Carlo Verdone, pur senza mai apparire.
Il regista romano, che aveva già girato Un sacco bello e Bianco, rosso e Verdone, andò a vedere un concerto di Dalla con gli Stadio a Castel Sant’Angelo a Roma. In quel periodo Lucio era al culmine del suo successo e tra il pubblico c’erano parecchi personaggi famosi, inclusi Enrico Berlinguer e Federico Fellini. A fine spettacolo, Verdone chiese e ottenne di parlare con Lucio: gli disse che gli erano piaciuti molto sia lui sia gli Stadio, e poi gli raccontò l’idea che aveva in testa per il suo nuovo film. Si trattava della storia di Sergio e Nadia, due venditori di enciclopedie porta a porta. Lui è un giovane molto impacciato, lei è molto brillate ed è perdutamente innamorata di Lucio Dalla. Così, nel tentativo di conquistarla, Sergio si spaccia per un noto architetto, dice alla ragazza di essere intimo amico di Lucio Dalla, e le promette di farglielo conoscere. A Dalla l’idea piacque parecchio, però era super impegnato, quindi suggerì a Verdone di chiedere agli Stadio la colonna sonora, garantendo che comunque avrebbe contribuito con alcune sue canzoni già conosciute. Infatti il film inizia sulle note de L’ultima luna, e contiene una parte di Cara, l’intro di Meri Luis e una versione strumentale di Futura, rielaborata per l’occasione dal tastierista Fabio Liberatori.
Gli Stadio lavorarono a questa colonna sonora con grande entusiasmo, inserendovi pezzi come Chi te l’ha detto? e Grande figlio di puttana. Quest’ultimo brano era il lato B del loro primo 45 giri. La musica l’avevano composta Giovanni Pezzoli e Ricky Portera, il testo era di Lucio Dalla e Gianfranco Baldazzi. Per scriverlo, Lucio si era ispirato proprio a Ricky Portera, che parlando del titolo raccontò: «In realtà, più che un epiteto vuole essere un complimento. Era il 1981, ed eravamo entrati in studio per incidere il primo album degli Stadio. Però io ero in tour con Eugenio Finardi, e avevo poco tempo per partecipare alle session di registrazione. Una volta registrai delle chitarre su una traccia di batteria. Quando Lucio le ascoltò, esclamò: “Ma tu guarda quel figlio di puttana che, anche quando non c’è, ci lascia qualche idea su cui poter lavorare!”».
Ma torniamo al film. Dalla aveva chiesto a Verdone di poterlo vedere una volta terminato per decidere se dare l’autorizzazione all’uso del proprio nome o meno. Il produttore Vittorio Cecchi Gori, fregandosene di questo accordo verbale, decise di far stampare dei cartelloni pubblicitari con il nome di Lucio Dalla scritto a caratteri cubitali.
«Ricordo ancora» ha raccontato Verdone, «la sfuriata che mi fece al telefono Dalla quando vide i cartelloni. Disse che avrebbe visto il film e, se non gli fosse piaciuto, mi avrebbe fatto causa. Il giorno dopo l’an...