Il primo e più importante passo nel viaggio per diventare attivisti è trovare il nostro perché personale.
Ben prima di addentrarci in dettagli su come organizzare le comunità e costruire un movimento dobbiamo chiarire a noi stessi perché siamo attivisti e per cosa lottiamo.
È la base di tutto: il trampolino da cui tuffarci e la bussola dell’intera traversata. Solo tenendo a mente ciò che ci spinge ad agire e la ragione per cui lottiamo potremo imboccare la strada giusta. Con tante associazioni, cause, gruppi e metodi diversi per creare il cambiamento può essere difficile scegliere il nostro percorso, se non abbiamo ben chiaro in mente il motivo per cui abbiamo deciso di scendere in campo.
Il perché non è un traguardo specifico: è l’impulso che ci spinge ad agire. È qualcosa di immutabile, un bisogno vitale.
Non si tratta di obiettivi a breve o a lungo termine. L’attenzione dei media, l’organizzazione di una protesta, un picchetto contro un nuovo oleodotto sono tutti traguardi e risultati concreti che cambiano nel corso del tempo. Poniamo che il nostro impegno vada a buon fine: la protesta ha funzionato, i media hanno prestato ascolto, il cantiere dell’oleodotto si è fermato. E adesso?
Il perché di un attivista è qualcosa di più profondo, e ciascuno di noi ha il proprio. Mettiamola così: tutte le manifestazioni cui partecipate, gli eventi che organizzate, gli articoli che scrivete, gli impegni che vi assumete o che rifiutate sono solo strategie che servono al vostro perché. Le campagne, le conferenze, i discorsi sono tutti piccoli passi, minuscole tessere del puzzle, parte della strategia per realizzarlo.
Ogni nostra azione dovrà servire a rispondere a questa domanda fondamentale. Solo così possiamo tenere botta fino in fondo, vincere la battaglia e creare il cambiamento che vogliamo.
Per chiarirmi il mio perché devo guardarmi dentro. Nel mio caso, se spengo tutte le distrazioni, le sollecitazioni, il rumore e le interferenze esterne e resto da sola per un momento, il mio perché è sempre lo stesso: proteggere il Pacifico nordoccidentale degli Stati Uniti, dove sono cresciuta.
Perciò la lezione più importante in assoluto di questo libro è che tutte le tattiche e i consigli sulla costruzione e l’organizzazione di un movimento saranno fiato sprecato se prima non avete scoperto il vostro perché.
Dunque vi chiedo: che cosa vi ha spinti a dire basta?
Perché siete diventati attivisti?
Perché vi siete uniti a un gruppo di militanti?
Perché avete lanciato un nuovo movimento?
Perché lottate per il cambiamento?
È per un posto che amate e che non tollerate di perdere?
O magari è per qualcuno: un individuo, una comunità, una categoria di persone?
A voi o a una persona cara è successo qualcosa che non volete capiti mai a nessun’altro? State vivendo o attraversando un’esperienza che volete denunciare al mondo?
Qualcuno vi ha dimostrato che eravate parte di un sistema ingiusto e adesso volete aiutare anche gli altri ad affrancarsene? È perché i vostri antenati sono stati complici di una cultura oppressiva e voi sentite il dovere di riparare?
Prendetevi un momento e provate a rifletterci. A fondo, con tutta calma. Per trovare il vostro perché non serve chiudervi in una stanza a scervellarvi per una settimana. E non significa che dovete vietarvi di partecipare a una protesta, a una manifestazione o a una riunione finché non l’avrete trovato. Di solito capire cosa ci dà la spinta è un processo attivo di introspezione e sperimentazione. Perciò siete liberissimi di esplorare qualunque tipo di eventi, attività e modello di lotta, senza limitazioni di sorta. Tenete anche a mente che il vostro perché non deve necessariamente essere qualcosa di straordinario, un concetto astratto o superiore.
Per Natalie Mebane, una mia carissima mentore adulta, il perché è una baia che ama a Trinidad e Tobago, dove ha passato gran parte della sua infanzia. Natalie è un’attivista per la giustizia climatica, e quando le ho chiesto: «Perché fai questo lavoro?» la sua risposta è stata una foto di quella baia dove da bambina giocava insieme alla famiglia. È un luogo del cuore, parte del patrimonio culturale caraibico di cui Natalie va fiera e che il cambiamento climatico sta distruggendo. Il pensiero di vederlo scomparire è intollerabile per lei. Mi dice sempre che se avesse tutti i soldi del mondo passerebbe là il resto della sua vita. È quella baia il vero motivo per cui sta lottando. E da cui trae la forza per affrontare le sfide del suo lavoro di organizzatrice.
Perciò mettetevi in un posto tranquillo in cui potete restare soli con i vostri pensieri. Eliminate ogni distrazione e condizionamento esterno. Spegnete il cellulare e fate una bella chiacchierata con voi stessi. Le prime risposte saranno superficiali e sbrigative, è normale, ma non accontentatevi: comportatevi come fanno i bambini curiosi e assillanti, e continuate chiedervi: “Perché?” finché non sarete arrivati al fondo della questione.
Voglio condividere con voi i miei perché. A spingermi a diventare attivista per la giustizia climatica, a lanciare la mia organizzazione, a querelare il mio governo, è la tutela del magnifico Nord-Ovest del Pacifico. È là che sono cresciuta, l’unico posto di cui abbia memoria, il luogo in cui ho scritto questo libro e, a mio giudizio (che è assolutamente di parte), il più bello del mondo. Sono nata a Los Angeles da una madre colombiana, e mi piacerebbe vivere ovunque negli Stati Uniti, e magari passare del tempo nel Paese sudamericano di mia mamma, eppure è quella la mia vera patria. Le montagne e le colline, gli oceani, gli animali, le piante, la cultura e la gente di Seattle sono la mia ragione di vita. Se elimino tutti gli orpelli e le distrazioni, è questo il mio perché: proteggere quel territorio sacro. Non potrei esistere senza la sua aria frizzante, le sue conifere altissime, l’acqua salata dell’oceano, gli uccelli, i salmoni, i cervi, gli orsi, le foche, le orche, il profumo dei cedri dopo la pioggia.
Non sono una persona religiosa. La cosa più prossima al sacro che conosco è l’ambiente che mi circonda sulla costa nordoccidentale… la cui sopravvivenza è minacciata dal cambiamento climatico. La miracolosa biodiversità degli ecosistemi marini sta scomparendo; i salmoni muoiono, le orche sono in via di estinzione, le foche sono sparite, l’aria è sempre più inquinata, le foreste vengono abbattute e l’acqua dell’oceano si sta acidificando per l’aumento di anidride carbonica. E con la decimazione delle creature marine l’intera cultura di Seattle, basata sul mare, rischia di sparire.
Il perché del mio attivismo LGBTQ+ si radica nella mia esperienza di lesbica in una società eteronormativa, cioè che considera “normale” essere etero. Mi sono impegnata a parlare in nome della mia comunità gay perché voglio un futuro in cui nessuno debba provare il senso di vergogna, la tensione, la depressione, l’alienazione e l’ansia che ho vissuto io per il modo in cui il nostro mondo tratta e cancella le ragazze come me. Nessun ragazzo e nessuna ragazza queer dovrà mai più sentirsi emarginato, respinto o indesiderato com’è capitato a me, e come spesso mi capita ancora. Voglio un futuro di piena uguaglianza ed emancipazione per tutti. Dunque il movente della mia militanza LGBTQ+ è un po’ diverso da quello del mio attivismo ambientale, perché è legato alla mia identità e alla mia storia personale. Ma si tratta comunque di un perché semplice e autentico: la liberazione e la sopravvivenza del gruppo oppresso cui appartengo.
E adesso torniamo a noi. Qual è il motivo della vostra lotta? Qual è la cosa di cui non potreste fare a meno e che vi stanno togliendo?
Chiudete il libro e magari stasera, prima di addormentarvi, sedetevi sul letto e domandatevi con totale sincerità: “Qual è il mio perché?”.
Avete trovato la risposta?
Bene.
Tenetevela stretta.
Create un tabellone, disegnatela, scrivetene, raccontatela in un video privato. Riempite il vostro spazio di promemoria ben visibili. Perché posso dirvi per esperienza che la strada che avete davanti per costruire un movimento sarà un autentico giro in ottovolante.
Adesso però sapete esattamente perché avete deciso di affrontarlo, perciò potete buttarvi senza esitazioni. E sarà bellissimo.
E ora allacciamo le cinture: si parte!
JUAN DAVID GIRALDO MENDOZA, 19 anni, He/Him
ALEJANDRO LOTERO CEDEÑO, 18 anni, He/Him
Attivisti per la giustizia climatica,
Fridays for Future, Colombia
Jamie: Perché sei diventato attivista?
Juan: Lo Stato colombiano non voleva stanziare fondi per le scuole pubbliche, così ho scioperato assieme a tutta la comunità degli studenti universitari. Migliaia di persone hanno marciato per le strade. Persino i professori e il personale amministrativo si sono uniti a noi. Dopo quattro mesi passati a ignorarci, finalmente il presidente della Colombia ha dovuto prendere atto delle proteste. Anche altri Paesi sudamericani si sono schierati dalla nostra parte. La pressione è stata così forte che il governo ha accettato di finanziare il sistema scolastico statale. È stato allora che ho compreso il potere della gente.
Poi ho letto La sesta estinzione, un libro sulla crisi climatica, e ho visto il primo video di Fridays for Future di Greta Thunberg. Il pensiero della crisi mi ossessionava, non riuscivo a pensare ad altro, al punto che ho cominciato a soffrire di attacchi di panico.
Il 15 gennaio 2019 mi sono seduto davanti alla Gobernación de Antioquia, la sede del governatore, e sono diventato la prima persona in America Latina a scioperare dalla scuola per esigere un intervento sul clima. Poco dopo anche Alejandro ha cominciato a scioperare nella sua comunità, ci siamo conosciuti online e abbiamo lanciato scioperi scolastici in altre parti della Colombia.
Jamie: Quali sono state le sfide più difficili che avete affrontato come attivisti?
Juan: La violenza dello Stato per reprimere le proteste. Qui operano squadre di opposizione note come ESMAD (Squadroni mobili antisommossa) che usano una quantità di tattiche per sgomberare i manifestanti. In teoria la legge colombiana ci riconosce il diritto di protestare, ma di fatto questo diritto non viene rispettato o tutelato. A Bogotá una manifestazione con cento studenti è stata dispersa con la carica di un camion.
Il problema è che i media distorcono i fatti. È accaduto spesso con gli scioperi universitari. Gli agenti ESMAD ci aggredivano, ci picchiavano, ma nei filmati che passavano in televisione sembrava che fossero gli studenti ad averli aggrediti, costringendoli a reagire. La stampa ci ha criminalizzati, offrendo alla polizia una giustificazione in più per attaccarci. Quanto al motivo delle proteste, i media non lo citano nemmeno. Si limitano a parlare di disordini e a darcene la colpa, bollandoci come violenti.
Alejandro: Nei posti in cui sciopero io, la polizia è un tormento continuo. Non vogliono che protestiamo. È una fatica convincere la gente a scendere in piazza, e spesso sono in pochi ad aderire agli scioperi, a darci retta e prestare attenzione alla crisi. Serve un’enorme resilienza emotiva per continuare a resistere.