«Qui in Vaticano a volte non si sa che cosa succederà domani. Tutto è diventato estremamente imprevedibile. La percezione, ogni tanto, è quella di una barca. Che va un po’ di qua e un po’ di là.»
Lo sguardo franco e gli occhi azzurri di monsignor Georg Gänswein si appuntano sul suo ospite e illuminano la stanza. Che è quella del Prefetto della Casa pontificia. Un’ampia sala al piano superiore del Palazzo apostolico, da cui si accede attraverso il celebre Portone di bronzo – che dà sul Colonnato del Bernini – e da una doppia scalinata, sorvegliata dalle Guardie svizzere armate di alabarda.
Ma don Georg, don Giorgio come viene amichevolmente chiamato da tutti gli attendenti pontifici e dalle Memores Domini, le suore che assieme a lui da tanti anni costituiscono la famiglia di Papa Benedetto XVI, è molto di più. È il trait d’union fra due Pontefici, Benedetto e Francesco: una figura unica e mai contemplata – sia nel ruolo istituzionale sia per la valenza «politica» che riveste – nella storia di Santa Romana Chiesa. Lavora per l’uno ma anche per l’altro, per l’Emerito tedesco e per il Titolare argentino. Ha un compito chiave fondamentale, decisivo, che lo rende ben altro rispetto alla semplice immagine popolare di vescovo e al tempo stesso di uomo aitante e sportivo. Georg Gänswein è sicuramente un individuo di una forte simpatia umana, ma anche una persona di grande sensibilità. Delle Segrete stanze vaticane sa tutto. È informato di ogni cosa ed è custode dei tanti misteri che si celano dietro quel Portone di bronzo. Conosce dettagli che, un giorno, forse fra secoli, verranno scoperti nelle carte pontificie, quando saranno aperte alla consultazione degli studiosi. E se ora, nel suo altissimo ruolo diplomatico, decide di aprirsi e confidarsi, lo fa perché è consapevole di quel che deve nascondere e quel che, invece, può e vuole dire.
«L’intento dello scandalo Vatileaks era di colpire il cardinale Tarcisio Bertone, a lungo Segretario di Stato vaticano prima con Benedetto XVI e poi con Francesco. Ma, di riflesso, il caso ha finito per toccare lo stesso Papa Ratzinger, perché era stato lui ad avere scelto Bertone e ad averlo difeso. E, nonostante ci fossero diversi porporati che gli consigliavano di cambiarlo alla testa del governo della Santa Sede, il Papa ha sempre deciso di lasciarlo nel suo incarico. Si è sempre opposto. Però non è stato questo il motivo per cui Benedetto ha rinunciato al Pontificato.»
Monsignor Georg fa una pausa. C’è sempre silenzio in Vaticano. Le tende pesanti ai finestroni, che si aprono su piazza San Pietro da un lato ignoto ai fedeli, impediscono di vedere il colore del cielo. Il vescovo tedesco indossa la tonaca nera d’ordinanza, con scarpe scure e solide, da buon camminatore. L’italiano che parla è cadenzato e perfetto. Con il suo ospite si permette di scivolare ogni tanto nella sua lingua d’origine, lasciandosi andare a una frase, a qualche osservazione. Le poltrone su cui siamo seduti sono confortevoli, pregiate e rivestite di ovatta. Davanti a noi c’è un tavolo basso e largo, di legno chiaro, dove poter appoggiare occhiali e bloc-notes. La mia non è un’intervista. Quelle di monsignor Georg non sono dichiarazioni ufficiali. È solo un colloquio amichevole e aperto. Non c’è alcun fine preordinato e preciso. Non c’è nemmeno una domanda da parte mia, io semplicemente ascolto. È un flusso di coscienza che sgorga e si dipana in un racconto. Nella stanza del Prefetto si sente appena il ticchettio scandito da un orologio addossato alla parete.
«I motivi della rinuncia al Pontificato di Benedetto sono quelli di salute e di anzianità. Io ho vissuto quel periodo, anche quel periodo, sempre accanto a lui. Giorno per giorno. E vedevo che il Papa non si riprendeva. Di solito, in estate, dopo due-tre giorni di montagna oppure in vacanza a Castel Gandolfo, notavo che riacquistava vigore. Invece adesso lo vedevo sempre giù, assorto e concentrato, parlava poco. Era come una candela che si stava spegnendo. L’ho capito solo quando mi ha comunicato la sua decisione di rinunciare.»
Don Georg si mette entrambe le mani sul volto, nascondendolo. Le tiene a lungo. Poi le toglie. «Io gli ho detto subito: “Santo Padre, questo non lo può fare. Das dürfen Sie nicht machen! Diradiamo gli impegni, rivediamo l’agenda, cancelliamo alcune cose”. E lui: “No. Ormai i Papi devono viaggiare. Anche con Giovanni Paolo II è stato così. E io non sono più in grado di farlo. È giusto che ora lo faccia un altro. C’è il modo di fare un altro Papa”.»
Capisco al volo la portata di quelle parole scioccanti e che «c’è il modo di fare un altro Papa» è una frase cruciale. Il fulcro di quello che è stato evidentemente un colloquio drammatico, faccia a faccia, durante il quale Benedetto XVI ha annunciato al suo assistente personale, l’uomo del quale più si fida e che lo segue da almeno un paio di decenni con devozione massima, una decisione sofferta e tremenda: maturata prima da solo e poi con un pugno di persone vicinissime (meno delle dita di una mano), stabilendo di porre fine alla propria esperienza alla testa della Chiesa cattolica e come capo dello Stato vaticano. È un annuncio terribile, nella sua rilevanza religiosa e storica. Ma, al tempo stesso, quella frase («Es gibt einen Weg, einen anderen Papst zu machen») contiene implicitamente una domanda, la sua risposta e persino una proposta. Di più, è un’intenzione programmatica. Una dichiarazione epocale – fino a oggi inedita – pronunciata da un Papa in vita, e pensata per il proprio successore: c’è dentro il senso di una sofferta resa personale, ma anche il proposito di aprire uno squarcio sul futuro con possibilità inaspettate, e intanto dare luce verde a un Pontificato diverso. Come si rivelerà quello di Francesco. Ma, tutto questo, mentre don Georg sta parlando, ancora non lo sappiamo.
«A quel punto ho capito che Benedetto aveva deciso e che non si poteva più tornare indietro. Ci ha riflettuto per mesi. Credo che abbia cominciato a farlo subito dopo il viaggio avvenuto alla fine di marzo del 2012 in Messico e a Cuba, durante il quale aveva incontrato Fidel Castro: erano state tappe belle ma faticosissime, lui si era stancato molto e aveva iniziato a pensare. Che io sappia, tutto quel periodo di riflessione, di macerazione interiore su questo passaggio storico e morale epocale, lo aveva fatto interamente da sé. Forse poteva essersi confidato con il suo confessore, che era un sacerdote polacco della Penitenzieria apostolica. Ma non lo sapremo mai, perché quello era già malato ed è morto tre mesi dopo. Il Papa comunicò così la decisione al suo confessore, appunto, al fratello maggiore Georg, anch’egli sacerdote, a me e al cardinale Bertone. Benedetto dunque non si è dimesso per gli attacchi del caso Vatileaks. Ma per anzianità e salute, questi sono i motivi. Bertone ha fatto sicuramente degli errori. Il Papa non lo voleva cambiare, anche perché c’è da capire che la loro collaborazione personale durava da parecchi anni. Ma Benedetto, per esempio, non sapeva nulla della lettera scritta da Bertone quando, nel 2007, il cardinale Angelo Bagnasco fu nominato presidente della CEI [la Conferenza episcopale italiana, NdA] al posto del cardinale Camillo Ruini. Con quella missiva a Bagnasco, Bertone avocava a sé i rapporti con la classe politica italiana, rompendo una prassi fino ad allora consolidata che aveva messo Ruini e la CEI al centro dei colloqui con il governo e con il Parlamento di Roma, mentre adesso passava tutto nelle mani della Segreteria di Stato vaticana. Il Papa ne era all’oscuro. Io stesso lo appresi dalla radio. Ero in auto, assieme a due amici, pensavo di avere capito male. Sono andato da Bertone e gli ho detto: “Ma, Eminenza, è sicuro di voler fare questo?”.»
Georg Gänswein si rimette le mani sul volto. Le tiene ancora a lungo. Poi le alza, agitandole. «Questa cosa compromette i rapporti del Vaticano con la CEI. Fin dall’inizio.»
Resto ad ascoltare, inchiodato e imbarazzato. Provo a cambiare discorso, ricordandomi come tempo fa avessi l’impressione che don Georg volesse quasi fuggire da qui.
Attimi di silenzio. Lo sguardo a terra. La voce un tono sotto. «Cerco di sopravvivere. Qui spesso c’è confusione.» All’improvviso, rammento come in Vaticano circoli una storia che risale all’inizio del Pontificato di Francesco. A quando il Prefetto emerito della Casa pontificia, James Michael Harvey, il predecessore di monsignor Gänswein, gli chiese di aspettare a prendere possesso del suo appartamento, che spetta a chi ha questo incarico, perché prima doveva sistemarsi. Una volta fatto, gli consegnò la chiave della casa. A quel punto Papa Francesco avrebbe chiamato don Georg dicendogli: «So che lei vive lì». L’appartamento è di pertinenza del Prefetto, accanto a quello del Sostituto della Segreteria di Stato, allora monsignor Angelo Becciu. «Ma lei può rimanere al monastero Mater Ecclesiae con il Santo Padre Emerito?» Gänswein abitava con il vecchio Papa da vent’anni, in venti metri quadrati. «Comunque» concluse sbrigativamente Bergoglio «deciderò cosa fare. Vedrò con i miei.» Passarono alcune settimane e il Pontefice richiamò comunicandogli di avere assegnato l’appartamento al Segretario della Seconda sezione della Segreteria di Stato. Gänswein avrebbe detto più volte: «Santo Padre, questa è una cattiva notizia». La replica di Francesco: «Con i miei ne abbiamo parlato. Ho deciso. Ne parlo anche con il Sostituto». In realtà, monsignor Becciu [del quale ci occuperemo nelle pagine finali di questo libro in relazione al clamoroso scandalo di mala gestione finanziaria che lo ha visto coinvolto, NdA], non sapendone nulla, promise che avrebbe toccato il problema con il Papa nella successiva udienza di tabella. Ma il Pontefice gli rispose seccamente: «Ho deciso». E Becciu: «Quando dice così non c’è più niente da fare, perché altrimenti diventa furibondo».
Chiedo conferma a don Georg, che svia il discorso: «Questo è un segreto». Serra gli occhi. E gli leggo dentro con quanta forza mantenga il suo giuramento di fedeltà.
Poi allarga le braccia. Lui sa che io so. E che tutti sanno che gli argentini hanno delle corsie preferenziali ora. Accadeva con i polacchi, ai tempi di Karol Wojtyła. E certamente esistono delle cordate. Alcuni apparati sono addirittura considerati inutili, alla stregua di un codazzo. Dicono che per alcuni eventi Francesco non desideri la presenza di determinate strutture. Lo si capisce dal suo sguardo. Una volta disse a voce alta: «Non voglio la Prefettura per quell’evento a Casa Santa Marta [la Domus Sanctae Marthae è l’abitazione di Papa Francesco in Vaticano, NdA]». Raccontano, ancora, che Gänswein tornò da lui: «Santità, ha due-tre minuti per me?». «Certo, anche subito.» «Lei vuole che le cose si dicano in faccia.» «È vero.» «Allora, lei così ci umilia, facendo venire il mio secondo ma escludendomi dagli appuntamenti.» La sua risposta: «Un po’ di umiliazione ci vuole, fa bene».
Don Georg adesso è avvilito. «Per me è un’umiliazione grande. Ne parlo con Papa Benedetto, ma lui non può fare niente. È un uomo timido in queste cose. Se io rimango qui, è solo perché c’è lui.» I nemici in Vaticano oggi sono ovunque. E sempre di più la Santa Sede appare un campo in rivolta, con schieramenti opposti e ben posizionati per la battaglia frontale. Nel bene o nel male, Papa Francesco è un gesuita: divide le cose e le affronta, poi si impone con forza.
Rivolgo soltanto una domanda a monsignor Gänswein, alla fine: «Non ha pensato di tenere un diario di tutto?».
«L’ho scritto. Da quando sono diventato assistente personale di Joseph Ratzinger fino a quando c’è stato il suo Pontificato come Benedetto XVI. Poi basta. Non voglio leggere le cose che non vorrei scrivere.»
E si mette di nuovo le mani sul volto per una terza e ultima volta.
I segnali c’erano già tutti. E Ratzinger ne aveva disseminato il terreno. Siamo nel marzo del 2012, un anno prima della sua rinuncia, e con queste sue parole cominciavo il mio reportage da León, per il viaggio apostolico di Benedetto XVI in Messico: «Io sono ormai un uomo anziano». Il titolo del pezzo era Quel bastone segno di sofferenza, così Ratzinger svela i suoi dolori.
Da tempo in Vaticano, ben al riparo da occhi indiscreti, il Pontefice camminava spostandosi da una stanza all’altra del grande Appartamento papale aiutato da un bastone. Un bel bastone, diverso da tutti per colore e foggia. Il bastone papale. Di legno pregiato. Nel chiuso del Palazzo apostolico, Benedetto si sentiva più libero di deambulare con un sostegno importante, quello che i tedeschi chiamano ein Stock. E mein Stock, il suo bastone, come il Pontefice lo chiamava quando lo cercava per procedere più speditamente, era pian piano diventato un oggetto pubblico, dopo che lo aveva esibito alla partenza della sua ultima – ma allora nessuno poteva saperlo – visita apostolica all’estero. Quel pezzo di legno era ora visibile a tutti nel breve percorso a piedi tra l’elicottero sulla pista di Fiumicino e l’aereo papale. Noi giornalisti lo osservavamo da dietro gli oblò, già seduti sull’aeromobile, aspettando che Benedetto salisse dal portellone anteriore. E, tra il presidente del Consiglio, Mario Monti, da una parte e il Segretario di Stato, Tarcisio Bertone, dall’altra, appariva così perfettamente a suo agio, sorretto da mein Stock da un lato e da don Georg dall’altro. Nell’agosto precedente, durante le Giornate della Gioventù a Madrid, la televisione spagnola era persino riuscita a strappare l’immagine di Benedetto all’uscita della Nunziatura che, per la prima volta, teneva in pugno un sostegno bianco, di un colore inconfondibile, lo stesso usato nell’Appartamento, alternandolo a quello nero. Ma adesso, dopo le foto scattate a Fiumicino, quella che era solo un’indiscrezione diventava un fatto di pubblico dominio. E di una qualche preoccupazione.
«Il Papa è in buona salute, è in una condizione fantastica» assicurava appena sbarcati in Messico padre Federico Lombardi, suo portavoce e responsabile della Sala stampa della Santa Sede. «Durante la cerimonia di accoglienza all’aeroporto aveva la voce un po’ afona» aggiungeva, glissando, «ma questo era dovuto all’effetto dell’aria condizionata in aereo.» Nessun commento ufficiale, dunque, sul bastone quale nuova significativa presenza nelle mani del Pontefice. E perciò nessuna apparente meraviglia. A un bel Alpenstock, un solido bastone di montagna, si affidava talvolta già il fratello maggiore del Pontefice, monsignor Georg Ratzinger, di tre anni più vecchio.
Non appariva dunque più un mistero che da qualche tempo il Papa soffrisse di una leggera artrosi alla gamba destra. Un fastidio, si sussurrava, che persistendo avrebbe potuto anche richiedere la necessità di un intervento operatorio. I segnali del dolore, però, erano molti. Alla metà di ottobre era stato proprio padre Lombardi ad annunciare a sorpresa che il Pontefice avrebbe fatto uso della «pedana mobile», già utilizzata da Giovanni Paolo II. In alcuni spostamenti interni alla basilica di San Pietro i fedeli lo avevano perciò visto appoggiarsi saldamente alla balaustra della pedana. «Lo scopo» veniva spiegato «è quello di alleviare l’impegno del Santo Padre, così come già avviene con la Papamobile.»
È stato quello il momento in cui, di riflesso, la memoria di tanti era andata agli ultimi anni della sofferenza di Karol Wojtyła. Anni difficili. All’epoca furono in molti a ritenere che una sua rinuncia al Pontificato non potesse essere del tutto esclusa, per quanto inconsueta, se non proprio impensabile.
Già Pio VII, nel 1804, prima di partire alla volta di Parigi per incoronare Napoleone aveva firmato un documento di rinuncia, contenente la disposizione del suo decadimento dal Pontificato qualora la Francia lo avesse messo in carcere. Poi toccò a Pio XII, Eugenio Pacelli, prevedere un’analoga misura qualora i gerarchi nazisti lo avessero sequestrato, come appariva plausibile nell’agosto del 1943. Per arrivare a giorni più vicini, Paolo VI scrisse ben due lettere su questo delicato argomento, molti anni prima della sua morte, avvenuta nell’agosto del 1978. In una, in particolare, disponeva che «in caso di infermità, che si ritiene incurabile o di lunga durata e che ci impedisce di esercitare sufficientemente le funzioni del nostro ministero apostolico, o nel caso di un altro impedimento grave e prolungato», la rinuncia sarebbe entrata in vigore «sia come vescovo di Roma che a capo della stessa Santa Chiesa cattolica». La missiva fu mostrata da Papa Wojtyła prima al cardinale Giovanni Battista Re e poi al cardinale Joseph Ratzinger, il quale la soppesò. Papa Montini, come sappiamo, non diede mai seguito a quella intenzione. Il futuro Benedetto XVI, invece, tenne sempre presente la lettera di Paolo VI, soprattutto nei suoi ultimi anni alla testa della Chiesa.
Nel 1989, fu poi lo stesso Giovanni Paolo II a inviare una proposta al Collegio cardinalizio offrendosi di abdicare qualora fosse diventato incapace, e poi nel 1994 ma solo «in presenza di una malattia incurabile o di un impedimento». Eppure, come molti ricordano, anche negli anni in cui era impossibilitato a viaggiare, Wojtyła proseguì il suo Pontificato fino alla fine. Però molti Papi, e in particolare gli ultimi, forse anche per un maggiore accavallamento di impegni sociali rispetto alle consuetudini del passato e per un carico non indifferente di pressioni e stress, hanno tante volte pensato e addirittura disposto le proprie dimissioni.
In ogni caso, per Benedetto la pedana e il bastone furono due segnali evidenti. Era stato lui stesso a richiedere la prima. Dicendo di no a chi gli proponeva di rispolverare l’antica sedia gestatoria, il trono portato a spalle ancora per Paolo VI e pure nel bre...