Ulysses Critchley, come Olive, sfidava la forza di gravità, ma la sua capacità di fluttuare non era così estrema: non correva sempre il pericolo di svolazzare incontrollabilmente fino a perdersi nell’alto dei cieli. Era un po’ come vedere a velocità doppia il filmato di un astronauta che cammina sulla Luna, ogni piccolo salto era uguale a tre o quattro dei nostri passi.
Lo seguimmo per le vie di Devil’s Acre. Molti Speciali si erano radunati in strada, avevano un’aria preoccupata e cupa, lanciavano tetre occhiate al fumo. La parola «Spettro» volava di bocca in bocca. Anche se non sapevano con esattezza cosa fosse successo, nessuno dubitava che fosse una mezza tragedia. Le nostre difese erano state colpite. I nostri nemici non erano stati spazzati via come speravamo.
Attraversando Smoking Street vedemmo Rafael l’aggiustaossa. Insieme a un assistente accompagnava due uomini scuri in volto che trasportavano una barella. Ci fermammo a rispettosa distanza e li lasciammo passare.
«Chissà chi era» sussurrò Enoch. «Speriamo non uno dei buoni.»
«Ho origliato i discorsi delle guardie» disse piano Millard. «Credo che fosse Melina Manon, la telecinetica.»
«Oh, no, poveretta» disse Enoch. «Era un po’ matta, ma mi piaceva.»
«Ehi, un po’ di rispetto!» sibilò Emma.
«È una vera eroina» disse Bronwyn, e la vidi asciugarsi un paio di lacrime.
Una colonna di vapore sbuffò da una crepa nella strada e perdemmo di vista la triste processione. Riprendemmo a camminare. Non sapevo dove ci stesse portando Ulysses finché non vidi la casa di Bentham, il Panellopticon. Com’era prevedibile, era quella la nostra meta.
Alcune finestre del piano superiore erano saltate in aria. Una piccola folla si era raccolta intorno a un nastro che delimitava la scena del disastro. A quanto pareva l’edificio era stato evacuato. Farish Obwelo, il giornalista, non si lasciava sfuggire neanche un testimone e annotava furiosamente ogni parola su un taccuino.
Ulysses si fermò all’entrata, squadrò la fiancata dell’edificio come se fosse tentato di prendere la scorciatoia – gli sarebbe bastato librarsi in aria e ciao – poi posò di nuovo lo sguardo su di noi e sospirò. «Andiamo, terraioli» disse, e ci guidò all’interno.
Ci dirigemmo verso le scale. Ma prima che potessimo prenderle, vidi Sharon venirci incontro, le lunghe braccia aperte ad accoglierci. «Il giovane Portman e i suoi amici. Mai momento potrebbe essere più opportuno» ci salutò con voce rimbombante.
Con il suo gigantesco corpaccione ci bloccava la strada.
«Senti un po’» gli disse Millard, «Jacob ha degli affari importanti da sbrigare con Miss…»
«Per tua informazione, sono anche i miei affari!» Sharon gli tappò la bocca all’istante con la sua voce imperiosa.
Scendemmo nel seminterrato, e adesso era Ulysses che ci seguiva, rabbuiato. Attraversammo dei locali ingombri di macchinari. L’ultima volta che li avevo visti ronzavano e facevano un gran rumore, adesso erano in silenzio.
Superammo quasi di corsa una stanza in cui non ero mai stato, stipata di attrezzature radio e telegrafi o roba del genere. C’erano parecchie persone strizzate vicine, con le cuffie in testa e sguardi assorti, profondamente concentrate. Nell’angolo notai un uomo in smoking. Era seduto scomposto, a ginocchia unite, ed era avvolto da un sacco di cavi, con delle antenne che gli spuntavano da sopra il cilindro. Al collo portava una scatola elettrica che sputava trilli e sibili. (O forse era lui a fare quei versi?)
«Monitoriamo canali segreti per intercettare comunicazioni tra Spettri» mi disse Sharon.
Ulysses si schiarì la voce, nervoso. «Non è affatto vero!» disse. «Ignoratelo, voi non avete visto nulla!»
Affrettò la falcata mormorando tra sé e sé.
Alla fine arrivammo al cuore del macchinario di Bentham, un locale dominato da valvole, ingranaggi e tubi intrecciati e ingarbugliati come intestini che si arrampicavano sulle pareti e lungo il soffitto per riversarsi tutti insieme in un gabbiotto in un angolo, che per dimensioni e aspetto ricordava una cabina telefonica. Se non fosse che questo era fatto di ghisa, privo di vetri e inaccessibile.
«Ci tenevo che vedeste con i vostri occhi cosa è successo» disse Sharon indicando lo scatolotto, che poi si rivelò la camera di caricamento. Il gigantesco lucchetto che prima ne impediva l’accesso adesso era spaccato a terra.
Sharon aprì. L’interno era vuoto. Le cinghie di pelle ricadevano lasche e logore dopo la lunga battaglia contro gli strattoni del Vacuo. Le pareti della cella erano imbrattate di una sostanza scura che solo io ero in grado di vedere: le lacrime del Vacuo.
«Il tuo amichetto se n’è andato» disse Sharon.
«Non era mio amico» ribattei, stupito io per primo dall’ondata di senso di colpa che mi stava soffocando. I Vacui erano dei mostri, ma erano in grado di provare dolore e paura, e ricordavo in modo anche troppo vivido le urla che aveva lanciato quando era stato legato e aveva visto richiudersi la porta della sua prigione.
«In ogni caso» continuò Sharon, «ormai ha preso il volo e noi siamo rimasti qui con un pugno di mosche in mano. Viaggiare è impossibile, le operazioni sono sospese.»
«E quindi che volete da me?»
«Non è che per caso» disse una voce acuta alle nostre spalle «ne avresti un altro da darci?»
Una donna arcigna, tutta ricurva, vestita di nero dalla testa ai piedi, ci osservava sulla soglia del locale. Tra gli occhi le spuntava una strana escrescenza carnosa.
«Miss Blackbird» disse Ulysses, e si esibì in un impeccabile inchino.
Non riuscivo a credere alle mie orecchie. «Voi volete che… ve ne procuri un altro?»
Un sorriso si aprì sul grugno dell’anziana. «Se non è troppo disturbo, sì.»
«Mi dispiace» farfugliai. Non riuscivo nemmeno a trovare le parole. «Non saprei proprio dove…»
«Oh. Che peccato» commentò tornando a quella che doveva essere la sua espressione abituale.
Emma venne in mio soccorso. «Miss Blackbird, con tutto il dovuto rispetto, Jacob ha rischiato la vita per portarvi quello che avevate prima. Non è giusto chiedergli…»
L’insegnante la zittì con un gesto secco della mano. «No, no, certo. Non è giusto. E tu?» inchiodò Emma con uno sguardo penetrante. «Chi saresti, di preciso?»
«Emma Bloom» rispose lei raddrizzando le spalle.
«Ma certo, ma certo. La nidiata di Alma Peregrine.» I suoi occhi sorvolarono in un attimo i miei amici. «Ho sentito parlare di voi. Avete l’argento vivo addosso, eh? E tu devi essere la Lumière» aggiunse rivolta a Noor. Strizzava gli occhi come se non riuscisse a metterla a fuoco.
«Avverte fastidio agli occhi, Miss?» domandò Ulysses.
«Sì, temo di sì. Certi giorni sono inutilizzabili. Per fortuna posso ancora fare affidamento su Numero Tre. Avanti, scansafatiche, datti da fare!» Si picchiettò l’escrescenza al centro della fronte, che si spalancò rivelando un grosso occhio cerchiato di rosso.
«E quello che cos’è?!» esclamò Bronwyn, prima di rendersi conto della sua mancanza di tatto.
«Il mio terzo occhio. E per fortuna funziona che è una bellezza.» Mentre le due pupille lattiginose e vitree erano fisse su Noor, quello grosso al centro guardava me. «In ogni caso, i Vacui non rappresentano un problema» disse. «Averci a che fare è frustrante, lo ammetto, per non parlare dell’igiene. Comunque sia… Sospettavamo che la batteria del Vacuo non sarebbe durata per sempre, perciò negli ultimi mesi ci siamo dedicati allo studio di un’altra soluzione.»
I tre occhi di Miss Blackbird si spostarono inquisitori su Sharon.
«Potrebbe volerci ancora un po’ prima di poterla utilizzare, Madame» disse lui. «Non è ancora pronta, temo.»
«Qualche giorno al massimo» disse Miss Blackbird tradendo lo stress. «Andiamo, Portman, c’è un’altra cosa di cui voglio parlarti.» Fece una pausa, poi un sospiro, e infine aggiunse: «In privato».
Mentre salivamo le scale per arrivare al primo piano del Panellopticon, Miss Blackbird mi travolse con un torrente di parole. Parlava velocissimo, e capirla, con quel suo accento scozzese, non era mica facile. Mi mise al corrente di quanto era successo, anche se Millard mi aveva già fatto un riassunto completo, e per tutto il tempo mi strizzò il braccio con la mano ad artiglio, come se temesse che me la sarei data a gambe alla prima occasione.
Una volta sul pianerottolo del secondo piano, mi arrivò alle narici un o...