La natura è innocente
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La natura è innocente

Due storie quasi vere

  1. 352 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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La natura è innocente

Due storie quasi vere

Informazioni su questo libro

Ho scelto due "tipi" generalmente condannati dalla società: il matricida e l'arrampicatore sessuale - li ho ascoltati per mesi, mi stanno simpatici; potrebbero essere miei figli. Se li ho scelti non è solo perché amo le stranezze; la ragione per cui ho raccontato insieme le loro storie è più sotterranea e radicale: perché, sommandosi, i miei due eroi hanno fatto quello che avrei voluto fare io. Nati alla periferia umana e urbana di due città italiane a pochi anni di distanza, percorsi dalla comune fierezza di chi deve guadagnarsi il proprio posto al sole, Filippo e Ruggero hanno due storie dall'incipit simile. Le loro vite, però, si muovono divergenti nella realtà e nel racconto che ascoltiamo dalla voce lucida e insieme partecipe di Walter Siti. Filippo ha vent'anni quando, sorvegliato dall'ombra dell'Etna, uccide la madre fedifraga e così amata, gesto estremo e vulcanico come il suo sentimento per lei. Ruggero ne ha qualcuno in più quando in America, col nome d'arte Carlo Masi, inizia la sua carriera di pornoattore; tornato a Roma, incontrerà Giovanni del Drago, l'uomo che farà di lui una principessa. In bilico tra tragedia e fiaba, quelle di Filippo e Ruggero sono vite amorali, davanti alle quali sospendere il giudizio, ma sono anche la filigrana attraverso cui, con una scrittura immersiva, Siti affronta il suo buio più segreto proprio mentre sperava di allontanarsene; perché i romanzi sono più intelligenti del loro autore e si parlano tra loro. Siti ci consegna un libro potente e disperato, scommettendo su una letteratura che sia ancora capace di farsi domande e di accettare l'imprevisto come risposta.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2020
Print ISBN
9788817146449

Via del teatro greco, 1

1.

Della sua nascita a Picanello, un quartiere a nordest di Catania verso il golfo di Ognina (dove si dice che ai tempi del mito sia sbarcato Ulisse coi suoi marinai), Filippo non ricorda nulla; all’età di due anni e mezzo si è trasferito coi genitori a Lineri. Dalle case popolari di epoca fascista papà e mamma traslocarono nei nuovi condominî a basso costo di quel recentissimo insediamento abusivo che si era formato intorno a una fermata della Circumetnea, tra Catania e Misterbianco. Palazzoni squadrati e attività commerciali, nessun segno di bellezza: solo gli occhi verdeazzurri di mamma Rosa e le luminarie l’11 febbraio intorno alla chiesa di Santa Bernadette Soubirous, quella che aveva visto in una grotta di Lourdes la Signora con un dolce sorriso. Battezzato a Picanello nella parrocchia del Cuore Immacolato di Maria, futuro devoto di sant’Agata (“’a picciridda”) e portatore di candelore in processione, Filippo sembra affidato per destino alla Madonna e alle sante femmine, cucciolo coccolato e curioso. Il principio virile nel suo inconscio è costituito dal vulcano – gigante Mongibello anche se tutti familiarmente lo chiamano con un appellativo femminile, “’a muntagna”. Ma quando rugge e scaglia massi in mare dall’unico occhio infiammato, quando cede il suo ferro al sapore del vino nei vigneti delle pendici o feconda i pesci che nel tratto di costa corrispondente sono più saporiti che altrove, quando si impennacchia di fumo o di nuvole per poi rivelare nitido e bruno il suo incombente profilo, non c’è dubbio che sia lui, l’Etna, il ciclope dominatore a cui ubbidire. Solo l’Etna può sapere quale incendio nascosto covi nel petto dei maschi, e quanto più terribile possa essere l’eruzione se il flusso incandescente è intralciato e impedito nel profondo. L’intera Catania nel corso dei secoli, dalle eruzioni antiche di cui parlano Tucidide e Virgilio, passando per quelle devastanti barocche e per quella cupa in piena Rivoluzione Francese, fino alle più prossime che facevano dire ai leghisti «forza Etna», l’intera Catania è il vomito nero del machismo e della sottomissione.
Nel 1983 la famiglia Addamo è composta da quattro persone: il padre Paolo venticinquenne, camionista trasportatore, la madre Rosa ventunenne casalinga, la piccola Eleonora di cinque anni e Filippo di tre. Il padre è un siciliano tipico, scuro e baffuto e bassetto, con qualcosa di ostinato e insieme di debole nella fisionomia; Rosa è bellissima, il cognome Montalto allude forse a lontane origini normanne (i duchi di Montault?), che sarebbero confermate dai capelli biondi e dagli occhi color del mare. Alta, ben fatta, suscita ovunque invidie, diffidenze e ammirazioni. («Appariscente era, Walter, snella con la vita sottile… quando vedo adesso la compagna di mio padre, mi dico come ha fatto, c’è un abisso.») I primi ricordi di Filippo sono legati a un misterioso baule, che immagina come un forziere del tesoro, e a un cortile stretto dove lui sfreccia col triciclo mentre il padre lo aspetta seduto su una sedia. Suo padre non è quasi mai a casa, porta le bombole del gas in ogni zona della Sicilia e quando torna è sempre stanchissimo, soffre di emorroidi, mangia brontola e va a letto presto. La famiglia è il grande alibi di Paolo, la giustificazione per non aver concluso quel che voleva nella vita; avrebbe desiderato andar per mare, visitare il mondo, invece deve sfiancarsi di lavoro e se la prende coi colleghi che rubano sui turni, si danno malati per non guidare di notte, sucaminchi e sciacqualattughe. Certo, lui ha Rosa, il regalo che credeva di non meritare, bella come le soubrette francesi e le fräulein tedesche – il lato positivo del suo lavoro è che la ritrova bella a ogni ritorno, mentre se stava fisso a casa si sa com’è, magari si abituava e non la notava più.
Hanno fatto la fujtina quando lei aveva sedici anni e lui poco più di venti: si dice sempre che gli adolescenti sono spensierati, che si lasciano guidare dall’impeto della passione, ma se c’è un’età in cui si è indaffaratissimi di testa è proprio l’adolescenza – una vita da inventare, la sensazione di doversi assumere subito degli impegni senza sapere a chi dare fiducia. Alla tivù un autobus degli ebrei è stato incendiato dagli arabi, in Francia una petroliera ha sterminato tutti i pesci, a Catania hanno ucciso Pippo Calderone e sono arrivati i padroni nuovi; la casetta dove Paolo e Rosa sono andati ad abitare è modesta, solo una camera da letto e un salone più la cucina. Lo sfogo a letto è una distrazione, il corpo che festeggia da solo, da solo nell’universo. La felicità è quasi un ricatto, per dire “ci siamo anche noi”. Rosa è stata abituata a una casa di donne, la madre e la sorella e le amiche, lei sempre la più sviluppata e la più disinvolta, e la prima a fumare, la sigaretta tra le dita a dodici anni. A pulire ci pensava mamma Angela e la sorella Alfina era la più ubbidiente; papà Vittorio è morto presto, nel 1978, pochi mesi dopo che era nata Eleonora quasi a lasciarle il posto. Paolo si lamenta con Rosa che quando torna ci sia sempre casino, come se per lei fosse facile destreggiarsi così giovane tra due piccole pesti. Soprattutto Filippo ha il diavolo addosso («ero monellino») e bisogna minacciarlo ogni due minuti con la cucchiara di legno; si intrufola dappertutto, inghiotte le scaglie di intonaco e le cacche di topo, molesta la povera Eleonora. «Una volta mia madre m’ha legato a una bombola del gas perché doveva fare le pulizie… io lì legato piangevo e la guardavo, poi a furia di piangere mi sono addormentato.» Rosa gli fa la faccia feroce ma le scappa da ridere; se lo rivede quando a un anno cercava gattonando dei punti d’appoggio per alzarsi in piedi da solo, fin che ce l’ha fatta e ha traballato dal letto fino alla porta – e a lei è parso che una freccia dal proprio ombelico stesse partendo alla scoperta e all’avventura. Uno strappo alle viscere e una comunione indissolubile, oltre il sangue e oltre il destino.
Nel 1984 Rosa rimane incinta per la terza volta (così vorrebbe la Natura, solo i cólti e i prudenti si riproducono poco e tardi, condannandosi alla sconfitta evolutiva) e ad aprile dell’85 nasce Angela. Quando Angela a due anni (Filippo ne ha sette) comincia tardivamente a camminare, il padre riveste di plastica la ringhiera del balcone perché la piccola non cada di sotto; ma Filippo si diverte a bucare la plastica con un saldatore sottratto alla cassetta degli attrezzi – la sorellina è incantata dal gioco, s’avvicina e si brucia un dito alla punta incandescente; strilla come un’aquila e Filippo scappa fulmineo, sperando nella presunta innocenza e nell’impunità, visto che Angela non sa ancora parlare; invece ne prende tante che gli fanno male le ossa per una settimana. Quasi nello stesso periodo, attraversa la piazza una domenica mattina per recarsi a messa in Santa Bernadette (la piazza forse non è ancora intitolata a Enrico Berlinguer com’è ora, si chiama semplicemente piazza della Chiesa), dove si radunano i ragazzi più grandi e gli uomini fatti, Filippo passa davanti ai capannelli tenendo la madre per mano (così dice: «tenevo mamma per mano», non “mamma mi teneva per mano”) e partono i commenti, i fischi salaci, le lodi offensive, ffiiu, ffiiu – Rosa si vergogna, strattona il figlio per un braccio, «camina, mutu, nun fari ’u zingaru»: ma lui non sa controllarsi, si china a raccogliere la pietra più grossa che trova e la getta con tutta la forza contro il gruppo dei sibilanti che si scansano ridendo. «Però io volevo che morivano.»
Nel frattempo ha cominciato le scuole nella vicina frazione di Montepalma, dove va anche Eleonora; non gli piacciono la scrittura e la grammatica, fa troppi errori, piazza le doppie dappertutto e quando deve leggere si scusa sempre che gli fa male la testa – gli prescrivono una visita per gli occhiali ma gli occhi stanno benissimo: è solo che è orgoglioso, in classe si stranisce, se sente qualcuno che sghignazza mentre lui legge, è proprio la volta che si impappina di più, balbetta e alla fine si blocca. Voti eccellenti, al contrario, in aritmetica: gli esercizi lo intrigano, ancora adesso si vanta d’esser riuscito a otto anni a risolvere da solo il problema delle nove monete e delle due pesate con la bilancia a bracci, mentre la maestra si stupiva «tu lo sapevi già» e invece no, c’era arrivato con la testa sua. In disegno geometrico anche era forte («guarda io tremo, ho sempre tremato per un fatto di nervoso ma quando prendevo in mano la matita, o il compasso, non tremavo più… per la geometria la mano ferma ce l’ho»). La maestra era un po’ strana, appassionata di teatro: al posto dell’ora di ginnastica faceva preparare agli scolari uno spettacolino per la fine dell’anno, con recitazione e balletto – lì Filippo dà il meglio di sé, la maestra lo promuove a primattore, lo abbiglia e lo trucca con più cura degli altri, col bastone e il cilindro, jeans e magliettina bianca; lo allena a ballare New York, New York («tattàra tà tà… che poi sulla scena ho spopolato anche a Porto Azzurro») e gli fa recitare un copione complicato dove c’era un altro bambino che, quando stava per nascere, la mamma aveva avuto voglia di fragole sicché gli era rimasta una macchia sulla fronte a forma di fragola, e la mamma del personaggio di Filippo aveva avuto voglia di un registratore ma a lui non gli era rimasto niente sul corpo, nessun segno, solo alla fine si scopriva che gli era rimasta la voglia di musica («però io piangevo davvero, con le lacrime, quando dovevo dire “a me non mi è rimasto nènti”»).
Lo sport lo ha poi fatto lo stesso, per amore, non nell’ora di ginnastica ma in paese; in terza elementare si era innamorato di Gabriella che studiava danza classica – l’accompagnava a casa, a letto sognava il suo sorriso, le dava i bacini, teneva cara la sua fotografia; quindi ha preteso da mamma che lo iscrivesse ad arti marziali perché la palestra si trovava accanto alla sala dove le bambine ballavano. Gli piaceva pure il calcio ma c’era da farsi troppo male alle gambe perché non esisteva un campetto con l’erba e sulla pietra lavica ci si tagliuzzavano a morte le ginocchia. A karate comunque è arrivato fino a cintura blu. «Mamma mi accontentava tutti i capricci perché ero il suo cocco.» Un’altra domenica dopo la messa va con lei al mercato settimanale di Misterbianco e Rosa si ferma a contrattare con un nigeriano per un paio di orecchini d’osso, che stavano molto bene col suo vestito giallo a righe nere – ma costavano troppo, sicché rinuncia; Filippo zàc, mentre il nigeriano è occupato con una cliente noiosa, se li mette in tasca e arrivato a casa li tira fuori, «tieni, mamma, un regalo per te»; la madre con sua meraviglia lo strapazza, gli grida contro che non bisogna rubare, che così si metterà su una cattiva strada, ma si vede che in fondo è lusingata e gli orecchini non li riporta perché il mercato era solo di mattina e il nigeriano chissà dove stava ormai. («Però ti ringrazio, Walter» mi dice con gli occhi umidi, «che m’hai fatto tornare in mente il vestito giallo a righe.»)
Durante le vacanze tra la quarta e la quinta elementare, per motivi che a lui restano sconosciuti, i genitori traslocano ancora e per sette otto mesi tornano ad abitare a Catania ma stavolta più in centro, al Corso; i vicoli stretti e i palazzi scuri sono un luogo di agguati, di sorprese emozionanti – carte raccattate per terra con scritte misteriose, preservativi usati, pezzi di plastica con cui costruire razzi e armi spaziali. A Filippo mancano i prati, le lucertole da addomesticare col cappio, i merli da catturare nelle gabbie, il gelataio di Misterbianco che lo caricava sulla Lambretta; in compenso da Lineri si è portato la bici, una BMX blu, e con la bici osa spedizioni solitarie verso la spiaggia o la Villa – soprattutto ci va a visitare la nonna materna in via Teatro Greco. (Da Lineri pure veniva giù fin dalla nonna in bicicletta perché era tutta discesa, ma il ritorno in salita doveva farlo sul camioncino di papà, con la bici dietro nel cassone.) Un giorno è appunto a casa di nonna Angela: l’anziana signora (si fa per dire, non ha ancora cinquant’anni) se ne sta seduta fuori sulla strada a cuttigghiare con le amiche; Filippo scopre che dallo stretto cortile sul retro una fila lunga e compatta di formiche si dirige, attraverso una porta-finestra rimasta aperta, direttamente in camera da letto; sono attratte dall’odore di un cesto di pesche messe a maturare in un angolo. Troppo vive e troppo interessanti per essere lasciate in pace, quelle formiche militari: le segue dal sole esterno alla penombra della stanza, gli attraversa il sentiero con un bastoncino, le osserva banchettare in una chiazza di marciume o trasportare frammenti di foglie; qualcuna regge con le zampe stranissime palline nere traslucide. Filippo si toglie di tasca una ricarica per accendini, innaffia la fila con la benzina e con l’accendino gli dà fuoco per sentirle sfrigolare. È bello quando l’occasione ti fa trovare lo strumento giusto al momento giusto, ma è pure merito suo che gira sempre equipaggiato: la fiamma rapidissima si arrampica sulle tende di pizzo, divora l’aria con un rombo vittorioso – Filippo si spaventa, scappa chiamando in soccorso la nonna che si precipita e vede l’incendio già esteso alla cornice della finestra; acqua, secchi, le altre donne entrano e in breve hanno ragione del fuoco. La nonna consola il terrore del piccolo («ciatu miu») prendendolo tra le braccia ma appena arriva la madre, convocata d’urgenza, le basta uno sguardo per capire tutto, il colpevole e l’arma del delitto.
Lui e mamma sono uniti da un filo invisibile, impossibile da spezzare; come quando sul pavimento della Posta lui vide un fazzoletto a terra involtato a fagotto e dentro c’erano trecentosessantamila lire, e diceva «mamma amuninni a casa, dei bei soldi trovai» ma lei non dava retta e lui gliel’ha ripetuto dal macellaio perché lei rispondeva «ho capito, aspetta» pensando che fossero tipo cinque o diecimila e lui insisteva «mamma so’ tanti, amunì» e alla fine l’ha abbracciato e hanno fatto festa e si sono potuti pagare tutti i debiti. Quando la madre gli strappa le orecchie o lo massacra di cucchiarate, è come se lo promuovesse sul campo, «tu sei il mio cavaliere» – e allora lui le bravate le combina apposta per essere degno di lei, per lei spruzza i gatti con una polverina che li rende fosforescenti. Rosa si fida di lui per controllare Eleonora: siccome che quella signorinella a dodici anni ha già il fidanzatino a Lineri, scalpita per rimanere nella scuola vecchia, così tutte le mattine Eleonora sale sull’autobus e Filippo le fa da bodyguard – lascia stare che poi all’uscita è pronto a prenderla Salvo col motorino e il ritorno i fratelli lo fanno separatamente e ingannano mamma presentandosi a casa insieme; anche l’inganno fa parte della dimostrazione che lui è diventato uomo, e non è forse questo che mamma esige da lui? Complici, lui e Rosa: questa è la parola che li definisce. I regalini che Salvo ed Eleonora gli infilano in tasca per reggere il moccolo sono solo un guadagno collaterale; Eleonora gli ha già perdonato quella volta che lei aveva la febbre e lui le ha sparato con la pistola a piombini; lei fisicamente è più forte di Filippo (le donne sviluppano prima) e potrebbe menarlo ma non lo fa perché riconosce che l’onore di picchiarlo spetta a mamma.
Se cerco di penetrare dove non posso, nell’anima di Rosa ormai inaccessibile, mi sento come uno scimpanzé che si sforzi di aprire una scatola di metallo chiusa ermeticamente. Nel 1990 Rosa è una ragazza di ventotto anni che ha già una figlia di dodici, un figlio prediletto di dieci e una bambina di cinque; non sa ancora che l’anno successivo resterà incinta di nuovo, ma se lo sapesse non ne sarebbe turbata – una sua amica è morta per un aborto clandestino (la mammana improvvisata le aveva perforato per sbaglio la parete dell’utero) e le sue ultime parole sono state «a me mi piacciono i picciriddi». Quanto più il contesto è immobile, tanto più la fisiologia dei corpi corre veloce; dove vive Rosa, le donne a trentacinque anni sono già passate di maturazione, come nei romanzi dell’Ottocento. In Rosa sonnecchia una ribelle ma lei quasi non se ne accorge, perché gli amplessi col marito sono soddisfacenti e nulla in ogni caso, così le hanno insegnato, potrebbe farla trionfare mai, il mondo è pesante. Del mondo lei conosce solo Catania e il Belgio, dove è andata a trovare dei parenti in un paesino dalle parti di Charleroi; lì Angelo, il fratello di Paolo, ha sposato una donna spagnola che quando poi è scesa in Sicilia tutti la guardavano storto perché era «’a straniera» – sicché Rosa si è subito schierata dalla sua parte e ora si scrivono lunghe lettere come se la cognata fosse una vera sorella. A Carmen, e a lei soltanto, racconta che di notte si sveglia sudando perché sogna di essere trasformata in una statua di gesso come quelle di Villa Bellini, e non riesce a godersi le canzoni perché le sue orecchie sono di pietra.
Paolo è pigro, superficiale, coi figli non ha dialogo, a Rosa tocca fare da mamma e da papà; lui pensa che basti portare a casa il necessario e dopo nessuno deve scassargli la minchia. Rosa assicura scherzando che a Paolo quand’era piccolo gli hanno fatto bere troppa erba paperina1, nelle vene cià la tisana invece del sangue – certo è geloso, assale a pugni in faccia gli altri uomini che la desiderano ma neanche questo ha senso davvero: o è apatico o è esagerato, mai una forza matura che la soggioghi e la plachi. Non è colpa di Paolo se lei è bella; quando si bagna a mare e nuota e va lontano, Rosa pensa a se stessa in terza persona e quella persona ha nome Elvira, da un videogioco che sta al bar, Mistress of the Dark – eseguire i gesti che gli altri si aspettano da lei diventa uno stratagemma per non chiedere niente di ciò che davvero le piacerebbe.
Quando si accavallano, periodicamente, le notizie dell’Etna infuriato, che la lava minaccia Nicolosi, o Belpasso, e i paesani portano la Madonna in processione e come alla sagra scoppiano gli esplosivi per far deviare la colata e cresce l’allarme («sta arrivando alla sciara!»), in quei momenti Rosa non ha paura; anzi, viene presa da un’intima euforia, finalmente sta capitando qualcosa di extra. Filippo è il suo vulcano, il suo adorabile terremoto; le figlie hanno la strada segnata, mentre Filippo è la sua variabile favolosa (lo avverte confusamente, non ha le parole per pensarlo).
Immaginare i sentimenti di Paolo trentenne è più facile: è il più innamorato dei due e questo gli semplifica le cose; se la moglie si ferma al bar senza motivo, bastano due schiaffi, gli occhi di Rosa si scuriscono selvaggi e non serve altro per perdonarla. Paolo ama le bambine senza farsi domande e si compiace di vederle servizievoli; quando gli dicono che non somigliano alla madre, lui risponde è meglio perché Rosa deve restare unica; il figlio maschio se la sta già cavando nel sistema, è giusto che sia un concorrente.

2.

Nella seconda metà degli anni Sessanta, fu progettata a sudovest di Catania una città satellite nella zona denominata Librino (dal latino leporinum, luogo frequentato da lepri; e infatti ancora adesso, tra gli spuntoni di cemento armato e i rifiuti, qualche lepre trepidante bruca i rari fili d’erba); doveva essere un quartiere modello, il progetto fu affidato al famoso architetto giapponese Kenzú Tange. Il plastico vincitore del concorso mostrava semicerchi di edifici alti e luminosi, separati da strade larghe e isole alberate; autonomo dalla città-madre, l’insediamento avrebbe dovuto dotarsi di supermercati, cinema, teatro, sala congressi, strutture sportive – “lingue di verde” per ogni nucleo abitativo e un parco di trentuno ettari, futuro paradiso per i catanesi in gita fuori porta. Qualcuno parlò perfino di un elefante dorato, più grande di quello nero di piazza Duomo. Ma negli anni Settanta, durante la realizzazione, cominciarono i guai: alcune torri dovettero rinunciare ai loro ultimi piani per garantire una discesa in sicurezza agli aerei che atterravano nel vicino scalo di Fontanarossa (e innalzavano a livelli preoccupanti l’inquinamento acustico); ai confini del quartiere si moltiplicarono le case abusive, in previsione di u...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La natura è innocente
  4. Prologo
  5. Via del teatro greco, 1
  6. La principessa del drago, 1
  7. Via del teatro greco, 2
  8. La principessa del drago, 2
  9. Intermezzo vulcanico
  10. Via del teatro greco, 3
  11. La principessa del drago, 3
  12. Via del teatro greco, 4
  13. La principessa del drago, 4
  14. Epilogo
  15. Nota e ringraziamenti
  16. Copyright