«Andiamo via.»
«No.»
«Sul serio, Priscilla, davvero. Dobbiamo abbandonare la missione.»
«Sono i tuoi nervi che parlano.»
«No, no, falso, P. È la logica che parla. È la me normale che parla. Questa cosa è ridicola. Voglio dire, se ci pensi tutta questa storia è assolutamente ridicola, senza dubbio.»
«Lizzie» dice Priscilla con le mani sul volante, «siamo arrivate fin qui: non torniamo indietro. Siamo quasi a Dartford Crossing, e ci siamo appena lasciate alle spalle tutto il traffico terribile di Londra.»
«Ma ho una brutta sensazione. Di pancia. Come se… Come se fosse meglio non fare questa cosa, percorrere tutta questa strada per andare a un indirizzo a caso di cui non sappiamo niente. È una follia, no? È proprio una follia.»
«Okay, d’accordo, è una follia.» Priscilla mi lancia un’occhiata sopra gli occhiali da sole e torna a concentrarsi sulla strada. La ventola sul cruscotto spara un’aria gelida che le fa svolazzare i capelli come in quelle pubblicità tutte sussurri e luci soffuse di qualche profumo; metafora perfetta dell’estrema tranquillità e dell’irritante rilassatezza con cui sta affrontando quella che per lei è soltanto una piccola avventura del sabato mattina. «È una follia assurda» prosegue. «Ma in mano non abbiamo nient’altro, visto che il numero che compare su Google risulta staccato. Andiamo solo a dare un’occhiata, Liz. Ci passiamo davanti veloci senza scendere dalla macchina e torniamo a casa. Non ce lo perdoneremmo mai se, finché il ferro è ancora caldo, non provassimo almeno a scoprire da dove viene quella cavolo di lettera.»
«Oddio, mi sento male.»
«Sei solo agitata.»
«No, Priscilla, dico sul serio. Rischio di farmela addosso e di vomitare contemporaneamente.»
«Sei agitataaa» cantilena di nuovo Priscilla, e avrei una voglia matta di darle una sberla.
Ma ha ragione. A dire il vero sono terrorizzata. La risolutezza che si era impadronita di me quando avevo origliato il discorso di zia Shall è sparita in circa cinque minuti dopo che sono salita in auto. Avevo pensato che forse, stamattina, al mio risveglio avrei cambiato idea, mi sarei pentita di aver deciso su due piedi di andare nel Kent, ai laghetti di trote e al pereto del famoso timbro, invece no. Al contrario: mi sono svegliata piena di determinazione, a testa alta come non mi succedeva da molto tempo, quasi sorretta dalla rabbia. Le parole di Shall, papà che cercava di difendermi come se fossi responsabile di un crimine vergognoso, le cose intollerabili emerse dalle tenebre della mia mente da quando ho aperto la lettera di Roman. Sembrava talmente disperato, talmente dispiaciuto. Ma perché? Glielo dovevo. Lo dovevo a Roman di non ignorare la sua lettera, per quanto tardi mi fosse arrivata. Lo dovevo alla persona che mi aveva strappata all’orlo del precipizio.
Adesso, invece, sono terrorizzata. Ho paura di trovarlo. Ho paura che non voglia essere trovato, soprattutto da me. Ho paura di non trovare nulla.
«Lizzie?»
«M-mh?» Ho gli occhi chiusi, la mano avvinghiata alla maniglia sopra la portiera come se fossi sulle montagne russe e dovessi tenermi stretta per salvarmi la pelle.
«Non te la sarai fatta addosso davvero?»
«Vaffanculo, P. Mi sta esplodendo la pancia.»
Ride. È una risata fragorosa, la sua, una risata “sporca”. Da sempre. Ricordo quanto mi aveva colpita al nostro primo incontro: gruppo di studio, anni dodici, lei era lì per punizione, io perché era il mio nascondiglio preferito. Avevo detto qualcosa, lei aveva riso mentre si applicava il gloss al lampone, l’insegnante ci aveva sibilato qualcosa e per un attimo mi ero chiesta se non fosse tutta una completa e colossale presa in giro. È esattamente quel genere di risata. Contagiosa e insolente. Proprio come Priscilla.
Prende due caramelle alla frutta dalla borsa che ha in grembo e se le mette in bocca, poi dice: «Vedrai che riesci a tenerla».
«E tu come fai a saperlo? La settimana scorsa Cal aveva un virus intestinale ed è venuto lo stesso in ufficio.»
«Ah, ma il tuo non è un virus» replica impaziente. «Se è un virus, io sono il principe Carlo. Sei agitata e basta. Penso che tu abbia scordato quanta familiarità ho con i tuoi movimenti intestinali.»
La guardo. «Ah sì?»
«Ogni volta all’ora di educazione fisica dicevi che avevi i crampi o la nausea, che non ti sentivi bene, che avevi un principio di influenza, di intossicazione alimentare, di dissenteria eccetera…»
«Senti, P., ce l’hai una caramella, una gomma o qualcos’altro alla menta che possa essermi di un qualche aiuto?»
Allunga il braccio, apre il cruscotto e mi passa un barattolo di chewing gum.
«Ogni volta, nell’ora di educazione fisica» continua, fermandosi per controllare lo specchietto retrovisore prima di spostarsi nella corsia centrale, «soprattutto quando c’era la corsa campestre, diventavi pallida come la morte e mi assicuravi che probabilmente ci sarebbe esploso addosso il tuo intestino. Ti ricordi, Lizzie? Tutti quegli anni e ogni volta la stessa storia finché non arrivavamo al campo.»
Annuisco, anche se ho ancora voglia di darle una sberla. Tra i ricordi più cari che ha di me questa donna, ecco quello che conserva con più precisione.
«E poi succedeva anche l’anno scorso, ogni volta che dovevi uscire con Ricky Gardner» prosegue Priscilla. «Ogni volta. Però non te la sei mai fatta addosso davvero.»
La guardo. Alza le sopracciglia e si stringe nelle spalle con aria trionfale.
«Che dire. Grazie, Priscilla» dico appoggiandomi al sedile con il pollice alzato. «È una storia davvero romantica.»
«Di niente» annuisce. Ricky Gardner. Posso sempre contare su Priscilla per andare a ripescare aneddoti che preferirei dimenticare: la sua mente è un bidone che ricicla tutti i momenti che la mia cancella. Non mi sono pentita di essere uscita con Ricky. Solo che è stata una perdita di tempo. È arrivato l’anno scorso alla Fisher & Bolt, al reparto vendite, con un contratto a tempo determinato. Era timido, parlava bene, portava occhiali rotondi e trendy e quando sorrideva gli brillavano gli occhi. Mi aveva chiesto di uscire tre volte prima che gli dicessi di sì, ed eravamo stati bene, così bene che c’erano state una seconda, una terza e una quarta uscita. Peccato solo che alla quinta non siamo mai arrivati. Dopo aver passato gran parte del nostro quarto appuntamento a mangiare patatine al formaggio e a baciarci nel séparé di un pub buio e modaiolo di Soho, mi aveva preso il viso tra le mani dicendomi che adorava la mia bocca quando sorridevo e poi aveva aggiunto: «Indovina a cosa sto pensando. Dai». Patatine al formaggio, avevo buttato lì. La colazione preferita di Slater di Bayside School. «Nah» aveva ghignato, con gli occhi ridotti a due fessure ubriache. «Sto pensando a te, in ginocchio, che lo succhi a quel cameriere laggiù. Scommetto che lo faresti, vero? L’ho capito. Siete sempre così, voi tipe tranquille. Sempre.» Quando incespicando si era diretto in bagno avevo tagliato la corda, scioccata – ma non scioccata al punto da dimenticarmi di farmi incartare la ciotola di patatine ancora quasi piena da portarmi a casa – e dopo una settimana in cui al lavoro ci eravamo ignorati, anche perché lui non aveva neanche il coraggio di guardami in faccia, se n’era andato. Verso più verdi pascoli. Pascoli disseminati di “tipe tranquille” ansiose di succhiarlo a camerieri a caso, immagino. Era il primo ragazzo con cui uscivo in tre anni. Da allora nessuno. Non ho più voluto.
Il resto del viaggio scorre in un’indistinta bolla d’ansia, con Priscilla che di tanto in tanto mi scocca un’occhiata e sorride eccitata ogni volta che il navigatore ci impartisce una nuova indicazione, ed ecco che usciamo dall’autostrada e imbocchiamo serpeggianti stradine di campagna, attraversiamo paesini fatti di case sparse qua e là e ci avviciniamo sempre più all’indirizzo della fattoria.
«Merda» sorride Priscilla allungando la mano per afferrarmi il polso. «Sei minuti, baby!»
Gli ultimi chilometri sono uno zig zag che sembra eterno, costrette come siamo a fermarci e ripartire di continuo fra trattori, gente a cavallo e auto che quando si incrociano ci passano a malapena. Qui non c’è niente. Solo distese verde smeraldo, campi di granoturco dorati e ciuffi scuri di fitti boschi: il genere di luogo in cui da bambina ti immagini vivano le streghe e gli orsi. Cosa dovrebbe mai farci Roman in un posto così? Sognava viaggi, città e avventure, contava i chilometri tra noi e casa finché le cifre raddoppiavano, triplicavano, quadruplicavano. Lo facevamo entrambi. Mettevamo da parte i soldi, contavamo i giorni che ci separavano da quello in cui saremmo partiti insieme. Ecco il nostro piano. Lui non aveva nessun altro posto dove andare; niente familiari. Era in trappola: bloccato con sua madre in una cittadina noiosa dell’Hertfordshire, bloccato al Grove, bloccato “nel sistema”. Perché mai sarebbe dovuto venire qui? Siamo nel bel mezzo del nulla. Non ci sono stazioni ferroviarie, non ci sono negozi, non ci sono fermate dell’autobus. L’ultima casa l’abbiamo incrociata un secolo fa. E all’improvviso questo viaggio mi appare assurdo, ridicolo, come direbbe Gail “la triste”. Due donne adulte che di sabato mattina danno la caccia a un coniglio bianco in piena campagna mentre potrebbero, anzi dovrebbero, fare altro.
«Fra cento metri, la tua destinazione si troverà sulla destra.»
Priscilla lancia un altro gridolino e io non riesco a reagire. Scommetto che mi si scorge il cuore che batte anche da fuori.
Poi lo vedo, il simbolo. Eccolo lì, alla fine del viale alberato, sull’insegna bianca con i bordi lambiti dalla vegetazione, con le lettere verde bottiglia che dicono: “Broxton Farm”. Accanto a una stradina sterrata e polverosa e a una cancellata aperta.
Priscilla si ferma lì. Il motore è acceso e, a parte il suo rombo basso e un canto di uccelli in lontananza, c’è silenzio.
«Pronta?»
Mi volto a guardarla. «Non sono convinta.»
«Non siamo obbligate a scendere» dice lei. «Vedi come ti senti. Però, Lizzie, ricordati che cos’hai detto giovedì sera. Qual è l’alternativa? Fare finta di niente? Non scoprire mai cosa c’è dietro?»
Sì, voglio risponderle di sì. Sì: scegliamo l’alternativa e non scopriamolo mai, torniamo indietro e andiamo a casa, dove posso tirare tutte le tende e starmene rintanata fino a lunedì mattina.
Priscilla però ha già il piede sull’acceleratore e stiamo avanzando piano lungo la stradina.
«Diamo solo un’occhiata» dice mentre l’auto sobbalza sul terreno irregolare. «Vediamo che sensazione abbiamo, che cosa troviamo… e naturalmente anche chi troviamo.»
*
La Broxton Farm è abbandonata. È costituita da un cerchio immobile e silenzioso di granai fatiscenti e capanne di legno in cui non c’è nulla, a parte qualche pezzo di ricambio di un motore che ha preso la ruggine e pile di calcinacci. Entrando mi sono sentita invadere dal sollievo e allo stesso tempo sprofondare nella delusione. Poi però abbiamo visto la casa, più in là, dietro una macchia di abeti rossi cresciuti troppo. Ci ha colte alla sprovvista: una facciata di mattoni a vista, un rampicante di fiori gialli circonda la porta d’ingresso e arriva fino alle finestre del piano superiore piombate a rombi. Ognuna ha la sua fioriera, sono tutte vuote ma fanno la loro figura, così dipinte di blu notte. “Una bomboniera”, ecco come l’ha definita Priscilla.
Avvicino la mano al portone scrostato.
«Dai, sbrigati!» mi bisbiglia Priscilla, che non sta nella pelle. «Bussa.»
«Ho bisogno di un attimo.»
Mi squadra. «Me l’hai detto tu che ti devo costringere. Pochi minuti fa, letteralmente, mi hai detto che se avessi capito che ti stavi tirando indietro…»
«P., lo so cos’ho detto, intendevo solo che potrei aver bisogno di…»
Con uno scatto Priscilla raggiunge il batte...