Il principe
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Il principe

  1. 216 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il principe

Informazioni su questo libro

Antonio è tormentato, teme la cattiva sorte,
per quattro anni ha condotto
una vita da malato con l'incubo
di morire da un momento all'altro.
È cresciuto insicuro, con dentro
una rabbia da sollevarci il mondo. Junior Cally non dubita, sa che ce la farà. Antonio soffre il giudizio della gente
del suo piccolo paese, Focene,
che lo emargina, lo disprezza,
lo considera un fallito.
Junior Cally, pur essendo ingabbiato
dietro la maschera, è libero.
Antonio ha paura dei mostri
che ha dentro di sé. Junior Cally è lucido. Ha superpoteri
naturali. Non beve e non fuma. Non
ha sentimenti, né emozioni, non ama.
È un cyborg punk, perfetto e quindi
spaventoso. Antonio è il creatore, Junior Cally un'opera
che prende vita, un demone che diventa
forte e spezza le catene di entrambi.
Fino al ricongiungimento finale,
da due uno, la maschera che cade. Il principe è un viaggio onirico, dolce e agghiacciante, nel quale ogni cosa conosce il suo contrario, nel quale due voci si alternano, si combattono, si fondono. Un viaggio per parole, illustrazioni e musica, nell'immaginario umano e artistico di un ragazzo che aveva solo la polvere ed è andato a prendersi il cielo.

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CAPITOLO 1

MORTOVIVO

ANTONIO

Sono nato a 18 anni, quando mi dissero che non sarei morto.
Da quattro anni convivevo con una presunta malattia mortale.
Tutto cominciò da una macchiolina bianca che avevo sul viso e si ingrandiva. Mia madre si preoccupò e decise di portarmi a fare dei controlli. Il medico le consigliò di farmi fare gli esami del sangue per capire se ci fosse qualche carenza vitaminica. Saltò fuori che avevo un valore bassissimo delle piastrine.
Non sapevo di cosa stessero parlando, non sapevo che cazzo fossero le piastrine e perché da quel giorno non potei più giocare a calcio, e la mia vita prese il tempo dei prelievi, delle visite e delle interminabili attese in ospedale.
Di colpo tutto cambiò. Aleggiava lo spauracchio della leucemia.
Quando venne fuori questa parola, apriti cielo!, ebbe inizio l’incubo. Che durò anni perché per molto tempo non ci fu modo di capire quale fosse la causa. Finii in un reparto di oncologia dove c’erano bambini di otto-dieci anni senza capelli, ormai allo stadio terminale. Passai in corsia l’adolescenza. La notte sognavo quei ragazzini malati con le madri al loro capezzale. Sguardi inconsapevoli che si chiudevano e non rivedevo più la volta dopo. Divenni ognuno di loro. Mi assentavo e morivo. Mi rivedevo da qualche parte ma non sapevo chi fossi, cosa volessi essere. Non mi concedevo fantasie sul futuro. Non vedevo niente. Non riflettevo il mio carattere, l’immaginazione era un nemico da combattere. Chiudevo gli occhi e vedevo buio. Vivevo senza domani, senza morire mai.
Seguirono i controlli sul DNA, per le malattie autoimmuni.
Due volte la settimana andavo in ospedale, nel reparto ematologia, un girone infernale di bambini malati. Soffrivo.
Mia madre recentemente, ricordando quei momenti, mi ha detto che non facevo che chiederle: «Mamma, se dovessi morire, tu me lo diresti?».
Ho convissuto con l’incubo della malattia e della morte, anche se ogni tanto mi concedevo di pensare che se fossi stato davvero malato probabilmente sarei già dovuto essere morto. Mi ci vollero altri due anni per uscirne sano e salvo, se così si può dire.
Accadde un giorno quando un medico disse a mia madre: «Signora, non posso affermarlo con certezza ma questa carenza di piastrine credo dipenda dal vaccino trivalente fatto all’età di 12 anni». Avere le piastrine basse comporta il rischio di emorragie interne improvvise. Anche una banale ferita può rappresentare un problema.
I miei genitori che erano stati molto apprensivi per tutto quel tempo realizzarono che non potevano tenermi sotto una campana di vetro, che dovevano lasciarmi vivere e mi affidarono alla sorte, che per me ormai era diventata malasorte.
Dovetti dare io un nome alla mia malattia mortale: la chiamai Dubbio.
E da quella non sarei mai guarito. È la malattia che ti fa sentire Mortovivo, è quando il tempo si arresta, quando la linea del tempo si spezza, si apre e tu precipiti in un limbo dove niente cambia mai, tutto esiste per sempre, sempre nello stesso modo e lì ti plachi perché tutto è perfettamente sotto controllo, niente è fuori posto, a un’azione sai che corrisponderà quella reazione. Per verificare basta contare: uno, due, tre, quattro e poi da capo e ancora e vedrai che non succederà mai niente, tutto resterà sempre uguale. Anche tu. E ricaccerai indietro la paura che arriva per farti sentire l’ebbrezza della vita e l’illusione di un cambiamento, il sapere di sé che ti sconvolge, che stravolge il punto di vista. E tu impazzisci e vorresti infilarti in qualcosa di molto stretto, che ti immobilizzi, non potendo sbarazzarti del corpo che è irregolare e imperfetto e si muove in tutte le direzioni e ti confonde suggerendoti la vita e il cambiamento.
L’esperienza della pseudomalattia mi ha reso insicuro. Ha lavorato a livello inconscio.
Sono sempre ossessionato dall’idea che possa succedere qualcosa di brutto. Mi difendo attuando dei rituali: fare una certa cosa per scongiurarne un’altra. Cose banali tipo spegnere la luce quattro volte prima di andare a letto, evitare i numeri dispari, piccoli gesti per sentirmi sicuro.
Associo questi riti propiziatori principalmente alla musica, che per me è la cosa più importante. Non faccio la tal cosa perché altrimenti la canzone andrà male.
Alla fine mi sono ritrovato col DOC, disturbo ossessivo compulsivo della personalità. Bene, l’ho presa con ironia. Gli altri mi danno del ritardato. Io ci rido su. Gli altri pensano che non combinerò mai nulla di buono. Io covo una rabbia incontenibile.
Credo che il malessere di mia madre in tutta questa vicenda abbia contribuito in qualche modo a rendermi insicuro, alla continua ricerca di conferme che per quanto arrivassero non mi lasciavano mai pienamente soddisfatto. «Sicuro che non morirò?» o «A che mi serve la scuola se devo morire?» Questo pensavo e dicevo. Smetto di occuparmi di me, mi lascio andare alla deriva inconsapevole. Era come se il mio Io si fosse frantumato in mille pezzi. C’era un caos totale dentro di me.
Tornavo a casa la sera e non sapevo più chi fossi, chi dovessi essere.
Mi sentivo diverso dagli altri. Forse un tempo ero come loro ma ora non più. Sono un insieme scomposto di parti difettose. Questo mi dicevo.
Anche a scuola non trovavo interlocutori. Gli insegnanti non avevano capito la mia situazione, minimizzarono il problema. Forse avrei avuto bisogno di uno psicologo, di qualcuno che provasse ad ascoltarmi, che mi aiutasse a superare quel momento. I miei genitori erano troppo coinvolti e non capirono, forse pensavano che la rimozione fosse la soluzione giusta, perché smisero di parlarne e basta.
Insomma, mentre morivo, quando smisi di sognare di fare il calciatore, quando dovetti rallentare per non farmi male, cominciai a rappare.
Così per divertirmi, per far ridere gli amici. Storpiavo le canzoni di Tiziano Ferro, poi cominciai a metterci roba mia. Ero fuori controllo, perché me ne stavo in giro tutto il giorno, avevo smesso di studiare, e quando finivo di aiutare mio padre nel suo lavoro che era pulire i vetri, me ne andavo a zonzo per Focene. Stavo sempre in giro in sala giochi, al lunapark, in spiaggia al baracchino con gli amici. La spiaggia gialla, le nuvole grigie, il cielo color cemento, il vento che fa oscillare gli ombrelloni chiusi. Un tipo di clima che mi corrisponde. Amo il mare di casa mia. Focene, un pezzo di bieca verità e natura sorvolato dagli aerei che scompaiono nel cielo o sulle spianate a perdita d’occhio di Fiumicino.
Ancora oggi quando vedo bambini malati sul serio mi sale un’ansia fortissima mista a rabbia e impotenza, torno a sentire il brivido e la confusione per quell’assurda attesa della morte, mi vedo passare, essere solo una comparsa in questa vita.
Ci sono ragazzi che si ammazzano deliberatamente con le droghe e bambini o ragazzini che nascono e muoiono senza nemmeno accorgersene. Non è una scelta questa. La vita va rispettata.
Una notte ero a letto, non riuscivo a dormire, la mia mente viaggiava velocissima snocciolando fotogrammi disordinati, ebbi una premonizione. Vidi per la prima volta Junior Cally, ma solo anni dopo seppi chi era.
Dormivo in un letto di ospedale, accanto a un bambino senza capelli che sembrava morto. Mi avevano aspirato il midollo e mi tennero lì una notte. Mia madre sedeva accanto a me, vedevo il suo volto lunare, un leggero bagliore intorno ai suoi lineamenti. Le lenzuola bianche, una luce debole e verdognola faceva sembrare ogni cosa un’allucinazione: i bordi dei mobiletti bianchi, gli stipiti delle finestre, le flebo penzolanti. Io aprivo e chiudevo gli occhi, mi assopivo e mi risvegliavo di soprassalto. Resistevo al sonno che per me significava morte, significava che non mi sarei risvegliato.
Poi, improvvisamente, vidi una figura nel letto accanto al mio, al posto del bambino senza capelli c’era una persona o un qualcosa di più grande. Teneva il lenzuolo tirato su fino in cima alla testa. Sembrava una grossa testa deforme. La vidi muoversi con difficoltà, poi si sollevò, di scatto. Quella cosa orribile mi fissò senza occhi, mi fissò senza volto. Mi entrò dentro con lo sguardo. Mi svegliai di soprassalto tremando. Quella cosa orribile, quell’idea penetrò così a fondo nella mia mente che provai subito a sostituirla cercando le cose reali che avevo intorno.

JUNIOR CALLY

Sono il padrone della tua fantasia. Sto solo cercando un amico. Qualcuno che mi somigli, che abbia una mente affine alla mia. Nasco dalla paura e dalla rabbia ma ne sono immune. Ho fantasie selvagge. Non morirò di malattia ma di morte violenta.
Antonio, ora mi guardi senza giudizio, certo, perché nessuno può giudicare chi non ha un volto. Posso dire quel che voglio, hai sentito che strano effetto hanno le parole se non sai da dove escono? Nessuno ha niente da dire di una voce fuori campo, dicesse anche le peggiori oscenità si perderebbero nel vento. Se le parole non hanno una faccia a cui attaccarsi, se non sono di nessuno diventano le tue, le sue, quelle di chiunque, non potranno dirti «sei stato tu!».
Tu mi hai evocato come un demone, un fantasma o una semplice idea di libertà. Vuoi uscire da quel letto, vuoi uscire con me dalla penombra, vuoi che ti dica che non morirai mentre ti tengo per mano e insieme saltiamo giù dalla finestra e ci mettiamo a correre nel labirinto della notte, dove la gente non sa quel che dice e dice il falso. Ma noi gliele cantiamo più forte, come in un videogame miriamo e li stordiamo con raffiche di parole, gli facciamo schizzare fuori il cervello a suon di verità.
Facciamo esplodere il più violento dei temporali, scateniamo una tempesta che gli abitanti di Focene non potranno raccontare ai loro nipoti perché gli chiuderemo la bocca.
Mi piace la pioggia, il rumore, la potenza, il disastro che può fare, il profumo che lascia quando è tutto finito.
Sono la tua idea più perversa, bambino: essere imperturbabile, non avere emozioni. Sarò la tua coscienza perfetta. Non ho dubbi. Ma anche la tua solitudine di alieno, l’assenza di relazioni, di amore, di tutto. Sono escluso dalla felicità. E non posso guardare in faccia nessuno. Un organo metallico è la mia dimora indistruttibile, una caverna di ghiaccio. Se vuoi essere temuto, non amato, posso fare quel che mi chiedi al posto tuo. Andiamo via di qui. Lascia tua madre piangere per niente. Noi non abbiamo una famiglia.
Stai pensando che sono una buona idea, ma non sai come realizzarmi. Sei atterrito dal pensiero di me. L’ho capito da come mi hai guardato, con ribrezzo e ammirazione. Ti ho spaventato. Non pensi che potrei fare anche agli altri lo stesso effetto? Dopo tutto sei tu che puoi aspirare alla bellezza, alla potenza, al successo perfezionandomi. Tu desideri solo vivere e essere te stesso senza preoccuparti delle conseguenze. Non esiste la cattiva sorte, non sei vittima di un maleficio.
Mi basta questa stanza solitaria al centro del tuo petto, entrerò e uscirò passando per quella rampa di scale dai gradini rotti. Sarà il mio laboratorio in cui lavorerò alla tua giovinezza, te la restituirò a poco a poco. Perché ora che ti guardo meglio sembri un vecchio, Cristo Santo, ma quanti anni hai?
Mentre mi fissi nel vuoto mi sembri più leggero di come ti ricordavo, sembri felice, la mia voce ti infonde sicurezza, ti calma. Lo sai perché? Perché quella che stai vedendo è la parte migliore di te: energia pura, scomposto e libero puoi muoverti nello spazio senza freni, privo di preoccupazioni e passioni. Hai già perso in me la tua identità.
Ora che siamo in due tu puoi continuare a fallire a vergognarti ma io no, io cammino a testa alta, sicuro e compiaciuto. E non vorrei discutere con te, quindi ti prego di andartene per la tua strada tutta curve, dubbi, vendette, pettegolezzi, maldicenze.
Non cambiare dai, stai lì fermo sulla tua isola a fare e dire le cose che piacciono alla gente. A cercare di piacere ad ogni costo, a portare il peso del tuo destino avverso. Arrogante! Guardati che smorfia hai fatto con la bocca e tira giù quel braccio! Sei pieno di rabbia e frustrazione, hai troppa voglia di vivere per stare chiuso in questo carcere di paese.
Me ne vado verso il mare, prendo la strada delle onde. Porterò il silenzio degli abissi dentro di te. Devi essere forte se vuoi venire via con me. Scappa!

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. IL PRINCIPE
  4. CAPITOLO 1. MORTOVIVO
  5. CAPITOLO 2. BARA 2727. PREFERIREI MORIRE!
  6. CAPITOLO 3. CHIODI
  7. CAPITOLO 4. SOCIO DEVE MORIRE
  8. CAPITOLO 5. LA MASCHERA
  9. CAPITOLO 6. IL PROGETTO JUNIOR CALLY
  10. CAPITOLO 7. LA STREGA
  11. CAPITOLO 8. IL TAROCCO: ANTIGAS GOD
  12. CAPITOLO 9. LA LEGGE DELL’ATTRAZIONE
  13. CAPITOLO 10. A ME STESSO
  14. IL PRINCIPE. (i ricongiunti)
  15. LA FINE
  16. APPENDICE
  17. Copyright