«Eccoci, Angelo, quello che vedi davanti a te è il monte Grappa!»
Angelo Nardi, classe 2002, sollevò appena lo sguardo. Quella che agli occhi di suo padre sembrava un’illuminante apparizione, per lui era solamente una montagna strana, senza inizio o fine («Non ci sono nemmeno gli impianti di risalita» gli aveva detto il suo amico Zeno, che d’inverno con i suoi andava spesso a sciare), senza occasioni di divertimento, totalmente fuori dal mondo, o almeno dal mondo civile.
Quelle due parole, “monte” e “Grappa”, non erano che suoni senza senso, farfugliati appena, dispersi nel remix di Mike Shinoda di Castle of Glass dei Linkin Park, la sua canzone preferita, sparato a mille dalle enormi e costosissime cuffie che si era fatto regalare per il compleanno.
Stravaccato sul sedile posteriore, con il cappellino degli Yankees a coprire la folta testa riccia e la visiera calata sul volto, Angelo ricambiò con un sorriso un po’ ironico l’entusiasmo del padre, che lo guardava con insistenza dallo specchietto retrovisore.
Marisa, la madre, non parlava. Come sempre si accontentava di rimanere seduta accanto al marito, una metafora della sua vita dimessa.
Quella mattina di buon’ora erano partiti tutti e tre da Villa Petrarca, la residenza estiva di famiglia ai piedi dei colli padovani. Fin da allora, il pensiero fisso di Angelo era stato: “Ma perché non sono scappato di casa? Il monte Grappa… Cosa me ne importa? Cosa ci faccio qua?”. Gli veniva una rabbia, se immaginava l’estate di Zeno, Romano e gli altri. “Se la spasseranno alla grande: tutte le mattine si alzeranno tardissimo, colazione da Luigi con le mitiche bombe alla crema e poi chiusi in casa fino a sera, aria condizionata a palla, PES sulla Play e kebab a pranzo. Queste sono vacanze, non il monte Grappa!”
Tutto era iniziato in una sera di fine maggio, una delle tante sere monotone in cui i Nardi si ritrovavano a tavola per la cena, sempre alla stessa ora, con un menù pressoché invariato: il signor Nardi, Paolo, aveva ereditato dal padre il pastificio di famiglia, che negli anni era diventato famoso grazie al rugolo veneto. Il rugolo, una pasta lunga trafilata al bronzo come si faceva una volta, porosa e capace di acchiappare il sugo meravigliosamente, li aveva resi ricchi, e Paolo ne andava molto fiero. Così, almeno una volta alla settimana sulla tavola dei Nardi i rugoli erano gli ospiti d’onore, il tributo a quell’azienda in cui il signor Nardi passava le giornate dall’alba al tramonto, da tutta la vita.
Anche la signora Marisa aveva lavorato a lungo nel pastificio, come impiegata. Poi gli affari erano migliorati, e lei aveva deciso di ritirarsi: adesso la sua principale attività erano gli impegni mondani, per consolidare la sua posizione nella Padova bene.
Quella sera, nessuno badava a nessuno. Papà leggeva «Il Sole 24 Ore» sul tablet, commentando con mugugni e improperi le nuove tasse o l’andamento della Borsa. Mamma sfogliava senza interesse una copia de «La cucina italiana», in cerca di ispirazioni per la prossima cena elegante. Angelo, come sempre, era scontroso e taciturno, fissava il piatto in silenzio pensando ai fatti propri.
Non aveva un buon rapporto con i genitori. A loro si avvicinava raramente, quasi solo per chiedere soldi. Loro, d’altronde, a casa ci stavano pochissimo: il padre era sempre al pastificio, e la madre passava più tempo nella sala rossa del caffè Pedrocchi che in cucina o sul divano. Raramente il ragazzo cercava di parlare con loro: sapeva che si sarebbe sentito rimproverare per la poca voglia di studiare. Marisa, in particolare, sembrava non avesse altri argomenti per lui: «Angelo, devi laurearti! Se continui così come pensi di prendere in mano l’azienda di famiglia? Guarda il Mario, il figlio dei Bernardi…».
“Il Mario” per sua mamma era un mito assoluto, figlio e studente esemplare, laureato con lode alla Bocconi. Lo chiamava proprio così, “il Mario”, con l’articolo. «L’articolo prima del nome fa molto elegante» diceva, «molto milanese.» Proprio lei che era nata nella profonda provincia di Rovigo, tra paludi, cacciatori di anatre selvatiche e vongolari.
Da parte sua, ad Angelo la laurea non interessava affatto. Non rientrava nemmeno nei suoi sogni più remoti. Lui odiava la scuola, gli insegnanti, il preside e persino i bidelli, per il solo fatto che a scuola ci lavoravano. Non detestava proprio tutte le materie, semplicemente detestava studiare.
Gli piaceva la musica, invece, e adorava i graffiti: buona parte dei muri colorati di Padova era opera sua e della sua banda di amici – all’insaputa della polizia comunale, che sicuramente non apprezzava.
Per tutti la sua immagine era quella di uno svogliato, nullafacente, sbandato figlio di papà. A lui non importava, anzi, un po’ gli piaceva l’idea di mostrarsi come un ribelle. Anche il suo look andava in quella direzione: l’onnipresente cappellino da baseball, i jeans firmati e sdruciti, portati col cavallo bassissimo, la felpa lacera, le Vans sporche… «Vai sempre in giro come un disgraziato» gli diceva la mamma. E lui lo prendeva come un complimento.
Anche quella sera, a tavola, non ne aveva voluto sapere di togliersi il cappellino. Se ne stava con gli occhi bassi sul piatto, mentre le posate tintinnavano nella sala silenziosa.
«Quest’estate ho deciso, chiudo tutto per un po’!» aveva detto all’improvviso suo padre, e quell’annuncio aveva costretto Angelo a sollevare lo sguardo, stupito. Una vacanza? Papà non se ne prendeva una da almeno dieci anni!
«Che bella idea, Paolo!» aveva cinguettato sua madre chiudendo il giornale. «Finalmente un po’ di relax.»
Il signor Nardi aveva annuito con convinzione: «Un mese intero, crepi l’avarizia! Ce ne andiamo dal Gabriele, in Grappa!».
Lo stupore aveva ceduto il posto alla rabbia, e poi alla disperazione. Per Angelo quella era una vera e propria pugnalata alle spalle. Un intero mese lontano da Padova e dai suoi amici… Proprio adesso, poi, che Carlotta Carraro finalmente si era accorta di lui.
Si erano incontrati un sabato mattina al Tranquillino, il bar nel quale si rifugiavano gli studenti che avrebbero dovuto invece trovarsi a scuola. Angelo la scuola la “saltava” spesso, anche senza motivo, solo perché non aveva voglia di entrare. Carlotta invece quella volta aveva dichiarato che lo faceva solo per evitare il compito di latino. «Non mi va di abbassare la media dell’otto» aveva detto.
Avevano chiacchierato di musica, cinema, fumetti, libri. Certo, non erano soli: Zeno e gli altri, quando avevano sentito che lui bigiava, lo avevano subito raggiunto al bar e si erano intromessi nella conversazione senza tanti complimenti. Angelo non aveva fatto neanche in tempo a chiederle il numero. Però insomma, era un inizio. Da quel giorno le aveva messo qualche cuore strategico su Instagram, un paio di commenti simpatici qua e là… Poi l’estate avrebbe fatto da banco di prova. O almeno così pensava, fino a quella sera.
E adesso? “Un mese intero lontano da lei, in un posto sperduto, che se m’innamoro di una capra è già tanto…” Avrebbe potuto provare a ribellarsi, chiedere di lasciarlo lì, o almeno alla villa. Avrebbe potuto promettere che si sarebbe preso cura del giardino, e si sarebbe rifatto il letto ogni giorno, e si sarebbe lavato i calzini… Ma sapeva che non sarebbe servito a niente. I suoi voti a scuola erano bassissimi, e sua madre gli aveva già annunciato che quell’estate di uscire tutte le sere se lo poteva scordare, figurarsi restarsene da solo un mese intero…
Quella notte, fissando senza pace il soffitto, Angelo si chiedeva dove fosse questo posto in cui suo padre voleva portarlo… un posto che non aveva mai sentito nominare prima. Di grappa lui conosceva solo il liquore che di tanto in tanto riusciva a rubare dal mobile bar nello studio personale di papà.
Si girava e rigirava nel letto senza riuscire ad addormentarsi. Prese il telefono per scrivere al gruppo WhatsApp: “Raga, aria pesante. Il capo ha deciso che in vacanza si va tutti tra i monti a trovare un suo amico. Estate bruciata”.
Il primo a rispondere fu Zeno, notoriamente nottambulo: “Ma nooo, Angelo! Non puoi mollarci, devi combattere!”.
A ruota arrivò anche Romano: “Zio, l’estate è sacra, non te la può rubare nessuno!”.
Angelo si sentì rincuorato, ma sapeva che le loro erano parole al vento. Suo padre aveva deciso di andare su quella montagna sperduta e non c’era via di fuga. Altro messaggio: l’emoji di una capra, poi uno stambecco e infine un cuore.
“Comunque non disperare, vedrai che lassù farai grandi conquiste” gli scrisse Zeno. Poi una faccina sorridente: “Notte, zio”.
Angelo lesse il messaggio ma non rispose.
Zeno era il solito stronzo, ma in fondo gli aveva letto nel pensiero.
Da quella sera erano passati due mesi. Carlotta non l’aveva più incontrata, neanche per sbaglio. La sua pagella era stata ancora più disastrosa del previsto. Zeno e Romano se ne andavano in giro tutte le sere e gli mandavano le foto delle ragazze carine su cui tentavano di fare colpo.
Angelo era completamente solo, e adesso davanti a lui, al posto di uno spritz con l’oliva e l’ombrellino, o degli occhi verdi di Carlotta, c’era quell’inutile montagna. E un lunghissimo mese di tempo.
“È pure peggio di come l’avevo immaginato” pensò mentre suo padre usciva dalla superstrada e si apprestava ad affrontare ventisette chilometri di tornanti in salita.
Cambiò al volo il nome del gruppo che aveva con Zeno e Romano in “Un mese di agonia”, e con due tocchi inviò la sua posizione, seguita dall’emoji della faccina che piange. Nel loro linguaggio essenziale, quel disegnino stilizzato rappresentava il massimo del minimo.
Giusto tre secondi e il telefono vibrò. Era Zeno che gli mandava un link di Wikipedia: “Strada Statale 141 Strada Cadorna”.
“Il tracciato che da Bassano del Grappa giunge al monte Grappa deve le proprie origini al generale Luigi Cadorna, da cui difatti prese il nome: durante la Prima guerra mondiale, nel 1916, Cadorna capì che in caso di sconfitta il monte Grappa sarebbe risultato utile come fulcro della difesa italiana per bloccare gli austriaci. Venne quindi fatta costruire una strada che permettesse di portare uomini e mezzi sulla sommità del monte: da qui l’esercito italiano poté effettuare una strenua difesa che permise di fermare l’offensiva austriaca.”
Angelo lesse giusto le prime quattro righe e già ne era nauseato. Arrivò un messaggio di Romano: “Bella lì, Angelo, tanta roba! Tutta vita!”.
Angelo sbuffò, lasciò perdere i due amici.
Poco dopo decise di distrarsi con Instagram: “Vediamo cos’ha postato Carlotta” si disse. Ma non riuscì a connettersi. Guardò preoccupato, quasi angosciato, il segnale di ricezione del suo smartphone: due tacche, e pure indecise.
«Papà, questo è un dramma, qui non c’è campo!»
Paolo Nardi neppure si scompose, anzi, dallo specchietto retrovisore gli lanciò un sorriso e replicò pronto: «Finalmente staccherai gli occhi da quel coso per osservare la realtà. Guarda che panorama ti stai perdendo».
La giornata era magnifica e stranamente limpida. Il temporale della sera precedente aveva spazzato l’afa della pianura tipica dei mesi estivi e reso l’aria tersa e pulita. L’auto dei Nardi era ormai al quarto tornante, da dove si potevano ammirare a volo d’uccello le cittadine della pedemontana e in fondo, a sud-est, la laguna veneta e il mare. Un vero spettacolo, che avrebbe emozionato chiunque… ma non Angelo.
Paolo Nardi lanciò un’altra occhiata al figlio dallo specchietto: niente, sembrava assolutamente indifferente.
Angelo sentiva la rabbia salire dal profondo dello stomaco. Va bene la montagna, va bene un intero mese di isolamento, ma stare così tanto tempo senza Internet era veramente troppo.
Il resto del percorso lo trascorse a fissare, inutilmente, il segnale assente sul suo telefono.
Dopo una serie di tornanti che pareva infinita, l’auto dei Nardi si fermò nel piazzale davanti a una baita.
Era un edificio semplice, in pietra bianca, completato nella parte alta con un perlinato in legno scuro. La grande terrazza che dominava la facciata era decorata da fiori multicolori. Sopra l’ingresso, un vecchio dipinto ormai scrostato rappresentava una battuta di caccia. Tutto era pulito e ordinato, anche se si capiva subito che la semplicità del posto era molto lontana dai costosissimi e lussuosi alberghi delle località marittime che di solito frequentavano i Nardi.
«Scusa ...