«Sei un genio, Dani, questa le batte tutte!»
Così ha detto Javier, subito dopo aver visto il pugno mancarmi per una manciata di centimetri.
Un attimo più tardi ho iniziato a correre.
Eccomi qui, mentre il mio riflesso smilzo saetta nelle vetrine dei negozi affacciati sulla rambla. In fuga da un energumeno grosso il doppio di me, fisico da body builder e polpacci scolpiti (e se non ho visto male porta pure dei pantaloncini con la cintura di Gucci… inguardabile!). Sì, lo so, sono un idiota. Non per la fuga, quello è istinto di sopravvivenza. Mi riferisco alla situazione, a come ci sono finito dentro. Sto scappando dalla versione umana e barbuta di una statua di Michelangelo perché ho appena baciato la sua ragazza in un locale nel centro di Barcellona. Senza il suo permesso, ovvio.
«Cabrón!» grida con voce roca alle mie spalle, sempre più vicino.
Pensare che oggi a pranzo assaporavo una buona paella fatta in casa e invece ora, se non lo semino, mi toccherà il sapore metallico del sangue.
Perché mi sono cacciato in un guaio simile, vi chiederete? Semplice: ho accettato l’ennesima sfida del DANI’S CORNER. Questa volta si trattava di “tentare un approccio in un pub con una ragazza non single”. Questa volta, lo ammetto, potevo anche lasciar perdere. Solo che oggi non è un giorno come gli altri. Alle conseguenze penserò dopo. In ospedale, forse.
A proposito, Dani sono io. Sta per Daniele. Sono nato a Rho, la ridente località fuori Milano diventata famosa per l’Expo. Mi prendono tutti per maggiorenne, forse perché sono alto un metro e ottantacinque, ma compio diciassette anni proprio oggi. Il Corner è il mio blog online. Aperto in una mattinata di noia di fine agosto, con il seguente sottotitolo: Manuale di sopravvivenza per i reduci del primo amore. Una bomba esplosa tra le mie mani senza alcun preavviso. Già, perché io credevo che non se lo sarebbe filato nessuno (in fondo era giusto uno sfogo) ma da un giorno all’altro mi ha trasformato in una specie di influencer.
In poche parole: ero venuto a Barcellona per fare il quarto anno di liceo lontano da casa, per levarmi di torno, per dimenticare Marta. Non sta andando esattamente come pensavo, questo Erasmus.
Ora mi chiedo cosa ci faccio qui. Perché ho deciso di partire. Cosa volevo ottenere.
Il nastro dei ricordi si riavvolge in fretta e torna all’estate scorsa.
Quando tutto ha avuto inizio.
M’ama, non m’ama. M’ama, non m’ama. M’ama, non m’ama.
E alla fine è uscito M’ama.
«Davvero?» ha chiesto lei, con le gote infuocate e le pupille giganti da cartone animato giapponese. «Quindi da oggi siamo…»
«Non si scherza col destino» l’ho interrotta, e guai a chi mi accusa di plagio di massime tipiche dei foglietti da involucro dei cioccolatini.
Ci siamo messi assieme così, a dodici anni, perché è così che ci si mette assieme a dodici anni. Abbiamo affidato il nostro futuro a un fiorellino del parco Lambro che aveva scelto lei e oggi (a quasi quattro anni di distanza) scommetterei il mio portafogli mezzo vuoto sul broglio floreale. L’ha sradicato lei da terra, dopo attenta selezione. In ginocchio sull’erba, le spalle rivolte al sottoscritto, ha contato i petali, ne sono certo. Poi me l’ha messo tra le mani e ha lasciato che fossi io l’annunciatore della lotteria. Tanto, avrà pensato, si comincia sempre con M’ama. Sapeva già il risultato, insomma.
Marta mi ha fregato. Mi ha fregato allora e mi ha fregato alla fine dell’ultima estate. Marta è uno dei motivi per cui mi trovo a Barcellona.
Ma preferisco iniziare da quello meno sentimentale.
Alcuni mesi fa, nel salotto di casa.
«E invece ci vai.»
«E invece no.»
«Non crederai di passare tutta l’estate al mare? Devi anche pensare al tuo futuro.»
«Mamma, ho appena finito la terza liceo. Di che futuro parli?»
«Quelli che ragionano come te li conosco. Sai quanti ne abbiamo visti, io e tuo padre? Finiscono sempre alla cassa di un supermercato.»
«Be’? Anche se fosse?»
«Oh, santa Maria.»
«Madre di Dio…»
«Mi prendi in giro, Daniele?»
«Ma no, è che lo zio mi offre di passare due mesi al mare in Puglia e voi volete che io ne sprechi uno per stare in quel covo di milanesi imbruttiti in centro. Ti sembra?»
«Mi sembra, sì. Mi sembra il momento che tu faccia un’esperienza lavorativa e questa è l’estate giusta. Perché se poi tu decidessi di non iscriverti all’università…»
«Ancora.»
«Sì, ancora.»
«Ma’, tu sapevi che avresti fatto l’università già dall’asilo nido. Io ci penserò quando sarà il momento. Stai tranquilla. Che pare ti fai?»
«Eh?»
«Che. Paranoie. Ti fai. Mandatemi dallo zio in Puglia e l’anno prossimo, prima della quinta, prometto che mi faccio tutto luglio nell’ufficio del papi. Ci stai? Dai, su. Ci stai, vero?»
Non c’è stata. E neanche mio padre, quella sera. Appena entrato in casa ha esordito entusiasta con: «Giulia e Gabriella non vedono l’ora di conoscerti!», perché ovviamente era già tutto pianificato e G&G, le sue segretarie, erano state preparate a dovere. Mi sono messo le mani nei capelli, castani, scompigliati come sempre. Insomma, il seicentesimo diverbio tra me e mia madre serviva solo per alimentare il teatrino casalingo e farle bruciare calorie, visto che ha smesso di andare in palestra. In realtà avevo zero chance di passare due interi mesi da mio zio. E alla fine non ne ho trascorso neanche mezzo, tra poco vi spiego perché. E dire che me lo meritavo, dal mio punto di vista, dato che non ero stato bocciato e avevo infilato una media quasi decorosa. E invece.
Delle tre settimane e mezzo alla Vergani & Lucci Pharmaceutical Services ricordiamo con gioia:
- 1) I primi otto giorni di data-entry “come se non ci fosse un domani” (brillante battuta di Gabriella, una delle due segretarie), durante i quali credo di aver inserito nel nuovo database qualcosa come dieci milioni tra nomi, codici alfanumerici, marchi, quantità, prezzi. Tutti farmaci o prodotti del genere, per la cronaca.
- 2) I secondi otto giorni da schiavo, quando mio padre (proprio lui!) ha avuto la geniale idea di farmi sgomberare il solaio, dalla temperatura degna di un girone infernale e invaso da un numero imprecisato di raccoglitori zeppi fino all’orlo. Il più vecchio era datato 1890 e mi sono chiesto, tra uno starnuto e l’altro per via della polvere: “Ma sul serio? Che diavolo hanno archiviato in quei faldoni? I rimedi per la peste?”. Inutile dire che non ne ho aperto neanche uno. Li ho solo spostati. Spolverati. Accatastati. Sistemati in un ufficio apposito. Che spasso.
- 3) Gli ultimi nove giorni da jolly, nei quali penso di aver svolto almeno venti funzioni diverse in quell’ufficio. Tra le più pittoresche: (tentare di) aggiustare la fotocopiatrice guasta (no, non mi sono stati d’aiuto i trascorsi da piccolo fan di Bob aggiustatutto); creare, stampare e ritagliare trecento inviti per un ricevimento aziendale; fare il baby-sitter per Giulia (l’altra segretaria) perché ti prego, Dani, non so come fare con la bambina, la tata ha avuto un contrattempo… solo un’oretta, giuro, ti farò un regalo; servire caffè della macchinetta ai dipendenti, a volte accompagnato da un biscottino, e poi passare a ritirare i bicchierini vuoti per far infine sparire eventuali briciole, neanche fossi un cameriere; sorbirmi le continue risse verbali tra la responsabile dell’amministrazione e Diego Lucci, il socio di mio padre (anche questo è un lavoro, credetemi, specie se intanto stai inserendo dati al computer e non puoi permetterti di sbagliare una virgola); preparare pacchi e, un giorno sì e uno pure, scendere giù in posta a spedirli (utilizzare i corrieri evidentemente affossa i bilanci della società). E tutto questo dall’alto dei miei quasi diciassette anni. Probabilmente, a pensarci bene, ci sono gli estremi per una denuncia per sfruttamento minorile.
Al venticinquesimo e ultimo giorno, prima del congedo, risuonava nella mia testa uno dei brani di lirica preferiti da mia nonna, quello che dice: «Sono il factotum della città». Per certi versi mi sono anche divertito, lo ammetto. Sembrava una specie di reality show, con una prova diversa al giorno. Ma una cosa è certa: l’esperienza mi ha fatto capire una volta per tutte che no, quello non è il mio lavoro. Non lo è ora e non lo sarà mai. Piuttosto faccio funzionare il cervello (gli insegnanti dicono che, quando lo uso, non lavora poi così male) e tra due anni vado davvero all’università. Me la posso anche pagare da solo con qualche turno serale al pub sotto casa. Tanto ho fatto pratica con la macchinetta dell’ufficio.
Ah, io rido, ma mia madre non l’ha presa affatto bene. Per un attimo ha perfino cercato di congelarmi la paga di quelle tre settimane di sbattimenti, al che prima ho mosso a compassione il mio vecchio, poi ho difeso i miei diritti alla maniera di un manifestante in piazza, salvando così il bottino. Seicentoventi euro. Utili. Non sapevo ancora per che cosa, ma si sarebbero rivelati molto utili.
Comunque abbiamo litigato, perché il copione è sempre quello e bisogna rispettarlo. Ricordate? Le calorie.
«L’anno prossimo ci passi tutta l’estate» è stato il colpo da maestro di mia madre, al culmine dell’ira, dopo venti minuti di ping pong.
«Credici» ho risposto io, stremato, per poi abbandonare la partita e rinchiudermi in camera mia.
E lì devo ringraziare gli Imagine Dragons, perché in certi momenti se non c’è della buona musica rischi di fare qualcosa di cui poi ti pentirai. Invece, stranamente, mi sono sdraiato sul letto sotto al poster di Pep Guardiola con la Champions 2008/09 tra le mani, ho acceso lo stereo e ho trovato la pace. Del resto mi aspettava un agosto di spiagge e chupiti da mio zio, che gestisce un lido nel Salento e ogni anno pressa, invano, i miei perché io pianti le tende da lui da metà giugno a inizio settembre. Inutile farsi il sangue amaro. La mamma, prima o poi, si sarebbe arresa. Dopo venticinque giorni di tortura, l’unico mio pensiero doveva essere, finalmente, il mare.
Invece su WhatsApp è arrivato il messaggio di Marta. Così, dal niente. Ed è cambiato tutto.