Risposte sul senso della vita
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Risposte sul senso della vita

  1. 128 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Risposte sul senso della vita

Informazioni su questo libro

È possibile un incontro tra cristianesimo e buddhismo? Come si impara a meditare? Quali consigli del Buddha possiamo portare con noi nella vita quotidiana? In questo libro nato dall'incontro tra il Dalai Lama e i suoi seguaci venuti in pellegrinaggio a Bodhgaya - tra i più importanti luoghi sacri del buddhismo - il maestro Tenzin Gyatso affronta temi di grande respiro come il rapporto tra religione e scienza, la ricerca della spiritualità nella società contemporanea e il desiderio degli esseri umani di eliminare la sofferenza dalle loro vite. Con le sue riflessioni il Dalai Lama risponde alle esigenze e ai dubbi di chi cerca nel pensiero buddhista una soluzione ai grandi interrogativi dell'esistenza, e la sua parola diventa una guida preziosa per affrontare i conflitti e le inquietudini del nostro tempo, un invito ad abbattere le barriere che tuttora dividono gli esseri umani.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2021
Print ISBN
9788817074582
eBook ISBN
9788831802918
Categoria
Buddhism

IL PRIMO DIBATTITO

Benvenuti, sono molto felice di incontrare qui voi tutti. Sono pronto per le vostre domande.
Sua Santità pensa che sia possibile un’integrazione fra cristianesimo e buddhismo in Occidente? Una religione globale per la società occidentale?
Dipende da quello che si intende per integrazione. Se per integrazione lei intende la possibilità di integrare buddhismo e cristianesimo all’interno di una società, dove coesistano fianco a fianco, allora risponderei affermativamente. Se, invece, immagina che tutta la società possa seguire una sorta di religione composita che non è né puro buddhismo né puro cristianesimo, allora non considererei accettabile questa forma d’integrazione.
È del tutto plausibile, certo, che un Paese sia in prevalenza cristiano e che tuttavia alcune persone di quel Paese scelgano di seguire il buddhismo. Penso sia del tutto possibile che una persona fondamentalmente cristiana, che accetta l’idea di Dio, che crede in Dio, accolga allo stesso tempo alcune idee e tecniche buddhiste nella sua pratica. Gli insegnamenti sull’amore, sulla compassione e sulla gentilezza sono presenti nel cristianesimo così come nel buddhismo. In particolare nel Veicolo del Bodhisattva, ci sono molte tecniche che si focalizzano sullo sviluppo della compassione, della gentilezza e così via. Ci sono cose che possono essere praticate allo stesso tempo dai cristiani e dai buddhisti. Pur rimanendo impegnata nel cristianesimo, è del tutto concepibile che una persona possa intraprendere un percorso formativo sulla meditazione, sulla concentrazione e sullo stato di concentrazione univoca della mente, o che, pur rimanendo cristiana, possa scegliere di praticare le idee buddhiste. Questo è un altro possibile e praticabilissimo tipo d’integrazione.
Esiste qualche contrasto tra l’insegnamento buddhista e l’idea di un Dio creatore che esista indipendentemente da noi?
Se guardiamo le religioni del mondo dal più ampio punto di vista possibile ed esaminiamo il loro scopo ultimo, troviamo che tutte le maggiori religioni, siano esse il cristianesimo o l’islamismo, l’induismo o il buddhismo, sono consacrate al raggiungimento della felicità permanente dell’uomo. Sono tutte rivolte a questo fine. Tutte le religioni enfatizzano il fatto che il vero devoto debba essere onesto e gentile, in altre parole, che una persona religiosa nel vero senso della parola debba sempre sforzarsi di diventare un essere umano migliore. Per questo, le diverse religioni del mondo insegnano dottrine differenti che aiuteranno a trasformare la persona. Sotto questo aspetto, tutte le religioni sono uguali, non c’è contrasto. Questo è un punto che dobbiamo mettere in evidenza. Dobbiamo considerare la questione della diversità religiosa da questa prospettiva e quando lo facciamo non troviamo alcun conflitto.
Ora, dal punto di vista filosofico, la teoria che Dio è il creatore, onnipotente e permanente, è in contraddizione con gli insegnamenti buddhisti. Da questo punto di vista c’è disaccordo. Per i buddhisti l’universo non ha alcuna causa prima e quindi alcun creatore, né può esistere un essere permanente primordialmente puro. Dunque è ovvio che a livello dottrinale c’è un contrasto. Le vedute sono antitetiche. Ma se consideriamo lo scopo di queste dottrine assai differenti, allora vediamo che sono uguali. Questa è la mia convinzione.
Cibi diversi hanno sapori diversi: alcuni possono essere molto speziati, altri molto aspri e altri molto dolci. Hanno sapori opposti, che contrastano. Ma quando si cucina un piatto perché abbia un sapore dolce, aspro o speziato, lo si fa perché comunque sia buono. Alcuni preferiscono cibi molto forti e speziati con tantissimo peperoncino. A molti indiani e tibetani piacciono cibi simili. Alcuni hanno una passione per quelli poco speziati. È una cosa bellissima che ci sia varietà. È un’espressione d’individualità; è questione di gusti.
Allo stesso modo, la varietà delle diverse filosofie religiose del mondo è una cosa molto utile e molto bella. Alcuni trovano benefica e confortante l’idea di Dio come creatore dalla cui volontà tutto dipende e, dunque, per costoro questa dottrina è degna di essere abbracciata. Per altri, l’idea che non ci sia un creatore, che in ultima analisi siamo noi stessi il creatore – e dunque che tutto dipenda dall’individuo – è più appropriata. Per alcuni, potrebbe essere un metodo più efficace di crescita spirituale, potrebbe essere di maggior giovamento. Per costoro, quest’idea è migliore, e per l’altro tipo di persone, l’altra idea è più adatta. Vedete, non c’è alcun conflitto, alcun problema. Questa è la mia convinzione.
Ora, conflittualità dottrinarie non sono sconosciute nemmeno nel buddhismo stesso. I Mādhyamika e i Cittamātrin, due scuole filosofiche buddhiste, accettano la teoria della vacuità. I Vaibhāṣika e i Sautrāntika, altre due, abbracciano una diversa teoria, quella della non esistenza del sé che, in senso stretto, non è uguale alla dottrina della vacuità postulata dalle due scuole sopracitate. Per cui esiste questa differenza, alcune scuole accettano la vacuità dei fenomeni e altre no. Esiste anche una differenza nel modo in cui le prime due scuole spiegano la dottrina della vacuità. Per i Cittamātrin, la vacuità è spiegata in termini di non-dualità del soggetto e dell’oggetto. I Mādhyamika rifiutano la nozione che la vacuità sia equivalente all’idealismo, l’affermazione che tutto appartenga alla natura della mente. I Mādhyamika sono a loro volta suddivisi nei Prāsaṅgika e negli Svātantrika, e anche fra queste due scuole c’è conflitto. La seconda accetta che le cose esistano in virtù di una caratteristica intrinseca, mentre la prima no.
Come potete vedere, il conflitto in campo filosofico non è nulla di cui ci si debba sorprendere. Esiste anche nel buddhismo stesso.
Potrebbe spiegare che cosa si intende per «esistenza intrinseca» e quali sono le diverse visioni a questo proposito? I Mādhyamika (Prāsaṅgika) sostengono che non ci sia alcuna esistenza intrinseca, mentre altre scuole buddhiste sostengono che ci sia. Potrebbe parlare di queste controversie e spiegare come possiamo penetrare o vedere attraverso questa illusione dell’esistenza intrinseca?
In generale, il termine «esistenza intrinseca» ha diverse connotazioni. Talvolta è usato per far riferimento alla natura delle cose. Per esempio, diciamo che il «calore» è la natura del fuoco e che «liquidità e fluidità» sono la natura dell’acqua. Quando usiamo le parole «esistenza intrinseca» in questa accezione, per esempio come sinonimo di «natura», le usiamo per fare riferimento a cose che esistono per davvero. Ma vi è una forma di esistenza intrinseca che non esiste, ed è questo ciò che viene criticato nell’analisi Mādhyamaka. È la nozione che le cose esistano in sé e per sé, senza dipendere da altre cose. In particolare, l’esistenza intrinseca che è il punto focale della critica Mādhyamaka è una forma di esistenza che non dipende da etichette concettuali, dove l’oggetto etichettato non dipende dal pensiero concettuale per la sua esistenza e invece esiste in virtù di qualche natura, o essenza, che è intrinseca a esso. Ora, fatta eccezione per i Prāsaṅgika, tutte le altre scuole buddhiste sostengono che i fenomeni non sono meramente etichettati dal pensiero concettuale ma che, al contrario, c’è da trovare all’interno dell’oggetto stesso qualcosa che sia l’oggetto, per esempio una copia dell’oggetto. Questo è ciò che significa accettare l’esistenza intrinseca. I Prāsaṅgika, comunque, asseriscono che i fenomeni esistono meramente come entità etichettate dal pensiero concettuale – che non c’è nulla da trovare nell’oggetto che sia l’oggetto stesso.
Come funziona allora quest’idea erronea, che le cose esistono di per sé? Qualunque cosa appaia alla mente appare come se esistesse veramente di per sé. Per esempio, quando guardate me, il Dalai Lama, appaio come se fossi qualcosa che esiste indipendentemente e di per sé. Il Dalai Lama che sta seduto sul cuscino non appare affatto come se fosse meramente etichettato dal pensiero concettuale, vero? Appare come se non fosse un’entità meramente etichettata dal pensiero concettuale, ma invece come se esistesse entro l’oggetto stesso. Ora, se l’oggetto esistesse come appare a voi, allora, quando lo cercate, potreste effettivamente trovare un vero Dalai Lama. Così dobbiamo chiederci se questo oggetto, quando viene cercato, si possa trovare o no. Se l’oggetto non si trova quando lo si cerca, dobbiamo concludere che non esiste di per sé, che quando l’etichetta è applicata al fondamento, non è etichettato così perché il fondamento racchiude in qualche modo in sé qualcosa che è l’oggetto. A questo punto si deve concludere che l’oggetto non esiste come appare, ma allora la domanda che segue è se non sia del tutto inesistente.
Le cose, tuttavia, non sono completamente non-esistenti. Esistono davvero nominalmente. Perciò le cose esistono, ma non esistono relativamente al fondamento dell’etichetta. E quindi, sebbene esse esistano, siccome non esistono dentro l’oggetto stesso, devono esistere solo in quanto etichettate dal soggetto (la mente concettuale, per esempio). Non c’è altro modo di esistere per l’oggetto se non quello di essere postulato dal pensiero concettuale. Questo è ciò che intendiamo quando diciamo che tutti i fenomeni sono meramente etichettati dal pensiero concettuale. Tuttavia, le cose non ci appaiono come se fossero semplici entità concettualmente etichettate, piuttosto esse appaiono come se esistessero di per se stesse. Perciò è un errore pensare che le cose esistano come esse appaiono.
C’è differenza tra il tipo di errore che consiste nel credere che le cose ci appaiano in questo modo falso in maniera meramente passiva e l’errore per cui una persona asserisce attivamente attraverso argomentazioni logiche che le cose debbano esistere in questo modo falso. La differenza tra queste due forme di ignoranza, una passiva e innata e l’altra attiva e di natura filosofica, è qualcosa che possiamo giungere a comprendere gradualmente. Esiste una differenza tra il modo in cui le cose esistono e il modo in cui esse appaiono. Siccome le cose ci appaiono in un modo che contrasta con il modo in cui esse esistono realmente, un modo che si allontana dalla loro vera natura, si dice che i nostri pensieri siano errati. Si dice che veniamo ingannati.
In linea di massima, la teoria suona più o meno così. Questo argomento, vedete, non è assolutamente un tema facile. Prima di tutto, richiede che si pensi molto profondamente, che si indaghi molto a fondo la natura dei fenomeni. In secondo luogo, il processo di indagine stesso richiede sia la meditazione analitica sia la meditazione concentrativa. Se non si analizza l’oggetto, non c’è alcuna possibilità di accertarlo; ma senza la meditazione concentrativa che porta la mente nello stato di concentrazione univoca sull’oggetto, anche se una persona lo avesse accertato, troverebbe difficile percepire chiaramente l’oggetto. Perciò, vedete, entrambi questi tipi di meditazione sono necessari: sia quello che analizza, sia quello che si concentra univocamente sull’oggetto. Inoltre, per capire la realtà, è indispensabile avere accumulato merito. Quando tutte queste condizioni sono state soddisfatte, allora la comprensione della vacuità inizierà a crescere. Ma anche il fattore tempo è importante: non è una cosa che si possa fare in fretta e furia.
Nel corso degli anni la scienza occidentale ha fatto scoperte che, sotto certi aspetti, sembrano contraddire gli insegnamenti del Buddha. Per esempio, il buddhismo afferma che lo spazio è permanente, mentre gli scienziati occidentali ora sembrano pensare che lo spazio sia impermanente. Inoltre, c’è anche la questione delle particelle elementari. Oggi gli scienziati occidentali ne presuppongono l’esistenza, contrariamente ai principi delle più alte scuole buddhiste. Se una persona sta seguendo la via buddhista e si imbatte nella prova empirica dell’esistenza di cose che contraddicono gli insegnamenti buddhisti, che cosa deve fare? Deve accettare per fede ciò che disse il Buddha, nonostante la dimostrazione contraria?
Questa è un’ottima domanda. Riguardo allo spazio, penso che forse lei sia in errore. Ci sono due cose differenti che possono essere plausibilmente chiamate spazio: una è lo spazio non-composito (du ma byed kyi nam mkha’), l’altra è lo spazio atmosferico (bar snag). Lo spazio non-composito si riferisce all’assenza di contatto e ostruzione e questo è ciò che viene creduto permanente. Ciò che lei sta chiamando «spazio» è, credo, ciò a cui ci riferiamo come a «spazio atmosferico» e questo è qualcosa che noi sicuramente accettiamo come impermanente, come mutevole. Tanto più che si dice avere colore e così via. Perciò, penso che la parola «spazio» abbia piuttosto il significato della nostra parola tibetana bar snag nel senso di spazio atmosferico.
(Medesimo interlocutore) Secondo la teoria gravitazionale di Einstein, è la reale assenza di ostruzione che cambia. Materia e spazio possono essere concepiti come due forme della medesima sostanza, in modo che la materia influisce sullo spazio (in realtà influisce sulla non-ostruzione). Per esempio, la luce che viaggia nello spazio procederà in linea retta, ma quando si avvicina a un oggetto materiale, viaggia in linea curva. Questo avviene perché la materia ha influito sulla reale struttura dello spazio, sulla reale natura della non-ostruzione. Lo spazio può effettivamente trasformarsi da non-ostruente a ostruente e viceversa.
Perciò lei sta dicendo che lo spazio non è pura e semplice mancanza di tangibilità e ostruzione, e perciò quello a cui lei si riferisce non è lo spazio non-composito, ma lo spazio atmosferico. Lo spazio atmosferico è un’entità composita. Questo tipo di spazio di cui lei parla e che si trasforma in qualcosa che ostruisce, deve essere un’entità composita, dunque deve trattarsi dello spazio atmosferico. Lo spazio non-composito è la reale assenza, o vacuità, della sostanza materiale; è l’assenza di ostruzione e tangibilità; è l’assenza di impedimento materiale, una sorta di vuoto. Penso che questo sia un problema terminologico. La parola «spazio» usata da lei penso abbia un’accezione più vicina a quello che noi chiamiamo «spazio atmosferico» e non a «spazio non-composito».
Ora, la sua seconda domanda ha a che fare con le particelle elementari che sono indivisibili. Sembra proprio che la fisica moderna accolga delle particelle elementari indivisibili. Si inizia con una forma fisica visibile a occhio nudo e la si analizza, suddividendola sperimentalmente sempre di più. Alla fine si dice che si è raggiunta un’entità sostanziale che non può essere ulteriormente suddivisa e che viene detta indivisibile. Finché la si può dividere ulteriormente, si dice che abbia delle parti, e quando si raggiungono i limiti della divisibilità, quell’entità è detta indivisibile, priva di parti.
La nozione buddhista di indivisibilità, o la sua confutazione, in realtà non si basa sulla sperimentazione. La discussione buddhista di questo argomento non ha a che fare con la divisione empirica della materia in parti differenti. Ciò che interessa a noi è, piuttosto, una trattazione teorica della possibilità dell’indivisibilità spaziale o dimensionale. Riguardo alla coscienza, non è l’indivisibilità spaziale a essere in discussione (giacché la coscienza è non-materiale e di conseguenza non-spaziale), ma l’indivisibilità temporale. Perciò, nelle discussioni sull’indivisibilità, le «parti» a cui ci riferiamo nel contesto buddhista non sono suddivisioni distinte, empiricamente provate. Le cose materiali sono divise in parti spaziali e la coscienza è divisa in parti temporali in un modo strettamente teorico e astratto.
I fisici affermano che la materia grosso...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Risposte sul senso della vita
  4. Introduzione del curatore
  5. Il primo dibattito
  6. Il secondo dibattito
  7. Il terzo dibattito
  8. Il quarto dibattito
  9. Il quinto dibattito
  10. Copyright