Dopo la bellissima esperienza vissuta nella valle di Khumbu e sul Baruntse North, continuai a essere spinto dal desiderio di praticare un alpinismo “mio”, un alpinismo che si allontanasse dalle montagne di moda, piene di gente e dove avrei dovuto mettermi in fila per scalare. Ero sempre più attratto dalla ricerca di mete difficili e dove nulla era scontato, nemmeno la conoscenza della montagna in questione, e dove poteva essere complesso persino recuperare informazioni su chi aveva già tentato di scalarla. Stavo cercando, insomma, di portare avanti il mio percorso uscendo dalle strade battute. Nel 2005, perciò, decisi di ritornare con una spedizione invernale sul Shisha Pangma (8027 metri), il più basso dei 14 ottomila e l’unico interamente su territorio cinese. Già nell’inverno del 2004 avevo tentato di salirlo insieme con Piotr Morawski, ma ci eravamo dovuti fermare a 250 metri dalla cima.
Ormai erano passati 17 anni dall’ultima salita in invernale su un’ottomila; precisamente, era stato Krzysztof Wielicki nell’inverno 1988 a conquistare in solitaria il Lhotse (8516 metri). Dopo essere nate e divenute popolari negli anni Settanta e Ottanta, infatti, le invernali erano gradualmente “passate di moda”.
Dopo la tragedia dell’Annapurna del ’97 nemmeno io avevo più provato a salire un ottomila durante la stagione più fredda dell’anno… fino a quel primo tentativo sul Shisha Pangma del 2004, che stavo per replicare nel 2005.
Nell’alpinismo invernale, le regole – note a ogni professionista che si rispetti – hanno sempre voluto che, per definire se una scalata sia avvenuta in invernale o meno, venga rispettato l’inverno astronomico. Per capirci: tutte le famose scalate dei polacchi negli anni Ottanta non erano mai state compiute prima del 21 dicembre (data comunemente accettata per il solstizio d’inverno) e la stessa e unica regola era applicata e rispettata da sempre sulle Alpi e in tutto l’emisfero boreale.
Ma spesso la logica e le regole, scritte e non scritte, possono essere intaccate dalla convenienza…
Ad oggi, ormai, le salite invernali sugli ottomila sono state realizzate quasi tutte – manca solo il K2 – e io ho avuto la fortuna, il privilegio e la capacità ad averne realizzate ben 4, un traguardo che non avrei mai immaginato seppur forse un sogno utopico simile a questo lo celavo dentro di me quando ho inziato. Ma, guarda caso, a partita praticamente chiusa c’è chi sta cercando di cambiare le regole a proprio vantaggio. Da qualche tempo, infatti, è in atto un vero e proprio sabotaggio di regole definite da decenni in favore di una ridefinizione di quella che dovrebbe essere la stagione invernale: secondo alcuni dovrebbe riferirsi non più all’inverno astronomico ma a quello meteorologico. La differenza sta nel fatto che l’inverno astronomico si rifà alla posizione della terra intorno al sole (che non cambia mai), mentre l’inverno meteorologico guarda alle tendenze e ai cicli annuali delle temperature. Possono sembrare dei dettagli, ma la verità è che fanno la differenza.
Io mi sono sempre attenuto alle regole, rispettando il calendario astronomico in tutte le mie salite invernali, anche per un senso di correttezza. Per questo, per esempio, nel 2005, durante la mia seconda spedizione invernale al Shisha Pangma, non volli affrettare la preparazione e la salita solo per battere sul tempo Jean-Christophe Lafaille che era arrivato nel frattempo, in novembre, per tentare la stessa scalata. Ero in Cina a fare acclimatamento da giorni, ma mi tenevo lontano dalla montagna perché la regola ferrea che mi ero autoimposto prevedeva che, prima dell’inizio dell’inverno, non sarei dovuto arrivare neanche al campo base. Per chiamarla “salita in invernale”, insomma, una spedizione doveva essere compiuta interamente dopo il 21 dicembre.
Non ho mai voluto avere sconti, né essere facilitato in nulla da condizioni più miti o dal meteo stabile e dal cielo più limpido tipico dell’inizio di dicembre… nemmeno nel montaggio di una tenda. Perciò, a differenza di Lafaille che ci era arrivato l’11 dicembre 2004 (in tardo autunno), io e Morawski – aspettando l’inizio della stagione invernale vera e propria – raggiungemmo la vetta del Shisha Pangma il 14 gennaio 2005.
Ecco. Il problema sorse quando Lafaille, che aveva comunque fatto una bellissima e veloce salita in solitaria, dichiarò che la sua era stata la prima salita invernale della storia del Shisha Pangma.
Che quella fosse una dichiarazione priva di fondamento, fu chiaro a tutti fin da subito.
Jean-Christophe era arrivato in Cina l’11 novembre 2004 ed era giunto al campo base il 14, con un permesso di scalata che non era invernale. L’ufficiale governativo che rilasciava i permessi mi raccontò che Lafaille aveva insistito molto per avere il certificato di vetta che riportasse la parola “invernale”, ma lui non glielo concesse perché – mi disse – aveva esperienza di tutte e 4 le stagioni delle salite in Tibet e sapeva ben discernere che cosa era autunnale e cosa invernale. Jean-Christophe aveva attrezzato il campo base e quelli avanzati per tutto il mese di novembre e ci sono fotografie che lo ritraggono al Campo 2 fuori dalla tenda con addosso solo un pile (per non dire delle foto in cima al Shisha Pangma in semplice calzamaglia e dolce vita). Tutti questi dati dimostrarono ampiamente che la sua era stata una bellissima salita, ma una salita in tardo autunno. E che, dunque, la prima salita in invernale al Shisha Pangma era stata quella mia e di Morawski del 14 gennaio 2005. Grazie a Dio, tutto il mondo alpinistico lo riconobbe senza grosse discussioni e, pur facendo i complimenti a Lafaille per la scalata in solitaria, nessuno ebbe dubbi nel riconoscere che l’unico calendario di riferimento per stabilire una salita in invernale doveva rimanere quello astronomico.
Non mi piace fare polemica, ma certo non fui contento di vedere il francese tentare di arrogarsi un primato quando non c’erano argomenti. La sua salita solitaria era già di per sé difficile, pura e leggera, non c’era nessun bisogno di forzare le regole per appropriarsi anche di un altro primato.
Molti alpinisti si lasciano confondere dalle regole interne ai vari paesi in cui si richiede il permesso di scalata, nei quali c’è un burocratico “winter” che è sganciato dal meteo e molto spesso sono regole stabilite per convenienza e con il solo scopo di obbligare la gente a comprarsi un doppio permesso per scalare una cima. Un esempio? Fino a poco tempo fa i permessi per le scalate in invernale finivano il 15 febbraio, facendo sì che in caso di prolungamento della spedizione si era obbligati a prendere e pagare un nuovo permesso, quello primaverile. O ancora, in Tibet il permesso invernale iniziava il 1 dicembre – in passato addirittura il 15 novembre – cosicché le spedizioni autunnali presenti sulle montagne a ottobre e novembre erano obbligate a lasciare il campo base ancora in stagione postmonsonica o in alternativa a richiedere un nuovo permesso (invernale) per avere la possibilità di restare in montagna e beneficiare di tutta la stagione e del meteo stabile.
Insomma, tutte strategie governative per fare soldi e nessuna regola di rivisitazione dell’inverno astronomico e dell’alpinismo!!! Queste cose sono chiare anche agli occhi dei più miopi, ma vengono comunque usate come scusa per coloro che scappano dalla realtà o che vogliono farsi le vacanze natalizie a casa o che non sono in grado di rinunciare ai fantastici e golosi giorni di meteo stabile tipici di inizio dicembre. Troppo facile!!!
Quell’inverno 2005 segnò un nuovo inizio per l’alpinismo invernale a 8000 metri, che era appassito da troppo tempo. Con quella prima salita sul Shisha Pangma, e le mie successive esperienze invernali, sicuramente aiutai a rilanciarlo, a farlo tornare attraente e “di moda”. Tanto che nel giro di una decina d’anni sono state portate a termine tutte le altre salite invernali sugli ottomila, escluso il K2. Oltre alle tre cime conquistate da Krzysztof Wielicki e Jerzy Kukuczka e ad altre due vette salite sempre da polacchi negli anni Ottanta, Denis Urubko aggiunse 2 montagne in prima assoluta invernale, come pure Adam Bielecki ottenne lo stesso risultato numerico. C’erano insomma nuovi grandi protagonisti di questo tipo di scalate, si erano aggiunte nuove nazionalità a quella polacca, e io magicamente ero riuscito a eguagliare, e poi sorprendendomi anche a superare, con 4 prime salite in invernale il tris di cime nel freddo compiute proprio negli anni ’80 dai grandi e mitici maestri polacchi Kukuczka e Wielicki. A loro voglio aggiungere anche Maciej Berbeka, che appena salito il Broak Peak il 5 marzo 2013, il suo terzo ottomila d’inverno, fu vittima del freddo e dello sfinimento assieme al compagno Tomasz Kowalski. Invito chi pensa che il 5 marzo non sia inverno in Karakorum a guardare in rete le immagini di quei giorni, come pure quelle del 9 marzo 2012 con la prima invernale al Gasherbrum 1, compiuta da Adam Bielecki e Janusz Golab, anche in quell’occasione per il freddo e le condizioni invernali disumane morirono 3 alpinisti: Gotschl, Hussai e Hahlen.
È sulla base di questi episodi, e della conoscenza diretta che ho di cosa vogliano dire le condizioni che si affrontano quando si scala in invernale, che divento severo e risoluto con chi ora prova a cambiare le regole e a spostare le stagioni per ritagliarsi una possibilità di scrivere la storia. Troppo tardi amico mio, il treno è passato e non torna!!!
Iniziato quel 2005 con il primato del Shisha Pangma in invernale assieme al compagno Piotr Morawski, mi concentrai su un nuovo progetto che volevo nascesse da una domanda apparentemente semplice: «Qual è la montagna inviolata più alta del pianeta?». Trovare la risposta fu tutt’altro che facile, e mi avvalsi soprattutto del lavoro di un ricercatore tedesco, Wolfgang Heichel, che aveva all’attivo diverse pubblicazioni per il Deutscher Alpenverein (il club tedesco d’alpinismo) dove riportava tutte le montagne del Pakistan, specificando quali fossero state salite e quali no, e ne narrava la storia esplorativa e geografica.
Confrontando tutte le informazioni da lui fornite, incappai nel Batura II, una montagna pakistana di 7762 metri che risultava essere la vetta inviolata più alta del pianeta. Il punto più alto – che fosse una cima indipendente e non solo un pinnacolo o un punto lungo una cresta – dove l’uomo non si fosse ancora recato.
A quel punto, contattai personalmente Heichel che mi mandò altre informazioni e mi confermò che il Batura II non era ancora stato scalato da nessuno, sebbene ci fossero stati 4 tentativi, di cui l’ultimo da parte di una spedizione tedesca guidata da Markus Walter. Walter, che contattai immediatamente, mi mandò alcune fotografie che aveva fatto durante la salita e mi raccontò che si trattava di una montagna gigantesca in un’area remota e poco frequentata del Pakistan. Con queste informazioni in mano, ormai nella mia mente aveva già preso forma un progetto che mi faceva sognare e mi stimolava tantissimo.
Il Batura II è conosciuto anche con il nome di Peak 31 o Hunza Kunji, ed è una montagna alta quasi 8000 metri. Si trova nella regione del Batura Muztagh, a ovest dell’Hunza River, in mezzo a molte altre montagne che superano i 7000 metri, in un punto particolarmente elevato della dorsale montuosa del Karakorum.
Che nessuno fosse riuscito ancora a scalarla e che fosse anche sconosciuta ai più, dimostra come l’alpinismo d’alta quota sia ben lontano dall’aver esaurito le possibilità esplorative. Rimangono, ancora oggi, decine e decine di montagne sopra i 7000 metri e centinaia di montagne sopra i 6000 che attendono il loro primo scalatore!
Dalla vetta del Batokshi Peak a 6050 metri guardando verso sud con la cresta del Hachindar Chhish di 7163 metri.
Inoltre, il suo essere rimasta inviolata nonostante 4 precedenti tentativi da parte di altri gruppi di alpinisti – tra cui proprio quello di Markus Walter del 2002 – era un chiaro segnale che la salita della vetta non sarebbe stata facile. Per quella che si prospettava, quindi, come una spedizione piena di incognite scelsi come compagno di cordata un amico alpinista che avevo conosciuto negli Stati Uniti, Joby Ogwyn. Con in testa l’idea di formare una spedizione super leggera, a parte il sottoscritto e Ogwyn, portammo con noi solamente Didar Ali (il mio cuoco di fiducia che da sempre mi accompagna in tutte le mie avventure in Pakistan) e affidammo l’organizzazione all’Adventure Tours Pakistan di Ashraf Aman.
Il 10 giugno 2005 partii dall’Italia senza Joby, che mi avrebbe raggiunto pochi giorni dopo. Una volta arrivato a Islamabad, sbrigata tutta la trafila burocratica, organizzata la logistica, la preparazione e lo sdoganamento del materiale che avevo mandato via cargo, mi misi a pianificare il trasferimento fino al vero e proprio campo base, coadiuvato dall’agenzia di Ashraf. Per arrivarci, avremmo dovuto preventivare 3 giorni di auto e 4 di trekking. Il viaggio in jeep si sarebbe snodato su quella famosa Karakoram Highway che avevo già percorso nel 2003 per recarmi al Broad Peak; una strada che si snoda in mezzo a delle valli molto profonde, soggette a cadute di pietre e frane costanti. In realtà, il primo giorno il viaggio in auto lo fece solo il pullmino che trasportava tutti i materiali, mentre io, Didar e lo staff dell’agenzia preferimmo effettuare il trasferimento da Islamabad a Gilgit in aereo.
Fu un volo fantastico. Innanzitutto perché, partendo da Islamabad, fu una delle prime (e poi rarissime) volte nella mia vita in cui non decollammo in mezzo alla solita foschia generata dal caldo torrido, che spesso supera anche i 45°, ma prendemmo quota in un cielo limpidissimo che ci permise di ammirare dall’alto la capitale del Pakistan. Fummo, inoltre, così fortunati che il cielo si mantenne libero anche per il resto del viaggio, tanto da regalarci una visione straordinaria del Nanga Parbat. Gilgit, infatti, si trova molto vicino al Nanga Parbat, perciò quando vi passammo sopra eravamo già nella fase di avvicinamento e di discesa rapida alla cittadina, e potemmo ammirare il versante Diamir della montagna. Vedere così dall’alto la montagna più estesa del pianeta, che avevo affrontato 2 anni prima assieme a Jean-Christophe Lafaille (e che 11 anni più tardi ...