Un mese dopo
Damian’s pov
Le mie dita scivolano sulle corde della chitarra producendo note senza capo né coda, ma è giusto così, seguono la corrente dei miei pensieri privi di logica.
Come tutto, in questo ultimo mese.
I miei occhi sono chiusi, la chitarra posata in orizzontale sulle gambe, le mie dita sfiorano le corde mentre quelle di Emily i miei capelli.
Dal giorno in cui mi sono alzato con un dolore alla schiena dopo aver dormito per terra, dopo essermi svegliato per chiamare Aika, accorgendomi che di lei non c’era più nulla, vengo da Emily sempre più spesso.
«Ti fa un po’ meno male?»
«Che cosa?»
«Tutto.»
Apro gli occhi e quelli di mia sorella mi guardano, così dolci, così belli, così feriti, così da Emily.
«Non sto male, sono confuso.»
«Anche sentirsi confusi può farti star male.»
Mia sorella chiude gli occhi e così faccio anche io, senza aggiungere altro, tanto non saprei che dire.
La prima volta che sono rientrato in questa stanza, dopo tanto tempo, lei ha capito al primo sguardo che qualcosa non andava.
Sono rimasto sulla soglia in silenzio, mentre mi osservava seria. Poi mi ha fatto un cenno, mi sono seduto sul letto e senza che dicesse nulla mi sono appoggiato sulle sue gambe. Lei ha cominciato ad accarezzami i capelli e io a lasciarmi andare. Ad abbandonarmi a quel silenzio.
Da allora è stato così per quasi tutti i giorni a venire, lei non mi ha mai chiesto nulla se non: «Ti fa un po’ meno male?».
Da quel giorno è passato un mese esatto.
Il fatto che io venga a portare un po’ del mio dolore qui, in questa stanza che di dolore ne ha già tanto, mi fa sentire in colpa. Ma non è forse più facile?
Condividerlo con qualcuno che sai già che ti capirà , che non ti farà domande, perché sa cosa si prova.
Non è forse per questo che Aika dopo un mese non ha ancora abbandonato la mia testa? Lei che capiva sempre tutto e non diceva niente. La prima persona a cui non ho mai dovuto spiegare nulla, la prima che non ha mai voluto sapere.
Nessun perché, come o quando.
Tanto a lei nemmeno servivano, i suoi occhi azzurri lo capivano sempre quando stare in silenzio e quando parlare. Forse è proprio questo che mi faceva più imbestialire: non riuscivo mai a nascondermi, io che l’ho sempre fatto.
Non ti puoi nascondere da qualcuno che ci riesce meglio di te. Proprio così. Cosa so alla fine di Aika? Quasi nulla.
La ragazza che quando vede la spazzatura vomita.
Quella che sa combattere.
Quella che abita da sola con lo zio.
Quella che è dovuta scappare.
Dove sono i suoi genitori? Dov’è stata prima di venire a Boston? Dov’è adesso?
Emily continua a passarmi la mano tra i capelli e una vocina nella mia testa mi dice che non dovrei sentirmi poi così in colpa per il fatto di essere qui.
«Tu devi stare male, Damian, devi stare male quanto me! Quanto me!»
Quante volte me lo ha ripetuto? Forse è per questo che non le importa se vengo qui e rimango in silenzio, sa che sto male, e a lei questo basta.
Cerco di scacciare questo pensiero e lo sostituisco con quello di mia sorella che cerca solo di placare il mio dolore, forse condividendo con me un po’ del suo.
«Devi stare male, devi stare male!»
Considero che forse un po’ se lo merita di sapere cos’è successo, anche se nemmeno io ne sono completamente certo.
«È che non lo so nemmeno io, capisci? C’era questa ragazza e lei era così… così… oh non lo so, Emily cos’era, ma era qualcosa, sai? Ma io non lo so… non lo so.»
«Cosa non sai?»
«Non so descriverla, e mi fa impazzire perché non mi era mai successo prima. Se una sedia è rossa è rossa, se una persona è buona è buona, se una giornata è calda è calda. Fine della storia. Ma lei? Io non lo so mica com’è. Vorrei dirti che se fosse rimasta di più avrei potuto descrivertela, ma non ne sono così sicuro, non credo che ci sarei riuscito.»
Emily non mi accarezza più, mi fissa senza parlare, ma il suo sguardo ora è curioso.
«Però sembra speciale.»
«Come?»
«Speciale. Sembra essere una persona speciale, almeno per te. Speciale è un aggettivo, è già un qualcosa per descriverla.»
«Sì… sì, hai ragione» sospiro. «Speciale.»
«Dimmi qualcos’altro di lei.»
«Oh, non saprei.»
Questa situazione comincia ad agitarmi, sarebbe la prima volta dopo un sacco di tempo che racconto a Emily qualcosa di così intimo.
«Per favore» sussurra. «Parlami di lei.»
«Lei è pallida» attacco impacciato.
«Pallida?» ride mia sorella.
«Sì, e lo rimane anche quando si arrabbia, e lei si arrabbia spesso, anzi non si arrabbia spesso. È piuttosto indifferente a quel che le capita attorno, in realtà , però non vuol dire che sia una persona tranquilla, lei non… io non so spiegarmi! Visto?»
«Concentrati» mi suggerisce.
Mi alzo dalle sue gambe spostando leggermente la chitarra, prendo un respiro profondo, chiudo gli occhi e cerco di concentrarmi.
«Più che altro fa arrabbiare gli altri, ecco, a me di sicuro. Anche lei si arrabbia, ma non si capisce! Ecco! Sì! Non lo capisci mai se è arrabbiata, felice, triste perché rimane sempre pallida, sempre ferma, immobile e ti guarda come se non la potessi scalfire. È proprio questo che ti fa arrabbiare.»
«Poverina» sussurra Emily.
«Poverina?»
«Già .»
Non mi dà altre spiegazioni riguardo al suo commento, decido di non fare domande e continuo a parlare.
«La cosa che non mi va giù è che ho nella testa una persona di cui so poco e niente. Qual è il suo colore preferito? Il suo film? Cosa vorrebbe fare da grande? C’è uno sport che le piace più degli altri? Che posti ha visitato? Io non so niente eppure è sempre nella mia testa.»
«Perché non le hai mai chiesto queste cose?»
«Perché diceva tutto senza dire niente. Se le chiedevi che film le piacesse, lei ti rispondeva che c’era un bel film al cinema. Se le chiedevi quale fosse il suo fiore preferito, lei raccontava che c’era un giardino meraviglioso da qualche parte. Ed era così affascinante, così convincente, ti abbindolava talmente bene che poi ti scordavi la tua domanda. Lei parlava, parlava e parlava, ma quando se ne andava, se ti fermavi un attimo a riflettere, ti accorgevi che in realtà non ti aveva rivelato niente.»
Emily si mette sotto le coperte, mi guarda assorta e io le racconto della ragazza del cerotto.
Le racconto di quella ragazza che mangiava sempre ghiaccioli al limone e liquirizia.
Che quando era ubriaca cantava e che in fin dei conti non era poi così stonata.
Le racconto di quella ragazza che dormiva per terra e girava su se stessa in modo da addormentarsi.
Che faceva le bolle dentro cui nascondeva i suoi segreti e i suoi desideri.
Che rideva poco ma quando rideva era bellissima.
Che si metteva un sacco di ombretto e i suoi occhi azzurri sembravano ancora più freddi.
Le racconto di quella ragazza sempre vestita di nero, con gli stivali pesanti, i jeans strappati e lo zaino che pendeva sempre da una spalla.
Di quella ragazza che era un sacco cattiva, ma così infinitamente buona con chi credeva lo meritasse.
Le racconto di Aika.
«Il fatto è che lei è sempre stata sfuggente finché non mi è sfuggita completamente.»
«E dov’è ora?» mi chiede Emily.
«Non lo so.»
«E non puoi riprendertela?»
«Non sono nemmeno certo che fosse mia, per poterla riprendere.»
Un mese fa Aika se n’è andata e di lei non ne ho più saputo nulla.
Quell’uomo che ci ha rincorso fuori dalla festa, quel post-it nella mia stanza, quel corpo nell’edificio abbandonato.
Nessuno è venuto a cercarmi, non mi è più successo nulla di strano. La tranquillità più totale.
E se qui a Boston è rimasta la tranquillità , significa che la burrasca ha seguito Aika.
Chissà cosa le è successo. Chissà cosa sta facendo. Chissà se è viva.
Quante volte sono stato tentato di andare alla polizia e raccontare tutto, ma poi la paura che avrei potuto metterla ancora di più nei guai mi ha sempre fermato.
«Quindi c’era questa ragazza un po’ buona e un po’ cattiva, nera ma bianca, che si arrabbiava e faceva arrabbiare. Potresti scriverne una canzone.»
Non le dico che in realtà una canzone su Aika esiste già . Non le dico che per la prima volta ho cantato davanti a un’altra persona che non fosse lei. Non le dico che ha conosciuto mamma, papà , Stefan e tutti gli altri. Che ha dormito nella mia stanza, ha usato i miei vestiti. Non le dico che mi ha fatto gridare e mi sono sentito libero, che mi ha fatto correre, ...