Dispacci
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Dispacci

L'orrore del Vietnam negli occhi dei soldati americani

  1. 288 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Dispacci

L'orrore del Vietnam negli occhi dei soldati americani

Informazioni su questo libro

Definito da John Le Carré il più bel libro sulla guerra dopo l'Iliade, pubblicato per la prima volta nel 1977, Dispacci è il doloroso reportage di un giornalista che tra il 1967 e il 1969 trascorse un anno e mezzo in Vietnam, come corrispondente di guerra, al seguito delle truppe americane. Attraverso le stesse parole, crude e dirette, dei soldati con cui condivise pericoli e fatiche quotidiane, Michael Herr registra e racconta in queste pagine l'allucinante sequenza di violenze e crudeltà di cui furono responsabili, e a loro modo vittime, i giovanissimi americani arruolati nell'esercito: i villaggi distrutti dalle bombe al napalm, i corpi massacrati, le atrocità insensate contro i civili, le imboscate dei vietcong, l'inferno di una giungla torrida e impenetrabile. Considerato uno dei testi più potenti sugli orrori e sulla violenza di un periodo storico ancora molto vicino, il libro di memorie di Herr affianca alla testimonianza e al valore storico del documentario la riflessione lucida e disperata di un osservatore d'eccezione sull'esperienza della morte e della guerra.

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Informazioni

Khe Sanh

1

Durante i brutti giorni della fine dell’inverno del 1968, quando si ebbe la massima concentrazione di fuoco, c’era a Khe Sanh un giovane marine il cui turno di servizio in Vietnam era giunto al termine. Dei 13 mesi trascorsi nel paese, quasi cinque li aveva passati qui alla base di combattimento di Khe Sanh con il 26° marine, il quale, a partire dalla primavera precedente, era andato crescendo pian piano fino a diventare un reggimento completo e infine un reggimento rinforzato. Riusciva a ricordare un tempo, non molto lontano, in cui quelli del 26° si consideravano fortunati a essere lì, quando i ragazzi ne parlavano come se fosse una ricompensa per tutto ciò che, in particolare, avevano passato le loro unità. Per quanto riguardava questo marine, il premio gli toccava per un’imboscata sulla strada da Cam Lo a Con Thien in cui la sua unità aveva riportato il 40 per cento di perdite, e lui si era preso dello shrapnel nel petto e nelle braccia. (Oh, ti diceva, se ne aveva vista di merda in questa guerra.) Questo accadeva quando era Con Thien il nome che tutti conoscevano, molto tempo prima che Khe Sanh avesse assunto le proporzioni di un campo da assedio e si fosse insediata come un’ossessione nel cuore del comando, molto prima che un solo colpo fosse caduto dentro il perimetro per portarsi via i suoi amici e fare del suo sonno qualcosa di indistinguibile dalla veglia. Ricordava quando c’era il tempo per giocare nei ruscelli sotto l’altura della base, quando l’unico argomento di conversazione erano le sei tonalità di verde che ritoccavano le colline circostanti, quando lui e i suoi amici vivevano come degli esseri umani, in superficie, alla luce del giorno, e non come degli animali così scoppiati da cominciare a prendere pillole contro la diarrea per ridurre allo stretto necessario le andate e ritorno dalle latrine esposte ai quattro venti. E quell’ultimo mattino del suo turno, avrebbe potuto dirti che ne aveva viste di tutti i colori e gli era andata abbastanza bene.
Era un ragazzo alto e biondo del Michigan, probabilmente sulla ventina, benché non fosse mai facile indovinare l’età dei marine di Khe Sanh dal momento che nulla di simile alla gioventù si conservava a lungo sui loro visi. La colpa era degli occhi: perché erano sempre tirati o spenti o semplicemente assenti, non c’entravano mai niente con ciò che faceva il resto del viso, e questo conferiva a tutti quanti un’aria di estrema stanchezza oppure di balenante follia. (E l’età. Se prendete una di quelle fotografie dei plotoni della guerra civile e coprite tutto tranne gli occhi, vedrete che non c’è nessuna differenza tra un uomo di cinquant’anni e un ragazzo di tredici.) Questo marine, per esempio, sorrideva sempre. Era il tipo di sorriso che sconfina facilmente nei risolini acuti, ma i suoi occhi non mostravano né divertimento né imbarazzo né nervosismo. Era un sorriso un po’ da matto, ma essenzialmente era esoterico, esoterico come lo erano tanti marine sotto i venticinque anni dopo aver passato qualche mese nel 1° corpo d’armata. Su quel viso giovane, indecifrabile, il sorriso poteva emergere da una certa antica sapienza, e diceva: «Te lo dirò perché sorrido, ma ti farà uscire di testa».
Si era fatto tatuare il nome MARLENE sulla parte superiore del braccio e sul suo elmetto c’era il nome JUDY. Commentò: «Sì, be’, Judy sa tutto di Marlene. No, è tutto a posto, per quello non ci sono casini». Sulla schiena del giubbotto antiproiettile una volta aveva scritto: «Sì, sebbene io cammini nella valle dell’ombra della morte, non temerò alcun male, perché sono il più lurido figlio di puttana della valle», ma poi aveva cercato, senza molto successo, di cancellare tutto, perché, mi spiegò, non c’era un cane nella zona smilitarizzata che non avesse quella scritta sul giubbotto antiproiettile. E sorrideva.
Sorrideva quell’ultimo mattino del suo turno. La sua roba era in ordine, le sue carte tutte in regola, il bagaglio pronto, e si stava dedicando a tutte le incombenze dell’ultimo minuto di chi se ne torna a casa, le pacche sulla schiena e sul sedere; gli scherzi con il Vecchio («Dai, lo sai che avrai nostalgia di questo posto.» «Sissignore. Eccome!»); lo scambio di indirizzi; le occasionali, frammentarie reminiscenze che spezzavano imbarazzati silenzi. Gli erano rimasti degli spinelli, conservati in un sacchetto di plastica (non se li era fumati perché, come la maggior parte dei marine a Khe Sanh, si aspettava sempre un attacco da terra, e non voleva essere fatto quando sarebbe arrivato), e li regalò al suo migliore amico, o meglio, il migliore amico che avesse tra i sopravvissuti. Il suo più vecchio amico era rimasto ucciso in gennaio, lo stesso giorno che avevano colpito il deposito di munizioni. Si era sempre chiesto se Gunny, il sergente d’artiglieria della compagnia, avesse saputo di tutto quel fumare che facevano. Dopo tre guerre, probabilmente a Gunny non interessava granché, tra l’altro lo sapevano tutti che pure Gunny ci aveva un problemino di merda non male. Quando fece un salto nel bunker gli dissero addio, così non gli restò altro da fare quel mattino che correre dentro e fuori dal bunker per dare un’occhiata al cielo, e poi, ogni volta, rientrare e dire che effettivamente verso le dieci avrebbe dovuto essere abbastanza chiaro per lasciare atterrare gli aerei. A mezzogiorno, quando gli addii e gli «stammi bene» e i «goditela un po’ per me» si trascinavano ormai da ore, il sole cominciò ad apparire attraverso la nebbia. Il ragazzo raccolse il bagaglio del corredo e una piccola borsa da AWOL,a e si avviò verso la pista d’atterraggio e la profonda e stretta trincea al margine della pista.
Khe Sanh era veramente un postaccio allora, ma quella pista d’atterraggio era il posto peggiore del mondo. Era ciò che aveva Khe Sanh invece di un anello a V, l’esatto, prevedibile obiettivo dei mortai e dei razzi nascosti nelle colline lì intorno, il bersaglio sicuro dei grandi cannoni russi e cinesi piazzati nel fianco della cima di CoRoc, distante 11 chilometri oltre il confine laotiano. Non c’era niente di casuale nei bombardamenti di quel punto, e nessuno voleva averci niente a che fare. Se c’era il vento giusto, riuscivi a sentire i calibro 50 dell’esercito nordvietnamita che attaccavano a sparare in fondo alla valle ogni volta che un aeroplano cominciava la manovra di avvicinamento alla pista, e il primo fuoco entrante di artiglieria precedeva di pochi secondi gli atterraggi. Se eri lì ad aspettare di essere prelevato, non ti restava altro da fare che rannicchiarti nella trincea e cercare di rimpicciolirti, e se stavi arrivando con l’aereo, non potevi fare proprio niente, niente di niente.
C’erano sempre rottami di aerei di un tipo o dell’altro ammonticchiati sulla pista o lì accanto, e talvolta i danni costringevano a chiudere la pista per delle ore mentre i Seabeesb o i genieri dell’11° si occupavano di sgombrare. Era così spaventosa, così prevedibilmente spaventosa, che l’Air Force smise di mandarci le star degli aerei da trasporto, i suoi C-130, e ripiegò sui più piccoli e manovrabili C-123. Ogniqualvolta era possibile, venivano paracadutati dei carichi con lanci a tavolozza da 500 metri, graziosi paracadute azzurri e gialli, uno spettacolo, che scendevano intorno al perimetro. Ma, ovviamente, i passeggeri andavano fatti scendere o salire a terra. Queste erano per lo più sostituzioni, ragazzi che andavano o tornavano dalle licenze, specialisti di vario genere, raramente alti ufficiali (la maggior parte dello stato maggiore della divisione e di quelli ancora più su si organizzavano dei viaggi speciali per Khe Sanh) e un sacco di corrispondenti. Mentre i passeggeri che dovevano riempire l’aereo erano sempre più tesi e sudavano e correvano continuamente con il pensiero verso la trincea, aspettando che scendesse il portello del carico, da 10 a 50 tra marine e corrispondenti stavano accovacciati nella trincea, leccandosi vanamente le labbra per alleviarne la secchezza, e poi, nello stesso preciso istante, tutti si buttavano, si scontravano, si calpestavano, scambiandosi i posti. Se lo sbarramento era particolarmente forte, le facce si scomponevano tutte nel panico più elementare, con gli occhi più sbarrati di quelli di cavalli intrappolati in un incendio. Ciò che vedevi era una confusa immagine traslucida, percepibile soltanto nel centro immediato, come una di quelle fotografie fuorifuoco-chic dei carnevali, e coglievi di sfuggita un viso, un frammento di granata circondato di scintille bianche, un pezzo di equipaggiamento sospeso chissà come in aria, una corrente di fumo, e tu giravi intorno agli equipaggi degli aerei che manovravano le pesanti cinghie del carico, scavalcavi i cani-guida, scavalcavi i sacchi dei cadaveri messi lì come capitava e che giacevano sempre non lontano dalla pista, coperti di mosche. E gli uomini continuavano ancora a lottare per salire o per scendere mentre l’aereo girava lentamente per iniziare a rullare prima del decollo più accelerato che la macchina era in grado di fare. Se eravate a bordo, quel primo movimento era un’estasi. Ve ne stavate tutti seduti là con sorrisi vuoti, sfiniti, stampati sul viso, coperti di quell’impossibile polvere rossa della laterite sbriciolata, polvere come squame, provando quel delizioso brivido postumo di paura, quell’unica rapida convulsione del sentirsi in salvo. Non c’era al mondo una sensazione che potesse eguagliare quella di essere portati via in aereo da Khe Sanh.
Quell’ultima mattina, il giovane marine prese un passaggio dalla postazione della sua compagnia che lo lasciò giù a 50 metri dalla pista. Mentre si muoveva a piedi sentì il rumore lontano del C-123 che arrivava, e quello fu tutto ciò che udì. C’era un livello di nuvolosità di una trentina di metri o poco più, terrificante, che incombeva su di lui. A parte i motori che si avvicinavano, tutto era immobile. Se ci fosse stato qualcos’altro, anche soltanto un colpo in arrivo, avrebbe potuto forse sentirsi tranquillo, ma in quel silenzio il rumore dei suoi piedi che si muovevano sul terriccio lo terrorizzava. In seguito disse che era stato questo a fermarlo. Gettò a terra il suo bagaglio e guardò intorno. Guardò l’aereo, il suo aereo, mentre toccava il suolo e poi corse via superando con un balzo dei sacchi di sabbia gettati a lato della strada. Si buttò giù, incollato al terreno, e restò ad ascoltare l’aereo che scaricava, caricava e ripartiva, ascoltò finché non ci fu più niente da ascoltare. Non era arrivato un solo sparo.
Al bunker ci fu una certa sorpresa nel vederlo ritornare, ma nessuno disse niente. A tutti può capitare di perdere un aereo. Gunny gli diede una pacca sulla schiena e gli augurò un viaggio migliore la prossima volta. Quel pomeriggio saltò su una jeep che lo portò fino al Charlie Med, il distaccamento medico di Khe Sanh che era stato collocato insensatamente vicino alla pista, ma non ce la fece a oltrepassare i sacchi di sabbia addossati alla stanza degli «scartati».
«Oh, no, bastardo rincoglionito» disse Gunny quando il ragazzo tornò alla sua unità. Ma questa volta lo guardò a lungo.
«Eh, be’» disse il ragazzo, «be’…»
Il mattino dopo due dei suoi amici lo accompagnarono fino al margine della pista e fin dentro la trincea. («Addio» disse Gunny. «E questo è un ordine.») Tornarono dicendo che questa volta era partito di sicuro. Un’ora dopo veniva di nuovo su per la strada, sorridendo. Era ancora lì la prima volta che lasciai Khe Sanh, e anche se probabilmente alla fine sarà riuscito ad andarsene, non ne potrò mai essere sicuro.
Stranezze del genere accadono quando stanno per finire i turni di servizio. È la sindrome dei «prossimi al congedo». Nella testa degli uomini che sono veramente in guerra da un anno, tutti i turni finiscono presto. Nessuno si aspetta molto da un tale a cui mancano una o due settimane. Diventa un maniaco superstizioso, un collezionista di cattivi presagi, un divinatore di ogni brutto segno. Se ha l’immaginazione, o l’esperienza della guerra, predirà la sua morte mille volte al giorno, ma gliene basterà sempre per fare quell’unica grande cosa: andarsene.
C’era dell’altro che affliggeva il giovane marine, e Gunny sapeva di cosa si trattava. In questa guerra la chiamavano «reazione acuta all’ambiente», ma il Vietnam aveva partorito un gergo di locuzioni talmente sottili che era spesso impossibile comprendere anche alla lontana ciò che queste intendevano. La maggior parte degli americani avrebbe preferito sentirsi comunicare che il loro figliolo aveva sviluppato una reazione acuta all’ambiente piuttosto di sapere che si trattava di uno shock da bombardamento, perché non sarebbero stati capaci di affrontare lo shock da bombardamento meglio di quanto avrebbero saputo fare con la realtà vissuta da quel ragazzo durante i cinque mesi a Khe Sanh.
Diciamo che le sue gambe proprio non funzionavano. Era chiaramente una questione di competenza dei medici, e il sergente stava per controllare che facessero qualcosa. Ma quando me ne andai, il ragazzo era ancora lì, seduto mollemente sul suo bagaglio, e sorridendo disse: «Amico, quando arrivo a casa, vedrai che ho svoltato».
a. Absent WithOut Leave, assente senza permesso. La condizione di awol non veniva considerata diserzione. (N.d.T.)
b. CBS (Construction Battallions) o Api Marine, genieri della marina specializzati nella costruzione di zone d’atterraggio nelle aree di combattimento. (N.d.T.)

2

Il territorio sopra il 2° corpo d’armata, quella parte che correva lungo il confine laotiano e all’interno della zona smilitarizzata, era chiamato dagli americani gli Altipiani. Nata come una pura questione di praticità militare, l’imposizione di tutta una nuova serie di modi di denominazione al più antico, al più autentico essere del Vietnam, cominciò molto semplicemente con la divisione di un unico paese in due e continuò – il che aveva la sua logica – con l’ulteriore divisione del Vietnam del Sud in quattro corpi tattici chiaramente definiti. Era stata una delle tante esigenze della guerra, e se di fatto essa cancellava persino alcune delle più ovvie distinzioni geografiche, favoriva però una comunicazione chiara, per lo meno tra i membri della Missione e i molti componenti del Comando di assistenza militare del Vietnam, il favoloso MACV. In termini di geografia reale, per esempio, il delta del Vietnam comprende la piana dei Giunchi e fa da cornice al fiume Saigon, ma su tutti i grafici e nel profondo di tutte le menti sveglie, finiva sulla mappa all’altezza della linea che divideva il 3° dal 4° corpo d’armata. In base a queste denominazioni, gli Altipiani erano confinati al 2° corpo d’armata, terminando bruscamente alla riga che era stata tirata proprio sotto la città costiera di Chu Lai; tutto ciò che si trovava tra quella e la zona smilitarizzata era solo il 1° corpo d’armata. Tutti i briefing in Vietnam, a qualunque livello, finivano per somigliare alla «chiamata delle parti», e il linguaggio era usato come un cosmetico, un genere di cosmetico, però, che imbruttiva. Dato che per lo più il giornalismo di guerra era formulato in quel linguaggio o derivava dalla visione della guerra implicita in quei termini, sarebbe stato altrettanto impossibile capire com’era fatto il Vietnam dalla lettura delle cronache dei giornali quanto sapere che odore aveva. Quegli Altipiani non svanivano semplicemente al confine del corpo d’armata, ma risalivano fino a entrare in una sezione del Vietnam del Nord che gli aviatori della marina chiamavano l’Ascella, fondendosi con una catena montuosa dal meraviglioso nome di Cordigliera annamita che si estendeva per quasi tremila chilometri dall’Ascella a un punto proprio sotto Pleiku, penetrando attraverso gran parte del Nord, attraverso la zona smilitarizzata, attraverso la valle dov’era il fortino (il loro) dell’A Shau, e attraverso l’altura che fu una volta la base di combattimento dei marine a Khe Sanh. E poiché il territorio che percorrevano era molto particolare, con le sue...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione. di Roberto Saviano
  4. DISPACCI
  5. Inspirare
  6. L’inferno fa schifo
  7. Khe Sanh
  8. Salve illuminanti
  9. Colleghi
  10. Espirare
  11. Copyright