La luna e i falò
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La luna e i falò

  1. 264 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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La luna e i falò

Informazioni su questo libro

Scritto in meno di due mesi alla fine del 1949, La luna e i falò è l'ultimo e il più importante romanzo di Cesare Pavese, frutto di una felicità inventiva mai sperimentata dall'autore e ritenuto poi viatico alla sua volontaria uscita dalla vita.
Dopo la Liberazione, Anguilla, emigrato vent'anni prima dalle Langhe piemontesi in America, torna al paese dov'è cresciuto. Qui, della gente che sperava di incontrare trova solo Nuto, uno dei suoi più cari amici d'infanzia. Gli altri sono morti o scomparsi senza lasciare traccia, se non nel ricordo di chi è rimasto. In un percorso di riscoperta dei luoghi della sua memoria, Anguilla fa i conti con un mondo che pareva immutabile, ancorato al tempo dei riti e delle stagioni, ma che ha subìto invece l'urto di un altro tempo, quello lineare della modernità, e ne è stato stravolto: di immutato ritrova solo l'ingiustizia sociale, che sembra impossibile sradicare dalla terra.
In questo romanzo, che ha contribuito a plasmare il mito di Pavese per generazioni di giovani italiani, l'autore condensa, come disse Piero Jahier, "in una sintesi narrativa tutti gli elementi della propria personalità spirituale".

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Informazioni

Introduzione

Genesi e struttura del romanzo

La luna e i falò fu l’ultimo romanzo di Pavese; come risulta dal suo diario, venne scritto tra il 18 settembre e il 9 novembre 1949. Finito di stampare il 27 aprile 1950, fin da subito fu chiaro che si trattava del suo romanzo più importante e fu poi considerato come un viatico alla sua volontaria uscita dalla vita nell’agosto del 1950. La luna e i falò divenne così parte integrante del mito di Pavese, che ha accompagnato più di una generazione di giovani italiani. Il richiamo a quella civiltà contadina che proprio a partire dagli anni Cinquanta veniva distrutta senza che fossero superate le disuguaglianze, il ritorno al paese di origine in una società che conosceva un’emigrazione di massa, la protesta verso una guerra civile e di liberazione che non era diventata guerra di classe erano temi che le generazioni successive avrebbero fatto propri. Ma per Pavese era stato anche l’atto finale di un accanimento lavorativo e creativo senza sosta che in quattro anni l’aveva portato a comporre quasi tutti i suoi romanzi (precedenti erano soltanto Paesi tuoi, Il carcere, La spiaggia) e a diventare punto di riferimento per la casa editrice Einaudi e per il rinnovamento editoriale italiano. Così la stesura del romanzo è ricordata nel Mestiere di vivere:
9 novembre finito la Luna e i falò.
Dal 18 settembre sono meno di due mesi. Quasi sempre un capitolo al giorno. È certo l’exploit più forte sinora. Se risponde, sei a posto.
Hai concluso il ciclo storico del tuo tempo: Carcere (antifascismo confinato), Compagno (antifascismo clandestino), Casa in collina (resistenza), Luna e i falò (postresistenza).
Fatti laterali: guerra ’15-18, guerra di Spagna, guerra di Libia. La saga è completa. Due giovani (Carcere e Compagno) due quarantenni (Casa in collina e Luna e i falò). Due popolani (Compagno e Luna e i falò) due intellettuali (Carcere e Casa in collina). [MV, 17 novembre 1949]
La luna e i falò, che per lui stesso è frutto di un’incomparabile felicità inventiva, diventa il romanzo della postresistenza e un punto d’arrivo del suo percorso. I motivi e la trama che covavano da anni dentro di lui sfociarono in una stesura rapida, benché meditata e non sempre pacifica – come mostra il manoscritto –, ma soprattutto portarono a una struttura diversa rispetto ai romanzi precedenti. Di solito Pavese prediligeva la fabula, una struttura lineare della narrazione che segue l’ordine logico e cronologico degli eventi e raramente la complicava con flashback o con anticipazioni. Un romanzo del ritorno e del ricordo come è La luna e i falò viene impostato secondo uno schema diverso; Pavese assume un modello forse faulkneriano – andando ancora più indietro si può arrivare fino all’Odissea, testo richiamato nel romanzo dalla storia del sor Matteo che viene riconosciuto dal cane fin dal fischio del treno che lo riporta a casa – o forse dettato dalla complessità della storia che si è prefisso di raccontare, una storia di maturità e non di adolescenza. In ogni caso, Pavese costruisce accuratamente il “montaggio” quasi filmico del romanzo miscelando e alternando i tempi diversi: il tempo del ritorno del protagonista-narratore Anguilla al paese che lo ha visto crescere (riconoscibile in Santo Stefano Belbo, il paese natale di Pavese), il tempo delle stagioni e il tempo misurato in anni e orari ferroviari, il tempo dell’infanzia a Gaminella, il tempo dell’adolescenza alla cascina della Mora, il tempo passato in California, il tempo raccontato (da Nuto) della Resistenza, il tempo del ritorno impossibile al proprio passato.
Rispetto a una costruzione così complessa, occorre pensare alle sollecitazioni che Pavese ha avuto negli anni e a come consideri questo il romanzo della maturità: così esclude o supera quelli che erano stati i suoi cavalli di battaglia. Nel nuovo romanzo non c’è spazio per l’opposizione città/campagna (che era poi un’opposizione Torino/Langhe), non ci può più essere l’equivalenza tra Middle West e Piemonte, non ci sono le estenuanti notti dei ragazzi a camminare e a bere sulla collina suburbana (un tema che Pavese aveva esplorato fino alla stucchevolezza) e anche l’amicizia non è più ricerca di esperienze vitalistiche ma la pacata amicizia di due reduci che meditano sulla storia o sul destino. Al posto di questi temi entrano sollecitazioni antiche che Pavese rilegge grazie alla somma delle esperienze (tra le quali anche le letture, che modificano la personalità). La luna e i falò erano già elementi presenti in Dark Laughter (cap. I, 4), cioè Riso nero, di Sherwood Anderson, romanzo che Pavese aveva tradotto nel 1932 (e che gli aveva fornito l’immagine della collina/mammella di Paesi tuoi; anche il protagonista del romanzo di Anderson, Bruce Dudley, abbandona Chicago e il suo vero nome per tornare ignoto al paese d’infanzia). Ma Pavese diciassette anni dopo assegna loro un altro significato grazie alla sua riflessione sul mito: i falò propiziatori e l’abitudine di fare i lavori di campagna secondo i cicli lunari diventeranno il segno di una civiltà che vive contando non gli anni ma le stagioni e della ricerca di uno sguardo mitico verso il passato.
Ci sono affermazioni nel Mestiere di vivere che mostrano come da tempo Pavese stesse organizzando le idee per un romanzo “totale” che raccogliesse le situazioni; il 13 maggio 1948 aveva scritto:
Raccogliere tutte le proprie situazioni tipiche (per questo tu sei nato):
violenza e sangue sui campi
festa in collina
camminata in cresta
mare da riva…
Per fortuna sono molte.
Il 26 novembre 1949, diciassette giorni dopo aver finito il romanzo, a quest’annotazione aveva aggiunto: «Non è il tema della Luna e falò?». Ma si possono trovare appunti molto più calzanti. Il tema del nostos, del ritorno, come già nel racconto La Langa del 1941, è anche quello di una delusione, come viene chiarito all’inizio del capitolo XIV del romanzo. Anguilla, il trovatello di un tempo, torna al paese per avere una soddisfazione retrospettiva rispetto a chi lo aveva compatito o gli aveva dato del “bastardo”, per mostrare ai vecchi di avercela fatta a diventare qualcuno; ma arrivato al paese, si accorge che dei vecchi non c’è più nessuno:
Ero tornato, ero sbucato, avevo fatto fortuna – dormivo all’Angelo e discorrevo col Cavaliere –, ma le facce, le voci e le mani che dovevano toccarmi e riconoscermi, non c’erano più. Da un pezzo non c’erano più. Quel che restava era come una piazza l’indomani della fiera, una vigna dopo la vendemmia, il tornar solo in trattoria quando qualcuno ti ha piantato. Nuto, l’unico che restava, era cambiato, era un uomo come me.
La situazione qui descritta era stata vissuta e registrata nel diario da Pavese qualche mese prima, nel febbraio 1949, quand’era tornato a Santo Stefano Belbo, ed era diventata un’ossessione già registrata nel decimo capitolo di Tra donne sole (romanzo scritto tra il 17 marzo e il 26 maggio 1949). Dopo anni di vita da precario, tra supplenze e traduzioni, ora era finalmente sistemato e famoso; onorato come uno degli uomini più influenti dell’editoria italiana e come scrittore di grido, aveva compreso di aver raggiunto la maturità e di essere invidiato. Il suo ritorno al piccolo paese avrebbe potuto essere una rivincita personale, avrebbe dovuto provocare lo stupore in chi lo aveva visto bambino, ma tutto ciò non era più possibile:
8 febbraio.(S. Stefano Belbo)
Perché la gloria venga gradita devono resuscitare morti, ringiovanire vecchi, tornare lontani, Noi l’abbiamo sognata in un piccolo ambiente, tra facce familiari che per noi erano il mondo e vorremmo vedere, ora che siamo cresciuti, il riflesso delle nostre imprese e parole in quell’ambiente, su quelle facce. Sono sparite, sono disperse, sono morte. Non torneranno mai più. E allora cerchiamo intorno disperati, cerchiamo di rifare l’ambiente, il piccolo mondo che c’ignorava ma voleva bene e doveva essere stupefatto di noi. Ma non c’è più.
Possiamo vedere qui il mancato riconoscimento dell’eroe secondo le idee sul mito di Pavese o pensare che lo scrittore, nel deserto affettivo che lo circondava, avrebbe almeno voluto un risarcimento emotivo che riconoscesse il suo successo intellettuale.
Piuttosto sorprendente è che a rappresentare questa delusione nel romanzo sia un trovatello, un “bastardo” come era allora comune chiamarli. Non era raro che le famiglie più povere all’inizio del Novecento e poi durante il Fascismo adottassero bambini presi dall’orfanotrofio. Il governo pagava cinque lire al mese per l’adozione e il bambino dopo qualche anno poteva anche essere utile come forza lavoro. Il motivo della mancanza di origine, del non avere dove tornare è espresso nello straordinario incipit del romanzo, ma la tentazione identitaria del protagonista è continua (anche in California cercherà inutilmente un luogo dove sentirsi a casa). Straordinario è però come Pavese trasformi il topos dell’orfano, figura tipica del romanzo di formazione occidentale. A partire dal romanzo inglese del XVIII secolo, da Defoe e Fielding, per arrivare fino a Dickens e oltre, il foundling, il trovatello che abbatte i pregiudizi, supera tutte le difficoltà e si impone nella società borghese è una figura comune. Si pensi, pur con l’happy ending di maniera fondato sul classico schema del riconoscimento, al Tom Jones di Fielding per arrivare fino alle dubbie paternità di Moll Flanders e David Copperfield, due dei classici inglesi tradotti da Pavese. Rispetto alle aspettative di realizzazione borghese e all’impianto avventuroso del romanzo di formazione, Pavese introduce il reduce affermato ma deluso. Chi lo aveva adottato, chi lo aveva cresciuto non c’è più: dietro a tutto ciò c’è la riflessione sul passaggio dall’adolescenza alla maturità, che secondo lui si rifletterebbe nella narrativa occidentale, nell’abbandono dell’adolescente romantico e nel raggiungimento della rappresentazione dell’età matura che alcuni scrittori americani hanno già compiuto.1

Tempo del mito, tempo della storia

Lo sguardo retrospettivo di chi torna al paese non cerca novità, cerca conferme, cerca di ritrovare ciò che è stato. Di più, al di là delle cose Anguilla vuole ritrovare lo sguardo del se stesso bambino che ha potuto trasformare le cose in miti; per questo sarà così interessato a Cinto, il bambino rachitico che vive a Gaminella dove egli stesso ha passato la propria infanzia. Il guaio è che quella ricerca del sempre uguale deve fare i conti con un’accelerazione storica del tempo: così nella Luna e i falò si scontrano due concezioni del tempo, una ciclica, in cui le stagioni si ripetono e riportano i lavori legati alla raccolta ma anche al tempo delle feste, e una lineare, che porta il cambiamento e che è raffigurata nella presenza ossessiva del treno e della linea ferrata nel destino di Anguilla.
Nel capitolo X, fondamentale a questo proposito, la voce narrante di Anguilla afferma:
Per me, delle stagioni eran passate, non degli anni. Più le cose e i discorsi che mi toccavano eran gli stessi di una volta – delle canicole, delle fiere, dei raccolti di una volta, di prima del mondo – più mi facevano piacere. E così le minestre, le bottiglie, le roncole, i tronchi sull’aia. […] Mi piaceva perché qui tutto finiva, perch’era l’ultimo paese dove le stagioni non gli anni s’avvicendano.
Il tempo misurato in stagioni è un tempo in cui ogni cosa ritorna: tornano i lavori nello stesso periodo (la semina, i tagli del fieno, la raccolta, la vendemmia, la sfogliatura delle pannocchie) e l’unica differenza interna è costituita da un’altra ciclicità, quella dell’alternanza tra tempo del lavoro e tempo delle feste. Lo sguardo di Anguilla bambino (il tempo di Gaminella) ha visto le cose, gli oggetti o le azioni che poi diventano miti o acquistano valore simbolico; lo sguardo di Anguilla adolescente (il tempo della Mora) ha imparato le stagioni e i lavori connessi e ha mitizzato il tempo della festa come tempo della socializzazione e della scoperta del sesso.
Lo sguardo del bambino è quello che permette il ritorno dell’adulto, perché – ed è questa una delle convinzioni profonde di Pavese – le cose si vedono solo la seconda volta;2 gli oggetti trasformati in simboli sono i nostri ricordi e sono quelli che torniamo a cercare:
I simboli che ciascuno di noi porta in sé, e ritrova improvvisamente nel mondo e li riconosce e il suo cuore ha un sussulto, sono i suoi autentici ricordi. Sono anche vere e proprie scoperte. Bisogna sapere che noi non vediamo mai le cose una prima volta, ma sempre la seconda. Allora le scopriamo e insieme le ricordiamo.3
Anguilla torna per cercare cose legate a un tempo mitico, che trascorreva per stagioni e che nella vita tra Genova e l’America non riesce più a trovare. È una ricerca che chi ha continuato a vivere nello stesso posto non riesce a capire; proprio prima del passo sulle stagioni passate, Anguilla osserva:
Potevo spiegare a qualcuno che quel che cercavo era soltanto di vedere qualcosa che avevo già visto?
Quel “qualcosa che avevo già visto” permette di riconoscere (una seconda volta) il paradiso infantile4 che ha inciso i simboli nella memoria. La visione infantile ha permesso di trasformare in simboli o in miti gli oggetti o le azioni allora registrati. Il passaggio alla maturità ha comportato la modifica da un tempo ciclico a un tempo lineare e ha condotto a dimenticare quei miti e quei simboli. Lo sguardo retrospettivo di chi torna vuole riappropriarsi di loro, vuole tornare a sapere ciò che era depositato nel profondo, nell’immemoriale, e che è stato coperto da strati di civiltà: «Anche la storia della luna e dei falò la sapevo. Soltanto, m’ero accorto, che non sapevo più di saperla». Quest’affermazione di Anguilla, che chiude il capitolo IX, giunge dopo la discussione con Nuto sull’accensione dei falò o i lavori impostati in base al calendario lunare:
[…] soltanto quando gli raccontai di quella storia dei falò nelle stoppie, alzò la testa. «Fanno bene sicuro» saltò. «Svegliano la terra.»
«Ma, Nuto» d...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione
  4. LA LUNA E I FALÒ
  5. I
  6. II
  7. III
  8. IV
  9. V
  10. VI
  11. VII
  12. VIII
  13. IX
  14. X
  15. XI
  16. XII
  17. XIII
  18. XIV
  19. XV
  20. XVI
  21. XVII
  22. XVIII
  23. XIX
  24. XX
  25. XXI
  26. XXII
  27. XXIII
  28. XXIV
  29. XXV
  30. XXVI
  31. XXVII
  32. XXVIII
  33. XXIX
  34. XXX
  35. XXXI
  36. XXXII
  37. Note
  38. Cronologia della vita e delle opere
  39. Bibliografia
  40. Copyright