Una voce gracchiante mi risvegliò da un sonno profondo.
«Ragazzi, siamo quasi arrivati! Preparatevi a scendere.»
Non mi ero neanche accorta di essermi addormentata contro il finestrino. Del resto, mi ero alzata alle cinque per prendere l’aereo per Londra. Anche se l’idea della vacanza mi emozionava tantissimo, ben presto il sonno aveva avuto la meglio: l’ultima cosa che ricordavo era il frastuono dei clacson nel traffico, dopo l’atterraggio. Poi mi ero lasciata cullare dal ronzio sommesso del pullman che ci stava portando a Bathford, una piccola cittadina nella campagna inglese dove avrei frequentato un corso di inglese.
«Vi ricordo che all’ingresso del college troverete i tutor ad accogliervi. Mi raccomando, restate tutti uniti. Ci manca solo che mi perda qualcuno» disse Sara, la nostra accompagnatrice, in tono molto professionale.
Recuperai lo zaino da sotto il sedile e lo chiusi in fretta, facendo attenzione che i capelli della mia bambola non si impigliassero nella cerniera. Sì, esatto: avevo una bambola nello zaino. Elaide, per la precisione. Anche se (ovviamente) non ci giocavo più da un bel po’, non me ne ero mai separata. Insomma, era la prima volta che partivo da sola - da sola! - per una vacanza studio, e mentre preparavo i bagagli avevo sentito il bisogno di portarla con me.
Finalmente il pullman si fermò e le porte si aprirono con un fruscio. Lasciai passare tutti e scesi per ultima. Lo faccio sempre – in tram, in treno, all’uscita da scuola –, perché mi dà il tempo di guardarmi intorno e pensare, senza dover sgomitare nella calca. E infatti, anche quel giorno, fui l’ultima a prendere la valigia che l’autista aveva appena scaricato dalla pancia del pullman.
Mi incamminai dietro agli altri e alzai la testa per osservare il paesaggio che mi circondava. Sembrava una cartolina! Il college in cui avrei vissuto e studiato per due settimane era circondato da un enorme prato verdissimo, in cui spiccava una grande piscina coperta; in lontananza, invece, si intravedeva un fitto boschetto. A parte qualche cespuglio di rose sfiorito, intorno non c’era nient’altro.
La porta d’ingresso era circondata da un fitto groviglio di rami di edera, che si arrampicavano sulla facciata di mattoni a vista fin quasi a toccare il tetto grigio scuro.
Appena entrai, un brivido di inquietudine mi attraverso‘ dalla testa ai piedi. Un brivido gelido, come quello che ti prende a gennaio, subito dopo le vacanze di Natale – il tipo più insopportabile –, quando esci la mattina presto per andare a scuola e vorresti solo tornare a letto. Ma quel giorno c’era un sole bellissimo, nonostante mia madre mi avesse detto, allo sfinimento, quanto fosse pessimo il clima inglese ad agosto.
Scacciai quella brutta sensazione: probabilmente era la paura per la nuova avventura che mi aspettava.
Mi inoltrai nel grande atrio della scuola e mi guardai intorno. Panico: i miei compagni di viaggio si erano volatilizzati e anche di Sara non c’era più traccia. Mentre cercavo di individuare i due tutor con lo stemma del college, vidi avvicinarsi una ragazza con lunghi capelli neri e un vestitino corto e rosso, a fiorellini bianchi.
Dovevo avere una faccia spaesata, perché la prima cosa che mi disse fu: «Ti sei persa, vero?». Con un grande sorriso gentile mi prese per mano. «Vieni, ti aiuto io.»
Riuscii soltanto a mormorare: «Grazie».
La ragazza mi indicò una porta in fondo all’atrio. Accanto, appeso al muro, c’era un cartellone enorme con scritto WELCOME e una freccia gigantesca che invitava a entrare.
«Non so come ho fatto a non vederlo» dissi, in imbarazzo.
Lei rise allegra. «Succede. Comunque, io sono Clarissa. Vengo da Los Angeles.»
«Piacere, Charlotte. Io sono italiana.» Sbirciai dentro alla stanza ed entrai. C’erano soltanto i due tutor: ero davvero l’ultima. Mi diedero la chiave della mia nuova camera, il libro di testo, un foglio con le regole di comportamento e gli orari delle lezioni, e una maglietta bordeaux con lo stemma del college. La XS era finita e fui costretta ad accontentarmi di una L, che probabilmente mi avrebbe fatto da camicia da notte.
Quando uscii, Clarissa mi stava aspettando appoggiata alla parete.
«Ti accompagno al dormitorio femminile, così intanto ti faccio fare un giro per la scuola. Io sono qui già da un po’ e ormai conosco più o meno ogni angolo.»
Dall’ingresso principale salimmo qualche gradino e imboccammo un lungo corridoio sulla sinistra.
«Dall’altra parte ci sono le camere dei maschi. Occhio, però! Tra i due dormitori ci sono i sorveglianti e sono terribili!»
La scala proseguiva al secondo piano, ma non chiesi a Clarissa dove portasse.
«Come mai studi inglese, se sei americana?» le domandai invece.
Lei mi guardò stupita e serissima, ma poi scoppiò a ridere di nuovo. In effetti, non era la domanda più intelligente del mondo. A volte mi escono così, che ci posso fare?
«Certo che sei proprio simpatica!» rispose. «Frequento una classe speciale per studenti madrelingua. E poi mia madre è di Londra. È da quando ho otto anni che d’estate mi spedisce in Inghilterra. “È necessario alla tua educazione” dice sempre.»
Mi fermai davanti alla porta con il numero dodici: era aperta e notai che la mia nuova compagna era già arrivata. Ci dava le spalle.
«Ah, sei capitata con Emilia» commentò Clarissa. «Prima regola del college: quelle come lei sono out. Sai, è un po’ strana… Ma non preoccuparti, dovete solo dividere la stanza, mica diventare amiche. Tu vieni dietro a me e vedrai che ti porterò alle feste più esclusive.»
«Feste?»
«Sì, certo! Cosa pensavi, che studiassimo e basta? La sera ci ritroviamo sempre nelle nostre stanze, ascoltiamo la musica, balliamo… Ma ti spiegherò tutto dopo.» Controllò il telefono e digitò qualcosa in fretta. «Devo andare, mi stanno cercando.» Alzò gli occhi al cielo. «Senza di me, questo posto proprio non funziona.»
Rimasi per un momento a guardarla mentre si allontanava lungo il corridoio.
La porta era aperta, ma bussai lo stesso. «Ciao! Si può?» dissi con voce squillante.
La mia nuova compagna di stanza era impegnata a sistemare dei libri. Tantissimi libri.
Senza nemmeno voltarsi rispose: «È anche la tua camera, no?».
«Be’, sì, ma…» balbettai. Meglio ripartire da capo. «Io sono Charlotte e vengo dall’Italia.»
Lei si interruppe per un momento e si girò. «Io sono Emilia. Ma questo lo sai già.»
Quindi mi aveva sentito parlare con Clarissa?
Mi porse la mano e gliela strinsi: non ero abituata a quei saluti così formali, e non mi aspettavo nemmeno tanta freddezza. Poi mi venne un’idea. Chiusi la porta e appoggiai il trolley alla parete.
«Hai davvero tanti libri!»
«Già.»
Primo tentativo fallito. Come esordio non era un granché, ma ero decisa a lavorarci su.
«Cosa ti piace leggere?» chiesi imperterrita.
«Un po’ di tutto… Gialli, horror, libri sull’ambiente…» rispose lei, vaga.
Mi avvicinai e presi il primo libro dalla pila sulla scrivania. «Jane Austen, Ragione e sentimento. Questo però non è un giallo, e neanche una storia di paura.»
«Be’, no… È il mio romanzo preferito in assoluto» aggiunse con un sorriso sognante.
Per ora un sorriso poteva bastarmi. «Magari me lo presti» dissi.
Cominciai a disfare la valigia. Mi ero portata alcuni abiti carini, qualche felpa – “In Inghilterra la sera fa freddo” mi aveva detto la mamma –, shorts, magliette, un paio di costumi, i jeans: insomma, l’occorrente per ogni evenienza.
Emilia aveva interrotto la sistemazione dei libri e continuava a fissarmi mentre riponevo tutto nell’armadio e nei cassetti. Una volta finito, disposi sul letto gli orecchini, le collane e la mia piccola trousse rosa con i trucchi, indecisa su dove metterli.
«Certo che hai proprio delle cose super…» commentò lei, sistemandosi gli occhiali sul naso.
«Grazie! Ho po...