Spazzola. Assorbenti. Spazzolino. Dentifricio.
La porta d’ingresso si apre con un sussulto e un cigolio sinistro. La vernice blu si screpola e si sfalda sopra un batacchio di ottone annerito.
Deodorante. Orologio. Scarpe.
«Vieni» ansima la mamma, trascinando due enormi valigie oltre la soglia ed entrando nell’atrio buio.
Io adoro compilare liste. Le liste mi calmano. Una lista è un porto sicuro, qualunque cosa contempli. Quel giorno includeva tutto ciò che dovevo ricordarmi di preparare all’ultimo minuto. Le cose che non potevo lasciare in auto la sera prima perché mi sarebbero servite al mattino.
La lista mi ha aiutato a respirare, come un incantesimo utile a tenere lontano il male. Continuo a ripassarla nella mente da quando mi sono svegliata, senza riuscire a smettere. Perché, finché continuo a ripetere le cose che ho bisogno di ricordarmi, riesco in qualche modo a distrarmi. A fingere che non sto davvero uscendo dalla mia camera per l’ultima volta. Che non sto salendo su un’auto carica di tutto ciò che abbiamo. Che non sto passando davanti al parco dove sono caduta per la prima volta dalla bici. Che non sto guardando sparire nello specchietto retrovisore la piscina in cui mi allenavo tre sere alla settimana.
Spazzola.
Ecco il chiosco di fish and chips.
Assorbenti.
La biblioteca.
Spazzolino.
Il negozio per animali dove ho comprato la mia sfortunata iguana. RIP, Iggy Poppet.
Dentifricio.
Ora però siamo qui. E persino la lista non ha un potere sufficiente a cancellare la nuova casa che si erge di fronte a me.
Esito. In un certo senso, oltrepassare la soglia renderà tutto questo reale. Mi guardo alle spalle verso la macchina, parcheggiata giù lungo la strada con le portiere spalancate, mentre altri bagagli e sacchi della spazzatura riempiti all’inverosimile minacciano di rovesciarsi all’esterno. Attraverso il finestrino posteriore intravedo una scatola malandata con la scritta STANZA DI ANNA: DIARI, FOTO, LIBRI DI PAPÀ.
Comunque la metti, non è rimasto niente a cui tornare. Respiro a fondo, mi sistemo sotto il braccio il voluminoso trasportino per gatti ed entro.
L’atrio ha un odore di muffa, le pareti intonacate e le travi di legno del soffitto sono illuminate da una lampadina spoglia. Il camion dei traslochi che aveva portato via gran parte dei nostri averi alla vigilia della nostra partenza è arrivato prima di noi: pile di scatole munite di etichette sono state sistemate in equilibrio precario in ogni angolo. La mamma sta già trafficando nella grande cucina aperta, che funge anche da zona giorno: contiene una di quelle grandi cucine in ghisa che diffondono calore e il nostro nuovo divano rosso mattone, ancora avvolto nella plastica di protezione.
Un imponente caminetto antico domina la stanza, spento ma incorniciato da una bellissima mensola di legno. Io mi svuoto le tasche, rovesciandovi sopra i rimasugli del viaggio. Un bicchiere di carta usato. Un pacchetto di patatine accartocciato. La metà di un Mars. Ora la mensola ha un’aria un po’ meno imponente.
Con gentilezza appoggio il trasportino e il nostro gatto nero molto scontroso scivola fuori simile a uno sbuffo di fumo, producendo uno sdegnato miagolio per farmi capire con chiarezza cosa pensa del fatto di essere rimasto chiuso in auto tanto a lungo.
«Scusa, Cosmo» sussurro. Mi chino a scompigliargli il pelo morbido con la punta delle dita, in cerca del conforto del suo familiare calore, ma lui se la svigna con un sibilo rabbioso e scompare nel giardino sul retro attraverso la finestra della cucina. Vorrei poterlo seguire.
Mi levo la giacca e crollo quasi sul divano, che fruscia per via della plastica. «Non pensarci neanche!» mi avverte la mamma. «Ci aspettano ore di bagagli da disfare e non abbiamo neanche scaricato la macchina.»
D’un tratto gli alberi all’esterno vengono scossi da una folata di vento, emettendo un gemito inquietante, quasi uno strillo che sembra provenire dalle ossa della casa stessa.
Cerco di sembrare sarcastica per nascondere l’agitazione. «Sei sicura che sia un posto adatto agli esseri umani?»
Avevamo visto la casa una sola volta in fretta e furia in un ventoso fine settimana di fine marzo: eravamo partite da casa e, attraversando di corsa la Scozia, avevamo esaminato cinque o sei proprietà diverse al giorno, una meno invitante dell’altra. All’ultimo minuto, avevamo incastrato una tappa in più in un minuscolo villaggio di pescatori chiamato Saint Monans, dove la mamma si era innamorata all’istante delle strade pittoresche e sghembe e del tranquillo porto antico, costeggiato da cottage dai colori pastello.
Il nostro era uno di quelli che davano direttamente sull’acqua, con una facciata quadrata color crema piacevolmente rannicchiata in mezzo ad altre azzurre, gialle e rosa. Quattro robuste finestre di legno le conferivano un aspetto accogliente e simmetrico e dall’alto faceva capolino un luminoso tetto rosso, con qualche tegola scombinata come se fosse stata spinta di traverso da goffi gabbiani. Avevo capito che la mamma se n’era invaghita ancor prima di entrare, ma Linda, l’agente immobiliare, aveva continuato a pensare di doverci convincere.
«È un edificio storico!» aveva esclamato con entusiasmo con quel suo sorriso tutto rossetto, mentre si sforzava di aprire la porta d’ingresso che si era incastrata.
Di sopra fummo costrette a chinare la tesa sotto i soffitti spioventi e io mi slogai quasi una caviglia inciampando sulle assi sconnesse.
«Le imperfezioni aggiungono un tocco di personalità alla casa, non trovate?» aveva cinguettato Linda, fiondandosi nella stanza accanto senza attendere una risposta mentre io mi strofinavo la caviglia con rabbia. Sarei stata felice di barattare un po’ di “personalità” con una maggiore sicurezza per la mia salute, grazie tante.
Ora avverto un brivido e alzo gli occhi verso la scala a chiocciola, ricordandomi come quel giorno mi ero trascinata di sopra, annoiata e stufa, dietro la mamma.
Avevamo visto rapidamente tre camere da letto: una dava su un giardino posteriore ridotto a giungla e le altre due erano infilate sotto la grondaia anteriore della casa, con vista sulla strada in direzione del porto, dove alcune barche di pescatori dai colori vivaci ballonzolavano sulle onde. Il bagno offriva un rubinetto gocciolante e una macchia verde intorno allo scarico. Le travi al soffitto erano crivellate di minuscoli buchi di tarli e persino le grandi pietre intorno alle soglie erano disseminate di profondi graffi irregolari. (“Sono segni di protezione dalle streghe! Non conferiscono un delizioso tocco di carattere?”)
La casa era gelida e molte pareti erano macchiate dalla muffa. (Ancora presente, noto, esaminando con aria critica la tinteggiatura nell’ingresso.)
Non avevamo avuto il tempo di ispezionare la soffitta, che secondo le dichiarazioni di Linda era sia “spaziosa” che “accogliente”. Chiamatemi cinica, ma questo mi aveva spinto a sospettare che non fosse nessuna delle due cose. (“Gli ultimi proprietari non l’hanno mai toccata e prima del loro arrivo era stata usata come magazzino, quindi potrebbe aver bisogno forse di una piccolissima ripulita, ma state tranquille che lassù c’è tantissimo spazio.”)
Avevamo avuto però una fretta folle di trasferirci entro due settimane e, come la mamma aveva puntualizzato di fronte a un piatto di patatine mosce all’area di servizio lungo la strada del ritorno, dovevamo accontentarci di quello che passava il convento. «Dobbiamo sistemarci in tempo per l’inizio del nuovo trimestre» mi aveva detto con un sorriso forse un po’ troppo ampio. «Ci vuole solo mezz’ora di auto per arrivare a scuola a Saint Andrews e posso portarti io andando al lavoro.»
Due settimane dopo, eccoci qui.
La porta d’ingresso sbatte per il vento e io mi affretto a dare una mano a scaricare la macchina. Mentre trasciniamo le ultime scatole nell’ingresso, il cielo inizia a brontolare e le prime gocce di pioggia schizzano sull’asfalto. La mamma chiude di scatto la porta e mi cinge le spalle: odora di detersivo per bucato ed essenza di vaniglia. Inspiro quell’odore a pieni polmoni, aggrappandomi alla sua familiarità. «Presto ti sentirai a casa, tesoro» mi dice, stringendomi per rassicurarmi.
Borbotto un mmm-hm e mi divincolo per scappare su per la scala scricchiolante, mormorando qualcosa sul fatto di mettere a posto la mia stanza.
Di sopra spingo la scatola con i diari e le foto più in fondo possibile sotto il mio nuovo letto senza darle un’occhiata. Getto lo zaino sul piumone, rovesciandone il contenuto: Spazzola. Assorbenti. Spazzolino. Dentifricio. Deodorante.
Cerco di respirare.
L’ultimo a scivolare fuori è il portatile, la cui spia verde dell’alimentazione mi fa l’occhiolino. Lo stomaco mi si agita in modo strano. Gli volto le spalle e spalanco la pesante finestra a saliscendi, causando un lamentoso cigolio e una nuvola di polvere. All’esterno il vento fa frusciare l’erba fin troppo alta e l’edera, simile a una marea, sommerge il muro fatiscente del giardino. Nell’angolo più lontano intravedo un capanno basso rannicchiato come un rospo nel crepuscolo sempre più fitto. La pioggia ora tamburella senza interruzione e l’aria della sera ha un odore umido e terroso. All’arrivo di una folata gelida sento i peli delle braccia drizzarsi. Estraggo un maglione nero sformato dalla borsa più vicina e me lo infilo, poi mi sciolgo la coda, in modo che i capelli mi cadano sulle spalle, riscaldandomi la nuca.
La mamma ha già appeso la mia nuova divisa scolastica sulla porta dell’armadio. Aggrotto la fronte alla vista della giacca verde bottiglia e del kilt: già mi immagino il mio arrivo alla St Margaret’s Academy, un edificio grigio di cui ho visto solo le foto in rete, dove rimango goffamente per conto mio mentre gruppi di studenti mi passano accanto spingendo e chiacchierando eccitati.
«Anna! A tavola!»
Sospiro e scendo di sotto, lasciando la finestra aperta.
In cucina, la mamma ha già recuperato qualche lampada e una tovaglia, dando alla stanza un’atmosfera accogliente. Una pentola con acqua calda e spaghetti sta ribollendo sul fuoco. Gli spaghetti non erano sulla mia lista delle cose dell’ultimo minuto, ma la mamma li ha ficcati nel cassetto portaoggetti quando si è resa conto che non avremmo avuto altro da mangiare la prima sera. Le posate moderne con i manici dai colori vivaci e i bicchieri alti da cocktail sembrano fuori posto in questa scricchiolante casa-museo, che Linda con orgoglio ha fatto risalire ad almeno quattro secoli fa. Sembra quasi che il cottage abbia indossato gli abiti della nostra vecchia casa, solo che i pantaloni risultano troppo corti, rivelando un bizzarro scorcio di una caviglia nuda.
«Al momento non è un gran che.» La mamma scrolla le spalle come per scusarsi, e io sento il cuore stringersi. Mia madre ha sradicato tutta la sua vita – lavoro, amici, ogni cosa – e ora si sta scusando con me. Non so cosa dire, quindi scrollo anch’io le spalle, sperando di farle capire “Non mi importa mamma, ti voglio bene”, ma temo che in realtà sembri più un “pazienza”.
«Ce la faremo» aggiunge con un sorriso. «È un nuovo inizio ed è questo che conta.»