Sto pensando di finirla qui.
Una volta che arriva, il pensiero rimane. Si trattiene. Si mette comodo. Spadroneggia. Non è che possa farci granché. Credetemi. Non se ne va. È qui, che mi piaccia oppure no. È qui quando mangio. Quando vado a letto. Quando dormo. È qui quando mi sveglio. È sempre qui. Sempre.
Non è da molto che sto pensando questa cosa. L’idea è nuova. Ma allo stesso tempo mi sembra vecchia. Quand’è che mi è nata nella testa? E se questo pensiero non l’avessi concepito io, ma me l’avessero impiantato dentro, già pensato da qualcun altro? Può essere indotta un’idea che non è mai stata detta ad alta voce? Forse, in realtà , l’ho sempre saputo. Forse è sempre stato così che doveva andare a finire.
Jake una volta ha detto: «Un pensiero può essere più reale, più vero, di un’azione. Puoi dire qualunque cosa, fare qualunque cosa, ma non puoi fingere un pensiero».
Non puoi fingere un pensiero. È quello che sto pensando adesso.
Sono preoccupata. Davvero. Forse avrei dovuto saperlo che sarebbe finita così, per noi. Forse la fine era scritta già dall’inizio.
La strada è quasi del tutto deserta. C’è silenzio, intorno. E spazio vuoto a perdita d’occhio. Più di quanto mi aspettassi. C’è tanto da vedere ma non molte persone, né edifici o case. Solo cielo. Alberi. Campi. Staccionate. La strada e il suo ciglio ghiaioso.
«Vuoi che ci fermiamo per un caffè?»
«No, sono a posto» rispondo.
«Hai l’ultima possibilità prima che cominci la campagna vera.»
È la mia prima visita ai genitori di Jake. Cioè, lo sarà quando saremo arrivati da loro. Jake. Il mio ragazzo. Non stiamo insieme da molto. È la prima volta che facciamo una gita fuori città , il nostro primo viaggio lungo in macchina, perciò è strano che senta questa nostalgia – nostalgia della nostra storia, di lui, di noi. Dovrei essere emozionata, impaziente di fare questa nuova esperienza, la prima di tante. Ma non lo sono. Proprio per niente.
«No, no, niente caffè o spuntini per me» ripeto. «Voglio avere fame per la cena.»
«Non aspettarti chissà che banchetto. La mamma è stanca ultimamente.»
«Ma non le dispiacerà , vero? Che ci sono anch’io?»
«No, ne sarà felice. Ne è felice. I miei ti vogliono conoscere.»
«Ma quanti fienili ci sono da queste parti? Da non credere.»
Ne ho visti di più durante questo viaggio che in anni. O forse in tutta la vita. Sono uno uguale all’altro. C’è qualche mucca, qualche cavallo. Pecore. Campi. E fienili. Il cielo immenso.
«Queste statali non le illuminano mai.»
«Non ci passano abbastanza macchine per l’illuminazione pubblica» risponde lui. «Te ne sarai accorta.»
«Di notte dev’essere buio pesto.»
«Sì, è così.»
Mi sembra di conoscere Jake da più tempo di quanto lo conosca in realtà . Quanto sarà … un mese? Sei settimane, forse sette? Dovrei saperlo con esattezza. Direi sette, sì. C’è davvero qualcosa tra di noi, un legame intenso e raro. Una cosa che non ho mai provato prima.
Mi giro verso di lui, mettendo la gamba sinistra sotto il sedere, a mo’ di cuscino. «Allora… che cosa gli hai detto di me?»
«Ai miei? Quel che andava detto» dice. Mi lancia un’occhiatina veloce. Mi piace, l’occhiatina. Sorrido. Lo trovo molto attraente.
«Cioè cosa?»
«Che ho conosciuto una bella ragazza che beve troppo gin.»
«I miei non sanno di te» dico.
Pensa che stia scherzando. Ma è vero. Non sanno della sua esistenza. Non gli ho detto di lui, non gli ho nemmeno detto di aver conosciuto qualcuno. Niente. Ho pensato spesso di farlo. Ho avuto diverse occasioni. Ma non mi sono mai sentita abbastanza sicura.
Jake sembra voler dire qualcosa, però cambia idea. Allunga il braccio e alza il volume della radio. Solo un pochino. L’unica stazione su cui siamo riusciti a sintonizzarci, dopo averle passate in rassegna tutte, trasmette soltanto musica country. Roba fuori moda. Jake muove la testa al ritmo della canzone, canticchiando a bassa voce.
«Non ti avevo mai sentito canticchiare prima d’ora» dico. «Canticchi mica male.»
Non credo che i miei sapranno mai di Jake, né adesso, né retroattivamente. Mentre viaggiamo su questa statale deserta, diretti alla fattoria dei suoi genitori, provo una fitta di tristezza al pensiero. Mi sento un’egoista, un’egocentrica. Dovrei dire a Jake quello che sto pensando. È solo che è molto difficile parlarne. Una volta che si tira fuori quel tipo di dubbi, dopo non si torna indietro.
Comunque ho deciso, più o meno. Sono abbastanza certa di volerla finire qui. Questo allevia la mia ansia all’idea di incontrare i suoi. Sono curiosa di conoscerli, ma mi sento anche un po’ in colpa. Di certo lui penserà che la mia visita sia un segnale che faccio sul serio, che la nostra storia sta diventando importante.
È qui, seduto nel posto accanto a me. A cosa sta pensando? È ignaro di tutto. Non sarà facile. Non voglio ferirlo.
«Come fai a conoscere questa canzone? E non l’abbiamo già ascoltata? Due volte?»
«È un classico country, e io sono cresciuto in una fattoria. La so per forza.»
Non accenna al fatto che l’abbiano passata già due volte. Che razza di stazione radio trasmette la stessa canzone due volte in un’ora? Io la radio non l’ascolto più tanto. Forse adesso fanno così. Che ne posso sapere. O forse sono queste vecchie canzoni country che alle mie orecchie sembrano tutte uguali.
Perché non ho alcun ricordo del mio ultimo viaggio in macchina? Non saprei neanche dire quando è stato. Guardo fuori dal finestrino, ma senza mettere a fuoco niente in particolare. Passo il tempo, come si fa in macchina. Ti scorre tutto molto più in fretta quando sei in macchina.
Il che è un vero peccato. Jake mi ha parlato un sacco del paesaggio di queste parti. Lui ne va pazzo. Ha detto che gli manca ogni volta che è via. Specialmente i campi e il cielo, ha detto. Sono certa che sia stupendo e trasmetta un meraviglioso senso di calma. Ma è difficile dirlo dalla macchina in movimento. Sto cercando di immagazzinare nella mente tutto ciò che vedo.
Stiamo passando davanti a un terreno abbandonato, dove restano solo le fondamenta di quella che doveva essere una fattoria. Jake dice che è bruciata una decina d’anni fa. C’è un granaio pericolante dietro i resti della casa, e nel cortile davanti si vede un’altalena. L’altalena sembra nuova, però. Non vecchia e arrugginita, né rovinata dalle intemperie.
«Che ci fa un’altalena nuova?» chiedo.
«Cosa?»
«Nella fattoria bruciata. Non ci abita più nessuno.»
«Dimmi se ti viene freddo. Hai freddo?»
«Sto bene» rispondo.
Il finestrino è fresco. Mi ci appoggio con la testa. Attraverso il vetro sento le vibrazioni del motore, ogni bozzo della strada. Un delicato massaggio cerebrale. È ipnotico.
Non gli dico che sto cercando di non pensare all’Uomo che Chiama. Non voglio pensare a lui né al suo messaggio, proprio per niente. Non stasera. E non voglio neanche dire a Jake che sto evitando di guardare il mio riflesso sul vetro. Oggi è uno di quei giorni «no specchio». Come il giorno in cui io e Jake ci siamo conosciuti. Questi pensieri li tengo per me.
Era la serata del quiz al pub del campus. Non ci vado molto spesso, in quel pub. Non sono una studentessa. Non più. Mi sento vecchia lì dentro. Non ci ho mai mangiato, ma so che la birra alla spina è cattiva.
Quella sera non mi aspettavo di fare grandi incontri. Ero con un’amica. Del quiz non ci fregava granché. Eravamo lì per bere qualcosa e chiacchierare.
Credo che la mia amica avesse proposto il pub del campus perché secondo lei lì avrei potuto conoscere qualche ragazzo. Non me l’aveva detto esplicitamente, ma il suo pensiero doveva essere stato quello. Jake e i suoi amici erano seduti al tavolo di fianco al nostro.
I quiz di cultura generale non rientrano nei miei interessi. Non è che non siano divertenti, ma non sono roba per me. Preferisco fare cose un po’ meno stressanti, o starmene a casa. La birra di casa non è mai cattiva.
La squadra di Jake si chiamava Le Sopracciglia di Brežnev. «Chi è Brežnev?» gli chiesi. C’era casino e dovevamo quasi gridare per farci sentire sopra la musica. Avevamo cominciato a parlare da un paio di minuti.
«Era un ingegnere sovietico, aveva lavorato nell’industria metallurgica. Il governo della Stagnazione, hai presente? Be’, comunque aveva un paio di millepiedi giganti al posto delle sopracciglia.»
È di questa roba che sto parlando. Il nome della squadra di Jake. Voleva essere divertente, ma anche un po’ oscuro, abbastanza da far capire che loro se ne intendevano di comunismo sovietico. Non so perché, ma queste sono le cose che mi fanno uscire di testa.
I nomi delle squadre sono sempre così. Oppure hanno delle palesi allusioni sessuali. Un’altra squadra si chiamava Il Mio Divano Si Allunga E Anche Io.
Dissi a Jake che a me non piacciono i quiz, non in un posto come quello almeno. Lui disse: «Sì, è una roba un po’ da fissati. È una strana forma di competizione mascherata da apatia».
Jake non è uno che colpisce al primo sguardo. È bello soprattutto per la sua irregolarità . Non era stato il primo ragazzo che avevo notato quella sera. Ma era il più interessante. Quasi mai vengo tentata dalla bellezza assoluta. Lui era lì, un po’ in disparte rispetto al gruppo, come se lo avessero trascinato a forza solo perché la squadra dipendeva dalle sue risposte. Ne fui attratta immediatamente.
Jake è lungo lungo e sbilenco e asimmetrico, con gli zigomi sporgenti. Ha un aspetto un po’ smunto. A me quegli zigomi da teschio sono piaciuti subito. Le sue labbra piene e scure compensano l’aspetto denutrito. Spesse, carnose, un trionfo di collagene, specialmente il labbro inferiore. I capelli erano corti e disordinati, e forse più lunghi da un lato, o proprio diversi come consistenza, come se avesse un mix di tagli. Non erano né sporchi né lavati di recente.
Era ben rasato e indossava occhiali dalla montatura argentata sottile, e ogni tanto si toccava soprappensiero la stanghetta destra. A volte se li rimetteva a posto sul naso spingendoli con l’indice. Notai che aveva questo tic: quando era concentrato su qualcosa, si annusava il dorso della mano, o comunque se lo portava vicino al naso. È una cosa che fa ancora spesso. Quella sera indossava una semplice maglietta grigia, credo, o azzurra, e un paio di jeans. La maglietta aveva l’aria di essere stata lavata un centinaio di volte. Sbatteva le palpebre in continuazione. Si capiva che era un timido. Eravamo seduti vicini, ma saremmo potuti rimanere in silenzio per l’intera serata, fosse stato per lui. Mi aveva sorriso una volta, ma era finita lì. Se avessi lasciato fare a lui, non ci saremmo mai conosciuti.
E così, poiché era evidente che non avrebbe aperto bocca, ho cominciato io.
«Ve la cavate piuttosto bene, eh?» Questa è stata la prima cosa che ho detto a Jake.
Lui ha sollevato il bicchiere con la birra. «Abbiamo un aiutino.»
Bastò quello. Il ghiaccio era rotto. Parlammo un po’. Poi, con noncuranza, lui disse: «Sono un enigmista».
Io risposi evasivamente con un «ah» o dicendo «hm». Non conoscevo quella parola.
Jake dis...