Sul più bello
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Sul più bello

  1. 208 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Sul più bello

Informazioni su questo libro

Marta ha diciannove anni, vive a Torino e si definisce un brutto anatroccolo senza possibilità di redenzione.
In effetti, diciamocelo, non è per niente bella. E anche la fortuna non è dalla sua parte. Orfana dall'età di tre anni, è affetta da una malattia con un nome che è tutto un programma: mucoviscidosi.
Le speranze che possa vivere una vita normale sono poche, pochissime.
Però Marta ha spirito, ironia, forza di carattere. Tutte cose che si è conquistata con i denti, e che nessuno le può togliere. Ma soprattutto Marta non ha niente da perdere e ama le sfide.
È così che decide di lanciarsi in un'impresa impossibile: vivere l'amore, viverlo sul serio, e non con un ragazzo qualsiasi, bensì con il più bello del pianeta, Arturo. Irresistibile, atletico, fidanzato. Una partita persa, una specie di suicidio dell'autostima.
Eppure si sa, la vita si mette in moto quando noi decidiamo di fare un primo passo, ed è proprio questo miracolo che sfugge ai piani di Marta.
Da un giorno all'altro si ritrova a vivere non solo una storia inaspettata e inimmaginabile, ma anche una vita nuova, intensa, ricca. Una vita che non si è mai concessa e che ha sempre desiderato.
Una vita che potrebbe però finire da un momento all'altro, e mandare i frantumi tutti i sogni. Sul più bello. Ritrova i personaggi del libro nel film Sul più bello (regia di Alice Filippi, basato su una sceneggiatura di Roberto Proia e Michela Straniero)!

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Informazioni

Print ISBN
9788891583673
eBook ISBN
9788865976586

1

Ci si può sposare in pigiama?
Io dico di sì. Se l’abito non fa il monaco, allora nemmeno un vestito da nozze può fare una sposa. Probabilmente anche la chiesa è di troppo, e il prete, e gli anelli. Non so quante persone sarebbero d’accordo con me, ma di certo, quando hai otto anni, tutto ciò che ti serve per avere un matrimonio da favola è la tua immaginazione.
E allora eccomi lì, nelle stanze della mia memoria, il luogo ideale per celebrare tutte le volte che voglio questa cerimonia: la luce filtra attraverso le finestre illuminando il grande attico; nei raggi di sole svolazzano quei vortici di pelucchi che mi hanno sempre affascinato, perché mi sono sempre chiesta – e lo faccio ancora adesso – cosa succede quando quel pulviscolo sospeso nel vuoto finisce nei polmoni. Probabilmente niente, per la maggior parte delle persone, tranne che per me. Ma questa è un’altra storia, ve la racconterò più avanti.
Torniamo al matrimonio.
Indosso una camicia da notte tanto lunga da creare un piccolo strascico e in testa ho una federa bianca a mo’ di velo. Accanto a me, Jacopo, con i capelli biondi pettinati di lato in quella che vorrebbe essere, ma non lo è, un’acconciatura elegante. Porta una giacca e un ridicolo cappello a cilindro che gli scivola in continuazione sulla fronte bloccandosi sugli occhialoni tondi di plastica. Mi porge un bouquet di fiori finti, quello che usiamo sempre… Okay, lo ammetto, non è la prima volta che mettiamo in scena un matrimonio.
Ed ecco la musica, la marcia nuziale: da da da-da… da da da-da…
Afferro Jacopo per il braccio e camminiamo fino all’altare, che è un vecchio baule coperto di polvere. Il mio sguardo fugge per un istante fuori dalle finestre e si perde tra le colline che paiono ondeggiare attorno a noi, come un mare verde e spumeggiante in mezzo al quale galleggia la nostra casa.
Al baule-altare ci attende Lui, lo sposo, un po’ piegato su un lato, con gli abiti che gli pendono sul corpo di legno. È un’emozione viva, lì, nel ricordo, ma anche qui, adesso, nel mio presente.
Sono sincera, e vi dico che quel matrimonio immaginato è ancora oggi il momento più dolce e romantico della mia breve vita sentimentale.
Lui ha un nome e un cognome, tra poco vi dirò di chi si tratta. Comunque non è un lui qualsiasi, non sono certo una che si sposa con il primo che capita! I nostri sguardi si incrociano ed è questo il momento in cui Lui, da sposo-manichino, diventa sposo-vero… sempre nella mia immaginazione, chiaro. Ma del resto è solo nella fantasia che ho fatto esperienza con l’altro sesso, e a dirla tutta anche ora non è che le cose siano molto cambiate da questo punto di vista.
Ma torniamo alla Marta di otto anni e al suo sposo.
Mi guarda.
Sorride.
Mi ama.
«Dài, sbrigati!» mi esorta Federica agitando tra le mani un grosso libro che dovrebbe essere la Bibbia. È indubbiamente il prete più improbabile che si sia mai visto, con i suoi lunghi boccoli rossi e un camicione nero che le lascia scoperti i polpacci.
Mi precipito al baule-altare seminando il mio accompagnatore.
Federica mi guarda, sorridiamo contente.
Questo è il momento che preferiamo entrambe.
«Vado?» sussurra lei.
Annuisco.
«Vuoi tu, Marta, sposare il qui presente Zac Efron, per onorarlo e rispettarlo in salute e malattia, in ricchezza e povertà, finché morte non vi separi?»
Il viso un po’ stropicciato di Zac Efron sorride emozionato dall’alto del manichino su cui è appiccicato con lo scotch.
«Lo voglio.»
«Vuoi tu Zac Efron… la stessa cosa?» taglia corto Federica.
«E dài, Fede, recitala tutta, con Beckham l’hai fatto!»
«Io preferisco Beckham.»
«Ho capito, ma oggi sto sposando Zac Efron, quindi… okay?»
Federica alza gli occhi al cielo. La cerimonia prosegue senza ulteriori interruzioni e si conclude con il bacio degli sposi e la bella faccia di Zac che si stacca dal manichino e rimane incollata alle mie labbra. Jacopo e Federica scoppiano a ridere e io con loro. Ed è un momento dolce, tenero, perfetto…
Se non fosse per l’attacco di tosse, quello che viene subito dopo la risata. È uno come tanti altri, non più speciale, non più intenso, ma interrompe il ricordo e mi riporta alla realtà, al mio presente, a oggi. Le colline verdi scompaiono, così come l’attico, il baule-altare, lo sposo-manichino, il mio pigiama-vestito da sposa e tutto ciò che gli occhi miei, di Jacopo e Federica riuscivano a vedere con il solo aiuto dell’immaginazione.
Un colpo di tosse, e il ricordo si dissolve in mille minuscoli frammenti, simili a quelle particelle di polvere che galleggiano nell’aria e si vedono solo se vengono colpite da una lama di luce con la giusta angolazione.
Ciao ciao Marta bambina, e ciao Zac Efron.
Mi chiamo Marta, di anni ora ne ho diciannove e tra poco vi dirò perché sposo manichini, perché la tosse per me è un problema e perché, se non mi sbrigo, rischio di lasciare questo mondo avendo baciato solo un foglio di carta decorata con tanta, troppa immaginazione.

2

Volevo una frangia normale, non troppo lunga e non troppo corta. Do un’occhiata rapida allo specchietto retrovisore dell’auto: niente, non c’è speranza, la frangetta fa schifo.
E io sono come al solito: bruttina. Non vi dispiacete, me ne sono fatta una ragione da un pezzo.
Certo, la frangia non migliora la faccenda, ma non è colpa mia: Jacopo stava per fare il gran taglio quando ha visto un ragno sulla parete del bagno e per sbaglio mi ha fatto la frangia come quella di Giovanna d’Arco. Non sapete chi è? Bene, andate su internet e capirete perché ho girato con il cappello per una settimana.
Ora il cappello l’ho tolto e l’ho infilato negli scatoloni insieme al resto delle mie cose. Ho caricato la mia vita intera su questa macchina ed eccomi diretta verso la mia nuova casa. In tutto ciò, sono quasi certa di essermi persa.
Ho la patente da sei mesi e un pessimo senso dell’orientamento da sempre. Inoltre, sono in agitazione da due giorni, perché per quanto non riesca a immaginare cosa posso aver dimenticato di essenziale, per quanto io sappia perfettamente che tutto ciò che ho scordato lo posso recuperare e tutto ciò che non ho – escludendo auto di lusso, diamanti e armi nucleari – lo posso comprare, ho come la sensazione che il mio copione preveda nella casa nuova una prima notte di assoluto disagio, al freddo, al buio, con i topi. Non so perché ho immaginato questa cosa dei topi.
Ad ogni modo, ricapitoliamo: mi chiamo Marta, ho diciannove anni e vorrei tanto indurvi a pensare che sono un brutto anatroccolo e che quindi se voglio e quando voglio divento una figa da paura alla Capotondi, perché sono una di quelle ragazze in cui il segreto è guardarle dalla giusta angolatura, come il pulviscolo illuminato dal sole negli attici impolverati. Non è così: io sono un brutto anatroccolo stabile, non in evoluzione.
Una piccola parentesi, perché è importante: sebbene il mio tono possa risultare spesso autoironico, non sempre lo è. Dire che sono un brutto anatroccolo senza speranza non è autoironia, è realismo. E, credetemi, non è senza fatica che sono arrivata ad accettare queste parole. Le considero un mio traguardo di consapevolezza, mentre Jacopo le considera una prova fondante della mia bassa autostima e Federica la dimostrazione pratica del fatto che dovrei lasciar perdere gli uomini.
Ops, semaforo rosso, devo inchiodare! I freni stridono e sento un fracasso improvviso sopra il tetto dell’auto mentre il povero Zac Efron precipita prima sul parabrezza, poi sul cofano e infine in strada. Scendo dall’auto e vado a soccorrerlo. Attorno a me si crea subito un capannello di persone.
«Tutto bene, signorina?» chiede qualcuno.
«Dobbiamo chiamare un’ambulanza?» domanda una signora.
«Chiamate un falegname!» esclama un terzo con tono ironico, rivelando al mondo intero che l’uomo che ho investito è un manichino di legno.
Non ascoltarli, Zac, loro non ci capiscono.
Mezz’ora più tardi arrivo a destinazione, riconosco il grosso portone di legno di questo vecchio palazzo poco distante dal centro di Torino, con la facciata arancione e bianca, un po’ slavata, un po’ sbiadita, un po’ brutto anatroccolo pure lei.
Recupero Zac dal portapacchi dove, dopo l’incidente, l’ho legato alla meglio e mi faccio strada girando attorno al camion dei traslochi che occupa tutto il passo carraio. Attraverso l’androne fino a un piccolo cortile interno dove c’è una fontanella e un albero di camelia. L’aria è fresca e pulita: è così che mi piace, ed è molto importante, per me.
Salgo per le scale cercando di trattenere quel senso di fresco del cortile. Sul pianerottolo la porta è già aperta. Entro trascinandomi dietro il povero Zac, al quale faccio prendere anche una testata sullo stipite.
Sono dentro.
Inspiro. Espiro.
Di nuovo.
Io assaggio l’aria, lo faccio da sempre, ma negli ultimi anni molto di più.
L’aria mi parla dei luoghi che scopro, di solito è solo una sensazione, una prima impressione, ma a volte è una storia intera, un ricordo, un’immagine.
Avanzo lentamente nel salone immerso nella penombra. I mobili sono ancora coperti da teli bianchi, per terra ci sono decine di scatoloni, una lampada avvolta nel cellophane, valigie, sacchetti. Appoggio il manichino e punto dritta verso la finestra. Apro le persiane lasciando che la luce inondi l’appartamento e la montagna di scatoloni e mobili accatastati, in mezzo alla quale Zac sembra un buffo Pinocchio-scalatore.
Inspiro. Espiro. Riconosco il suo profumo prima della sua voce.
«Hai parcheggiato davvero di merda come sempr… wow, è immenso!»
Jacopo entra nell’appartamento trascinandosi dietro due trolley. Si ferma in mezzo alla sala. Indossa una giacca di jeans e una felpa gialla come i suoi capelli biondi e spettinati. Abbassa gli occhiali da sole e si guarda attorno compiaciuto.
«Che figata!» Si volta verso di me. «Marta, ti piace? Dimmi che ti piace.»
«Certo, lo sai.»
Mi viene incontro, mi abbraccia e mi solleva in un impeto di entusiasmo. Rido e per un istante mi sento leggera e spensierata, due aggettivi che, davvero, non mi rappresentano. Ma forse è per questo che Jacopo, ancora oggi, è il mio migliore amico, come se quella f...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Sul più bello
  4. 1
  5. 2
  6. 3
  7. 4
  8. 5
  9. 6
  10. 7
  11. 8
  12. 9
  13. 10
  14. 11
  15. 12
  16. 13
  17. 14
  18. 15
  19. 16
  20. 17
  21. 18
  22. 19
  23. 20
  24. 21
  25. Copyright