Fino all’età di undici anni, le ossa di Nina non avevano mai crocchiato. Sguardo cocciuto, ironico, sempre sul filo della provocazione e di indole un po’ aggressiva, soprattutto quando si trattava di primeggiare tra coetanei. In generale, alla compagnia delle femmine preferiva l’eterna lotta dei maschietti con spade ricavate da rami secchi, pistole a gommini e sassaiole. Non disdegnava fare a botte né dar fuoco alle lucertole.
Il fatto di avere la zazzera rossa e le lentiggini contribuì alla sua fama di Demonietto, così la chiamavano i vicini in modo bonario, mentre i suoi genitori attribuivano la causa di tanta vivacità al fatto di essere figlia unica.
Suo padre Vincenzo era un costruttore specializzato in ristrutturazioni di vecchi immobili, che una decina di anni prima aveva sposato Letizia, la ragazza con il maggior numero di ricci biondi che avesse mai incontrato, ma con un pedigree oggetto di continui pettegolezzi tra gli operai della ditta. Proveniva dalla più nota famiglia di contrabbandieri del porto, finita in disgrazia da quando le sigarette avevano smesso di essere un affare redditizio. Da quell’unione, mai benedetta dai genitori di Vincenzo, era nato il Demonietto, la bambina dalla pelle più chiara dell’intero reparto di Ostetricia al Fatebenefratelli di via Manzoni.
Nina trascorse un’infanzia felice, in linea con la media delle altre infanzie felici, nel quartiere collinare dove Vincenzo aveva convinto Letizia a trasferirsi, luogo prediletto da tutti i brillanti professionisti e piccoli imprenditori della città che avevano sposato la loro prima fidanzata, in genere una maestra elementare o una segretaria. Letizia non era né l’una né l’altra.
Viveva chiusa in casa, occupandosi il minimo indispensabile delle faccende domestiche e fumando due pacchetti al giorno di lunghe e sottili sigarette da chanteuse. Quando Vincenzo non c’era – cioè quasi sempre – Letizia si intratteneva per ore al telefono con Anna, la sorella maggiore, a cui raccontava ogni dettaglio delle sue giornate noiose e senza scopo.
Poco dopo il parto, i dottori le comunicarono che le sue tube erano ostruite in modo irreparabile, solo un miracolo le avrebbe permesso di restare ancora incinta. Ben presto la bambina dai capelli rossi finì per assumere le sembianze di una ferita sigillata sul futuro, così Letizia si ritrovò in quello spazioso appartamento vista mare al Vomero, con un marito disposto a tutto pur di tenerla lontana dalla sua famiglia, senza un lavoro, senza la possibilità di figliare, con l’obbligo di occuparsi della Cicatrice, dei suoi pasti, dei suoi compiti a scuola e delle sue unghie sporche.
Non impiegò molto tempo per capire che non riusciva ad amare una ferita, ma per i primi anni si impegnò affinché quel disamore non diventasse di dominio pubblico, tirando avanti nel suo ruolo con discreta serenità, almeno fino a quando Nina non divenne «signorina».
Accadde in seconda media, durante le prove per la recita di fine anno. Un compagnuccio con l’apparecchio ai denti le fece notare che il suo grembiule grondava sangue sul didietro. Sulle prime Nina non capì, pensò a uno scherzo, per fortuna la professoressa di Inglese se ne accorse prima che i duecento ragazzini assiepati nel teatro scolastico la additassero.
Da quel giorno il suo corpo iniziò a cambiare. Il naso all’insù e le lentiggini che lo ricoprivano da primavera a Natale rimasero uguali, ma i capelli diventarono più scuri, le sbocciarono i seni, una leggera peluria bionda si manifestò sugli avambracci e nell’interno cosce, e soprattutto la colonna vertebrale iniziò a curvarsi verso destra. Una deviazione che Nina non vedeva e che sentiva scorrere dentro di sé come i tubi che gli operai di suo padre nascondevano nelle pareti degli appartamenti da ristrutturare.
Scoliosi idiopatica le diagnosticò il medico di famiglia, nulla che una costante ginnastica correttiva e i consigli di uno specialista non sarebbero riusciti a curare, eppure l’ortopedico non fu dello stesso avviso: busto fisso, sentenziò dopo aver esaminato le lastre, o intervento chirurgico per rimettere a posto la schiena. «Che peccato» aggiunse sistemandosi la montatura a goccia sul naso.
Quella sera, rientrando a casa in macchina, i suoi genitori ebbero una discussione: «Farà l’intervento» disse suo padre.
«Meglio il busto» ribatté sua madre. «Hai sentito cosa ha detto il dottore? Con l’intervento rischia di perdere una parte della motilità. Potrebbe non essere più in grado di allacciarsi le scarpe.»
«Sempre meglio che portare il busto a vita!» Vincenzo scrutò Nina nello specchietto retrovisore. «In ogni caso, sentiremo il parere di un altro specialista. Quel tizio non è credibile» continuò. «Ha il parrucchino.»
Nina scoppiò a ridere.
«Bisognerà andare in Francia. È un intervento costoso.»
«Allora andremo in Francia.»
Letizia scosse il capo – i suoi ricci trasmettevano elettricità – e alla fine sbottò: «Intervento o non intervento, per il prossimo anno dovrà portare il busto».
Nessuno chiese a Nina cosa avrebbe voluto lei, d’altronde non avrebbe saputo cosa rispondere.
Mise il busto, o meglio, glielo costruirono attorno. Gesso, acqua, scalpello. Per i primi tempi si sentì soffocare, pianse notte e giorno, ma bastarono poche settimane affinché quel dolore si rapprendesse in qualcosa di comodo. Il gesso diventò una corteccia da ricoprire con abiti scuri e larghi. Anche se le impediva di vivere come tutte le altre ragazzine, in quel nuovo mondo Nina si sentiva protetta, invisibile, un po’ come andare in giro mascherata. Grazie ai rigidi steccati del suo guscio, la schiena le sarebbe cresciuta dritta, quindi era un mondo buono, un po’ noioso, ma buono. Bisognava aspettare.
Un sabato mattina, come sempre quando non aveva scuola, suo padre le chiese di accompagnarlo in cantiere: «Sei pronta, Demonietto?».
Finirono nella zona del porto. La ditta di Vincenzo stava ristrutturando una palazzina nel dedalo di vicoli umidi e crostosi in cui viveva la famiglia di Letizia. Nina riconobbe la strada dall’odore del mare che poco alla volta diventava sempre più insistente. Dopo la morte del vecchio capofamiglia, zia Anna era rimasta da sola con l’unico figlio superstite. Abitavano in una misera catapecchia sulla Marina, o almeno questo aveva sentito dire Nina una sera, origliando alla porta della camera da letto dei suoi.
Anna non era sposata e trascorreva le giornate dividendosi tra il bingo e ciò che le restava del parto gemellare avuto a sedici anni, nove mesi dopo aver accettato di entrare in un container vuoto con uno scaricatore di porto che poi se n’era scappato in Spagna. Al contrario della sorella Letizia, il cui aspetto era timido, nervoso, volgare in modo quasi anonimo, Anna era vistosa, aggressiva, forte come un animale selvatico. Non a caso tutti la chiamavano «la Leonessa».
Dalla leucemia di Ciro in poi si era sforzata di investire ogni grammo della sua vita sentimentale sull’altro gemello, Manuel, un teppista che aveva abbandonato la scuola dopo l’ennesima bocciatura alle medie. Durante le infinite conversazioni telefoniche con la sorella minore, Anna non faceva che magnificare suo figlio, o parti di suo figlio, come i capelli, che definiva un miracolo della natura. Nessuno aveva una chioma luminosa quanto la sua, ripeteva, chissà se a Ciro in Paradiso erano cresciuti uguali al fratello.
Quel sabato mattina, mentre Vincenzo guidava in direzione del cantiere e il sapore del sale portato dal vento le si posava sulle labbra, Nina intravide Manuel a un semaforo, dietro un baldacchino di legno con sopra attaccate le immagini di sigarette delle più disparate marche. Capì che si trattava del Gemello, perché era identico al santino di Ciro che sua madre teneva sulla credenza della cucina. Aveva proprio dei bei capelli, pensò, morbidi come zucchero filato.
Intanto i dolori alla schiena la fiaccavano. Col tacito assenso dei genitori, Nina aveva iniziato a isolarsi, a uscire sempre meno, d’altro canto col busto non poteva più correre per strada con gli amici come un tempo, né prendere parte ai loro giochi. In presenza di estranei amplificava il suo lato da maschiaccio, sviluppò la battuta mordace come arma di difesa contro lo sfottò. «Robocop», «Quasimodo», la «Scartellata», così la chiamavano quando, al suo passaggio, si sentiva un crocchiare d’ossa. Poco alla volta il Demonietto si trasformò in un mansueto angelo della casa e in un’instancabile lettrice. Lesse d’un fiato I viaggi di Gulliver – che le piacquero – a cui seguirono due storie molto deprimenti, Michele Strogoff e Le mie prigioni, ma se la prima era almeno un po’ avventurosa la seconda si rivelò deprimente e basta.
In genere gli adulti avevano un piano, ti suggerivano di impegnarti nello studio, di farti nuovi amici, di mangiare più verdura. Invece a lei nessuno diceva mai nulla. Il suo corpo viveva nella prigione del gesso e il gesso viveva nella prigione della sua cameretta. Letizia se ne disinteressava, Vincenzo lavorava sempre. Nina si convinse che, mentre lei era a scuola, sua madre ne approfittasse per fare visita alla sorella e al nipote giù al porto.
Ogni tanto, quando il suo corpo cambiava – e in quel periodo cambiava velocemente – bisognava tornare dall’ortopedico e costruirle un altro busto, più adatto a contenere la crescita. Era necessario distruggere il precedente, poi realizzare il nuovo. In mezzo, c’erano le radiografie per la cartella clinica e l’insopportabile «doccetta» che le pungeva la pelle disabituata al contatto, mentre il suo carceriere impastava il successivo abito di gesso.
A quanto sembrava, però, il busto non riusciva a opporsi alla curvatura della schiena. Una volta, per una ragione che non seppe spiegarsi, l’ortopedico la spedì a casa senza quello nuovo. Passarono diversi giorni. In quel lasso di tempo, il suo senso di inadeguatezza crebbe a dismisura, s’inventò la febbre per non uscire di casa. Vincenzo e Letizia non si opposero. In realtà, non voleva che Mimmo – un ragazzino di terza con gli occhi azzurri e una cascata di fili d’angelo biondi per cui s’era presa una cotta – la vedesse senza protezione. Intrappolata nella cameretta, mentre aspettava la chiamata dell’ortopedico, si osservava nuda allo specchio: la sua colonna vertebrale tendeva all’infinito. Il guaio era che lei le andava dietro.
Un giorno, sul finire dell’anno scolastico – aveva da poco compiuto tredici anni – Mimmo si avvicinò e le disse che l’avrebbe sposata, se fosse diventata normale come tutte le altre.
«Voglio fare l’intervento» disse qualche ora dopo a casa, mentre Letizia guardava La vita in diretta.
«Vedremo» rispose sua madre, afferrando l’accendino senza voltarsi. Nina osservò la sfilza di caratteri cirillici sul pacchetto: da quando in tabaccheria si trovavano quelle strane sigarette?
Quella sera il Demonietto restò in camera. Caricò la playlist e iniziò a leggere Il giovane Holden. Avrebbe aspettato la notte per mettersi a piangere.
«Tua madre ha detto che non hai fame.» Vincenzo aveva aperto la porta della camera e la stava osservando dalla soglia, le punte delle scarpe infangate. Nina fece spallucce.
«Che cosa stai leggendo?»
La ragazza gli mostrò la copertina.
Suo padre mormorò il titolo. «Ti sta piacendo?»
Nina annuì.
«Di cosa parla?»
«Di un ragazzo.»
Suo padre si avvicinò. Là dentro si muoveva con circospezione, come se temesse di sporcare o calpestare una parte invisibile di lei finita per caso sul pavimento.
«Solo di un ragazzo?» le chiese.
Nina attese prima di rispondere. «E di suo fratello» disse.
Vincenzo s’incupì. Anche se il mondo, così come le storie, era pieno di fratelli, Nina sapeva che lui ci restava sempre male. Probabilmente stava ripensando alle tube danneggiate di Letizia, alla sfortuna che si era portato in casa sposando quella donna appartenente a una stirpe maledetta, pensava ai figli che non avrebbe mai avuto e pensava, infine, alla bara di gesso in cui sua figlia stava crescendo. Anche lei, in fondo, era un ramo storto della stessa famiglia.
Quella notte, sognò di fare l’amore con Mimmo. Non indossava il busto, si muoveva flessuosa attorno alle sue gambe. Dopo aver perso la verginità, mentre il ragazzo dormiva, si guardò allo specchio. La curva della schiena tendeva al solito verso destra, creando una piccola gobba sul dorso, poi vide qualcosa gonfiarsi sottopelle, come se dentro le si agitasse un serpente, e di colpo quella cosa le strappò gli organi, i tessuti, la pelle e dal petto uscì un osso, come il femore rotto di una vecchia. Nina osservò quel traliccio spesso e giallastro uscirle dal cuore e allungarsi nello spe...