La vita è un circo
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La vita è un circo

  1. 320 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La vita è un circo

Informazioni su questo libro

Cinica, fredda e materialista: sono questi gli aggettivi che meglio descrivono Lise Gundersen, donna in carriera che ha trascorso gli ultimi dieci anni della sua vita a costruirsi una posizione di rilievo in una società di investimenti di Oslo. Ma come reagisce quando nel suo ufficio si presenta un clown? Di certo non è una scena alla quale è preparata, e ancora meno si aspetta di scoprire che uno zio di cui ignorava l'esistenza le ha lasciato in eredità un circo, con tendone e artisti al seguito. Ovviamente non ne vuole sapere e decide immediatamente di vendere l'attività per ricavarne più denaro possibile. Ma nel testamento lo zio ha fatto inserire una clausola: Lise potrà entrare in possesso e disporre a suo piacere del circo solo dopo averne diretto cinque spettacoli. Inizia così un viaggio imprevedibile, in cui i piani di Lise dovranno fare i conti con quelli (numerosi e contrastanti) di un gruppo di artisti indomiti: un clown deciso a boicottare la nuova proprietaria, una veggente che invece la prende sotto la sua ala, una bellissima trapezista, due gemelli giocolieri. E ancora un uomo proiettile con il terrore del cannone, un ginnasta che si ostina a negare gli acciacchi dell'età, una prestigiatrice divorata dalla gelosia, un mangiaspade snob - persino un elefante indiano. Ognuno con la propria storia, le proprie ferite, le proprie irrinunciabili aspirazioni. Ma ciò che per Lise si preannuncia come un'esperienza infernale si rivelerà un percorso in grado di aprirle gli occhi sulla vita, su ciò che desidera e su ciò che realmente conta.

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Informazioni

Print ISBN
9788891583550
eBook ISBN
9788865976487

1

«Solo una cosa può sfidare il predominio di un drago: un altro drago» spiegava la voce di David Attenborough al margine di una prateria indonesiana, mentre contemplava due draghi di Komodo che si stavano avvicinando l’uno all’altro.
Dall’altra parte del pianeta, seduta su un divano a Oslo, Lise Gundersen alzò il volume del televisore e osservò il famoso documentarista indietreggiare quatto quatto. Gli animali dapprima si misurarono con lo sguardo, poi si alzarono sulle zampe anteriori in una danza preparatoria; infine iniziò il massacro. Pance, zampe e dorsi furono squarciati da denti aguzzi in un mare di sangue, finché una delle due bestie ammise la sconfitta e si lasciò cacciare via.
L’indomani Lise si sentiva l’unico drago della prateria. L’uomo sulla cinquantina seduto dall’altra parte del tavolo della sala riunioni aveva già perso il combattimento. Da un pezzo. E il mezzo minuto era iniziato. Quei trenta secondi di calma irrequieta che separavano le frasi di circostanza dalla strage. Lei lo studiò mentre apriva il laptop. I solchi sulla sua fronte si fecero più profondi, poi lui alzò lo sguardo su di lei e forzò un sorriso: «Come vede oggi sono venuto da solo. Niente avvocati».
«Bene.» Davanti a lei sul tavolo c’era solo una tazza di caffè fumante. Lei la guardò e abbozzò un sorriso. «Ha mai sentito la storiella di quell’uomo che finisce all’inferno? Passa davanti a crateri ribollenti e peccatori urlanti divorati dalle fiamme e riconosce un avvocato avvinto in un appassionato abbraccio con una bella donna. “Non è giusto” si lamenta con il diavolo.»
Il dialetto del Finnmark si fece strada tra le sue parole facendo sembrare il protagonista della barzelletta un pescatore dell’estremo nord. Era frustrante: solitamente succedeva quando lei parlava con particolare entusiasmo, gioia, dolore o rabbia, come se fosse posseduta da una specie di demone il cui scopo era rivelare i suoi sentimenti. Inspirò per tappare la bocca all’essere infernale, poi continuò: «“Io patirò tormenti per l’eternità, mentre quell’avvocato può spassarsela con quella bambola.” Il diavolo scuote la testa e conduce l’uomo oltre: “Non immagini nemmeno che cosa ha fatto quella donna. Si merita davvero questa punizione”».
Un’espressione indignata velò gli occhi dell’uomo dall’altra parte del tavolo, ma lui se la scrollò di dosso e voltò il laptop verso Lise. «Il nostro centenario.» Sullo schermo si vedevano cinquanta persone sorridenti di età diverse fuori da una fabbrica. Al centro, lui mostrava orgoglioso una torta all’obiettivo. «Sono venuto qui per convincere i nuovi proprietari che la Holmen Imballaggi può continuare la sua redditizia attività per almeno altri cento anni. Grazie a queste persone.»
Lise resse il suo sguardo senza fissare la foto.
L’uomo proseguì: «Questi uomini e queste donne si sono detti disposti ad accettare un taglio allo stipendio, il che consentirà considerevoli risparmi. E i nostri subfornitori locali sono disponibili a rivedere gli accordi».
«Però questo purtroppo non cambia le cose.» Il tono indifferente rese il rincrescimento di Lise poco credibile. «La decisione è stata presa. Non si può più fare nulla.»
«Li guardi.» La voce dell’uomo si indurì mentre lei ancora lo fissava negli occhi. «No, naturalmente non ne è capace, perché se lo facesse vedrebbe che sono persone vere quelle che ci vanno di mezzo. Sono vite vere a venire rovinate, perché voi possiate ingrassare sulle nostre macerie.» Il rumore di qualcosa che grattava sul metallo attirò la sua attenzione verso la finestra, da dove un piccione posato sul davanzale li stava guardando. «Ma il peggio è che si è lasciata ritrarre con il suo sorriso rassicurante sulla prima pagina del giornale locale tra mille lodi: Azienda di Oslo salva la ditta di imballaggi.» Il piccione si girò e prese il volo, e lui guardò di nuovo Lise. «Ma lo sapeva già allora. Lo sapeva prima ancora che faceste un’offerta, non è vero? Dopo che avevate fuso con le vostre grinfie i tasti delle calcolatrici per quantificare i profitti…»
«Le condizioni sono cambiate da quando abbiamo acquistato. Le variazioni di mercato, i prezzi delle materie prime e la caduta della corona hanno…»
Lui la interruppe con un movimento della mano. «In realtà non sono venuto qui nella speranza di farle cambiare idea.» Le cerniere di plastica del laptop cigolarono quando lo richiuse. «Sono venuto per vedere se sarebbe riuscita a guardarmi negli occhi. E l’ha fatto senza problemi.» Poi si alzò, infilò il portatile in uno zaino accanto alla sedia e andò verso la porta. Prima di aprirla, si voltò verso di lei. «Da quanto lavora qui?»
«Undici anni.»
«In ogni modo pesa ventun grammi meno di quando ha iniziato.»
Mentre usciva, Lise rimase seduta a guardarlo, perplessa.
Poi dalla porta comparve un volto sorridente. «Il tizio degli scatoloni non sembrava proprio al settimo cielo.» Le rughe intorno agli occhi e sulla fronte di Børge Høylund rivelavano che aveva passato i cinquant’anni, fatto attestato anche dai capelli grigi pettinati all’indietro. Entrò e si sedette sul bordo del tavolo vicino a lei, con le braccia conserte.
«Ventun grammi.» Lise fissò la porta.
«Eh?»
«È stata l’ultima cosa che ha detto prima di andarsene. Che peso ventun grammi meno di quando ho iniziato a lavorare qui. Che cosa intendeva?»
«La tua anima.» Il sorriso di Børge si allargò. «C’era un dottore americano che pesava le persone subito prima e subito dopo la loro morte, e aveva concluso che perdevano ventun grammi.»
«Fantastico. Così non ho un’anima.»
«Però in cambio hai fatto una valanga di soldi.»
Lei lo guardò e fece spallucce. «Comunque è andata meglio con lui che con quello dell’albergo in montagna la settimana scorsa. Non mi abituerò mai agli uomini adulti che supplicano e implorano…»
«Ci si abitua a qualsiasi cosa, credimi. Te lo dice uno che ha visto di tutto: disperazione, dolore, rabbia e avvilimento. Per fortuna sono uscito da mia mamma provvisto di armatura. Queste cose non mi scalfiscono.» Mimò con l’indice dei proiettili che gli rimbalzavano contro il torace. «Pling, pling!»
«Dio mio.» L’immagine di Børge neonato in armatura fece rabbrividire Lise.
«Ma è vero, la capacità di non lasciarsi condizionare dalla merda degli altri è innata. E tu quella capacità ce l’hai, Lise. Sei gelida. Ed è per questo che ti ho assunta.»
«Senz’anima e gelida. Vorrà dire che mi scalderò all’inferno, insieme agli avvocati.»
Børge rise. «Se non altro ci andrai viaggiando in prima classe. Come procede la ricerca dell’appartamento, a proposito?»
«Ho trovato quello perfetto. Duecento metri quadri e terrazza sul tetto con tanto di Jacuzzi. È una reggia, ma tu non mi paghi abbastanza.»
«Quando diventerai socia potrai…»
Børge non fece in tempo a completare la frase che un giovane uomo comparve sulla porta.
«Lise, c’è un pagliaccio che ti aspetta giù alla reception.»
Lise guardò incredula Børge e poi di nuovo l’uomo. Il demone del Finnmark si scosse di nuovo dentro di lei rendendo il suo accento ballerino. «Ascolta, va bene che in ufficio usiamo sempre un tono un po’ rude, ma non puoi chiamare i visitatori pagliacci. È una questione di rispetto per…»
«No, è un pagliaccio vero.» Il giovane andò da Lise e le porse un biglietto da visita. Lo sfondo era arancione e, sopra un numero di telefono circondato da palloncini colorati e grossi scarponi, c’era scritto: FILLIP DARIO – CLOWN.
Lise assottigliò gli occhi per la confusione e guardò Børge. «Cazzo, Børge, non sono dell’umore adatto.»
Lui rispose con uno sguardo incerto.
«Avanti, togliti quella faccia da “non so di cosa stai parlando”. L’hai mandato tu il clown, vero? Per tirarmi su di morale dopo il tizio degli scatoloni.»
«Un massaggiatore, forse: quello avrei potuto mandartelo. O uno spogliarellista, come quando hai concluso quel contratto a maggio. Ma un clown? Non è nel mio stile, Lise.» Guardò il giovane. «A meno che non sia un clown spogliarellista?»
L’altro alzò le spalle. «È ancora tutto vestito. Però non da clown.»
Lise li guardò entrambi, fece per dire qualcosa, poi invece si alzò, uscì dalla sala riunioni e passò oltre il collega più giovane, scuotendo la testa.
Lo specchio che rivestiva una parete dell’ascensore era stato ammaccato da un carrello diversi mesi prima. Lise si specchiò esattamente in quel punto. Quando si scostò, la sua vita si allargò e sopra il bordo dei pantaloni neri la camicetta bianca parve la glassa di un muffin. Era il risultato di tutta una serie di piaceri peccaminosi che si concedeva, la maggior parte dei quali prevedeva del cioccolato in una delle sue varianti. La considerava una ricompensa dopo le lunghe e dure giornate di lavoro che spesso diventavano serate. Contemplò il proprio riflesso e premette l’indice nel muffin. Per Natale Børge le aveva regalato l’iscrizione in palestra, dicendo che la salute era importante per poter svolgere un buon lavoro. Non tanto per mantenersi sani, quanto per accaparrarsi clienti. «Non ci si può fidare delle persone grasse, Lise» le aveva detto. «Come puoi far credere ai clienti che ti puoi prendere cura di loro quando non riesci a prenderti cura nemmeno di te stesso?»
Ma lei odiava l’esercizio fisico. Così, invece di allenarsi, indossava vestiti abbastanza ampi da nascondere la pancia. La faceva franca grazie al viso stretto, con gli zigomi marcati sotto la frangia biondo scuro: per quanto cioccolato mangiasse, restava sempre uguale. Una volta sua nonna aveva sostenuto che tutte le donne della famiglia erano così. «Te lo dico io, Lise. Nella nostra famiglia non ingrassiamo in faccia.» Oltre al viso, Lise aveva ereditato dalla nonna anche gli occhi. D’un grigio talmente chiaro da riuscire quasi a vederci attraverso.
L’idea che aveva Lise di come dovevano essere i clown senza costume era quella diffusa tra i più: alti, grassocci, depressi e alcolizzati, con una barba di tre giorni e la pelata lucida di sudore. Se l’era fatta sulla base di personaggi di film e serie TV. Aveva visto dei pagliacci anche nella realtà, al circo, da bambina, ma sempre in costume, e comunque non le erano mai piaciuti. Mentre sua sorella quasi rotolava giù dalle dure panche di legno per il gran ridere, a lei il gesticolare esagerato, le parrucche e le scarpe troppo grandi mettevano i brividi, spingendola a sperare che venisse presto il turno degli acrobati.
Quando le porte dell’ascensore si aprirono sull’atrio, però, non c’era nessuno. Nessun clown in borghese, grassoccio e con la pelata lustra. Allungò la mano per premere di nuovo il pulsante, quando dalle ampie finestre scorse qualcuno fuori, sul marciapiede.
Un uomo sulla trentina dai ricci neri lunghi fino alle spalle stava porgendo un biglietto da duecento corone a un uomo più giovane. La curiosità spinse Lise a uscire dall’ascensore.
Il ragazzo indossava soltanto una camicia di flanella sporca e stracciata. Le cicatrici e i solchi sulla fronte lo facevano apparire più vecchio di quanto non fosse. Con movimenti pesanti fece per prendere la banconota, ma barcollò un po’ e l’uomo sui trent’anni lo sostenne con una mano sulla spalla. Gli occhi del giovane erano annebbiati dalla droga. Chiaramente commosso, allungò la mano e ringraziò. L’altro gli diede una pacca sulla spalla e sembrò scusarsi, poi andò verso la porta.
Entrò e si guardò intorno. Gli occhi erano castano scuro, quasi neri, gli zigomi marcati e perfettamente simmetrici, il mento pronunciato. Quando scorse Lise, un sorriso amichevole gli illuminò il viso dai tratti virili.
«Lise? Lise Gundersen?»
«Sì. E lei è… il clown?»
«Sono Fillip Dario. Figlio del grande Gino Dario, discendente di una lunga stirpe di clown che risale a centinaia di anni fa. Una grande e fiera famiglia di clown.»
Nella mente di Lise si formò l’immagine di una famiglia di pagliacci che la fece sorridere. Papà clown a cui casca il naso finto sul giornale mentre si appisola sulla poltrona dopo una lunga giornata nel tendone, mamma clown in cucina che incespica nelle grosse scarpe facendo cadere per terra il polpettone, i piccoli clown, seduti a tavola a fare i compiti, che si spruzzano a vicenda l’acqua sui quaderni dai fiori all’occhiello. Cacciò via l’immagine dalla sua testa. «Qui nessuno ha chiamato un clown, dev’esserci stato un malinteso.»
«Chiamato? Che cosa intende? Io non sono uno di quei clown.»
Lise lo osservò per qualche secondo. «Ha dato duecento corone a quel tipo là fuori?»
«Sì.» Fillip alzò le spalle come se fosse la cosa ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La vita è un circo
  4. 1
  5. 2
  6. 3
  7. 4
  8. 5
  9. 6
  10. 7
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  51. 48
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  53. 50
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  60. 57
  61. 58
  62. 59
  63. 60
  64. 61
  65. 62
  66. 63
  67. 64
  68. 65
  69. 66
  70. 67
  71. 68
  72. 69
  73. 70
  74. 71
  75. 72
  76. 73
  77. 74
  78. 75
  79. 76
  80. Ringraziamenti
  81. Copyright