Tutti pensavano che avessi fatto uscire il sangue dal naso a Vusi per via della gallina, ma non era poi così vero. Certo, Kathleen era uno dei miei migliori esemplari di razza livornese, però non ero di certo uno che prende a pugni la gente. Nemmeno se in ballo c’era un pollo che si era classificato terzo all’ultima fiera agricola di Bloemfontein.
Mi chiamo Martin Antonio Retief. Quando questo è successo, avevo 13 anni, 11 mesi e 12 giorni. Mamma mi chiamava Martin, a scuola invece per tutti ero Clucky. Anche mia sorella e mio zio Hendrik mi chiamavano così.
Mio papà è morto quando avevo 11 anni, 7 mesi e 6 giorni. Lui aveva 43 anni, 7 mesi e 2 giorni. Accanto a lui, sul sedile del passeggero, c’era un pesce surgelato perché mamma gli aveva chiesto se, tornando dal lavoro, poteva fermarsi a comprare del pesce per cena. Il camion che gli ha tagliato la strada stava trasportando 30 computer nuovi. Erano destinati alla scuola di un quartiere povero. Sono andati distrutti nell’incidente e Nelson Mandela Drive è rimasta chiusa al traffico per più di mezz’ora. Questo lo sono venuto a sapere perché era scritto sul giornale. Mio papà è stato sepolto 4 giorni dopo, di martedì. Al funerale c’erano 62 persone (esclusi il pastore e quelli delle pompe funebri).
Mi è sempre piaciuto contare le cose. Ma vi stavo raccontando di Vusi.
Ecco cos’è successo quella mattina prima di scuola: alle 06.47 in punto, ho bussato alla porta dei nostri nuovi vicini di casa.
Dietro l’angolo è spuntato di corsa il loro cane, che si è messo ad abbaiare tutto eccitato e mi è saltato addosso. Gli ho lanciato un’occhiata letale.
Mi ha aperto la porta un ragazzino che poteva avere più o meno la mia età. Ho fulminato con lo sguardo pure lui.
«Il tuo cane ha ucciso la mia gallina» gli ho detto.
Per un attimo è sembrato sorpreso. Quindi ha strizzato gli occhi con fare sospetto. Non sembrava avesse dormito un granché la notte precedente. Aveva le occhiaie e la testa rasata. Chissà se si era fatto i capelli a zero per avere un’aria minacciosa.
Poi ho visto che aveva una videocamera. Non me l’aspettavo. L’ha alzata e me l’ha puntata in faccia.
«Come fai a dire che è stato il mio cane?» mi ha chiesto, nascosto dietro l’obiettivo. «Può essere stato il cane di chiunque.» Parlava come quelli che danno le notizie in tv.
«Il tuo è questo qui?» gli ho domandato indicando il bastardino marrone ai miei piedi.
Ha puntato la videocamera verso terra. Il cane ha sfoderato un sorrisone, come per convincerlo della sua innocenza. Avrebbe potuto funzionare, magari, non fosse stato per le penne bianche che gli spuntavano dalla bocca.
Le ha notate anche il ragazzino. Ha abbassato la videocamera.
«Ma no, dai, Cheetah!» ha esclamato. «Cos’hai combinato stavolta?»
Il cane ha guaito un pochino e poi si è sdraiato con la testa fra le zampe.
«Vusi, con chi stai parlando?» ha chiesto qualcuno dentro casa.
«Niente, è il figlio dei vicini» ha risposto lui voltandosi appena.
Da una delle stanze è comparsa una donna. «Ah, ciao!» mi ha detto.
Ho deglutito. «Ehm… salve.»
Non avevo mai visto una donna tanto bella, mai: non solo dal vivo, ma nemmeno in un film, in tv o su una rivista. Aveva i capelli biondi che le arrivavano alle spalle, un piccolo neo sopra il labbro superiore e gli occhi verdi come il laghetto dietro casa nostra quando splende il sole.
«Non dovresti stare troppo alzato, Vusi» ha aggiunto prima di scomparire nuovamente.
«Sì, Miranda» le ha risposto lui a voce alta, mentre, di nascosto, alzava gli occhi al cielo. «Senti» mi ha detto, «mi dispiace per la tua gallina.»
«Per Kathleen.»
«Eh?»
«Si chiamava Kathleen. E l’anno scorso alla fiera agricola di Bloemfontein è arrivata terza nella categoria “razza livornese”.»
«Okay, allora mi dispiace per Kathleen. Non so come abbia fatto a uscire Cheetah. Se vuoi chiedo a mio papà i soldi per una gallina nuova.» È forse qui che gli ho tirato un pugno?
Sbagliato. Ero infastidito da matti, ma non mi ha lasciato nemmeno il tempo di dirgli dove potevano mettersi i loro soldi, lui e suo padre.
«Tu non sei mica il ragazzo che vive nella casa qui di fianco, quella con il tetto rosso?» mi ha chiesto rialzando la videocamera. «Non fai Retief di cognome?»
Ho annuito.
Lui ha abbassato la videocamera e ha sorriso. Non era un sorriso normale, c’era sotto qualcosa. Ma non ero bravo a capire quelle robe lì, tipo quando un sorriso voleva dire qualcosa di diverso dal solito.
«Io so chi è tua mamma.»
Ci sono rimasto di stucco. «In che senso?»
«Aspettami qui» mi ha detto, e in un attimo è sparito in corridoio.
Io e il cane ci siamo scambiati un’occhiata. Forse dovevo andarmene. Ma Vusi è tornato quasi subito. In mano aveva qualcosa per me. Un pezzo di carta, forse un ritaglio di giornale. L’ho preso e l’ho guardato. In effetti era proprio un ritaglio di giornale, veniva da una di quelle riviste che fanno soldi con i gossip sulle star delle soap opera e sugli attori di Hollywood. Il titolo dell’articolo era Dove sono finite le stelle del passato? e c’era anche una foto di mia mamma.
«Offrono una ricompensa di cinquecento rand a chiunque li aiuti a rintracciare uno di questi vip…» ha commentato Vusi con un ghigno.
È qui che gli ho tirato un pugno?
Risposta esatta.
Le galline di razza livornese devono il loro nome a una città italiana. Sono bianche, per lo più, e sono famose perché producono tantissime uova. Un solo esemplare può arrivare a deporne fino a 280 all’anno, cioè 0,767 al giorno. Esclusi gli anni bisestili.
«Ma, Clucky, si può sapere che cosa ti è preso?»
No, questo non ero io che parlavo con le galline.
Era zio Hendrik, il fratello di mia mamma, che parlava con me. Ovvio che prima o poi mi avrebbe trovato, nel pollaio. Andavo sempre lì quando avevo bisogno di pensare. I polli sono di ottima compagnia se devi riflettere su qualcosa.
«Non sapevo che quel tizio fosse malato terminale» ho borbottato guardando Bertha, la gallina più anziana, che dava la caccia a un grillo.
Zio Hendrik ha sospirato. «Ma da quando in qua prendi a pugni la gente?»
Per lui quella frase era talmente “lunga” che dopo averla detta praticamente gli mancava il fiato. Era un uomo di poche parole. Mamma raccontava che ai tempi della scuola era un bravo oratore e che quando lei e papà si erano sposati il maestro di cerimonie lo aveva fatto proprio lui. Ma poi qualcuno gli aveva spezzato il cuore e da allora viveva in un appartamentino vicino a casa e ci aiutava con la nostra piccola azienda agricola, o “fazzoletto di terra” come lo chiamavamo noi. E non chiacchierava un granché.
«Non ho voglia di parlarne.»
Lui ha annuito. Sapevo che mi avrebbe capito.
«Va bene» ha concluso rimettendosi il berretto, «ma devi andare a scusarti. Tua mamma ha detto così.»
Bertha ha dato una beccata al grillo, prima che questo riuscisse a scappare dietro una pila di mattoni. In un secondo, sono arrivate di corsa anche tutte le altre galline. La vita media di un pollo è di otto o dieci anni. Bertha ne aveva già undici. Io ne avevo due, quando era uscita dal guscio. Della covata B, era rimasta solo lei: Bigwig, il gallo bianco, era morto l’anno prima. Mio padre dava ai polli un nome che iniziava con una lettera diversa ogni anno. Charlotte e il gallo nero, Chopper, avevano un anno in meno di Bertha. Papà è morto nell’anno della K, quando è nata Kathleen.
Quella mattina, mentre io ero a scuola, Vusi era passato da casa nostra. Aveva parlato con zio Hendrik. Credo che lo avrei preso a pugni lo stesso, anche se avessi saputo che era malato. Così imparava a cucirsi la bocca e a lasciare in pace mia madre.
Il giorno in cui ho picchiato Vusi, mia mamma aveva 43 anni, 8 mesi e 22 giorni. Da giovane aveva recitato in due serie tv e in una pubblicità. Se vi dicessi come si intitolavano le due serie, pensereste che me le sono inventate, e invece si chiamavano proprio così: Primavera sull’altopiano e Quest’inverno. Mia mamma per ridere dice sempre che se ne avessero fatta una con “autunno” o “estate” nel titolo, forse la sua carriera di attrice sarebbe stata più lunga. La pubblicità invece era del gelato Sno-D-Lite. Non avrete mai sentito nominare nemmeno quello: le due serie andavano in onda prima che nascesse Cindy, mia sorella maggiore, e il gelato Sno-D-Lite è fuori produzione da secoli.
Il giorno in cui è stato seppellito mio padre è stata l’ultima volta che mia madre è uscita di casa.
Mrs Moosa, quella del bar, ha detto che mamma si sentiva troppo in ansia per riuscire ad affrontare il mondo. Ha detto che l’aveva letto su una rivista e che si chiama “agorafobia”. Secondo Cindy, Mrs Moosa doveva smetterla di ficcare il naso negli affari degli altri.
Lena, la gallina con un occhio solo, mi fissava con la testa inclinata.
«Cosa?» ho grugnito.
Lei ha sbattuto la sua unica palpebra e mi ha risposto: «Co co co co co co».
Ho sospirato. «Sì, sì, lo so. Prima chiudo questa storia, meglio è.»