Èuna delle storie che ancora oggi ricordiamo volentieri in città, quella di Lucilla Gingols che dà alla luce Noah. Il suo urlo carico di gioia è così possente che sveglia tutta Colle Taccone. Sono le due e sette del mattino del dieci agosto, quando tutte le case si illuminano, tutte le finestre si aprono e tutte le bocche, affacciate in città, pronunciano le stesse parole:
«Questa deve essere la felicità di Lucilla».
E questo è già un chiaro segnale di cambiamento, ma ai tempi nessuno ci fa caso.
È come se un piccolo giorno di sole si fosse intrufolato nel cuore della notte, quel dieci agosto, giocando di anticipo sui sogni.
In teoria deve essere buio, devono dormire tutti, come d’abitudine, eppure ci sono felicità così forti da rubare la scena alla luna, ai gufi e ai poeti, da prendere il posto del sole e sorprendere tutti gli orologi del mondo, fregandosene della normalità.
Si svegliano tutti insieme quella notte, dimenticando il letto. Questo è uno dei poteri della felicità, riesce a non farti addormentare e allo stesso tempo riesce a non farti sentire addosso la stanchezza.
Quel giorno, anzi quella notte, avviene una cosa che nessuno mai aveva ancora osato immaginare, che nessuno mai aveva creduto possibile. Avviene un giorno dentro la notte. Avviene un giorno in più.
Quella notte del dieci agosto, alle due e sette per l’esattezza, la vita inizia prima.
Anche per il cielo è così, le rondini si fanno trovare in volo in pieno buio. Anche per il mare è così, i pesci saltano dall’acqua a dare il buongiorno alla luna. Perché è sempre stato così e sempre lo sarà: tutto l’universo considera l’amore.
«Mi piacerebbe chiamarlo Nahuel» dice il signor Gin Gingols, il papà.
«A me Oliver» ribatte Lucilla, la mamma.
«A me piace Adan, che ne dici, cara?» continua il papà.
«E allora Harlo? Che ne pensi di Harlo?» ancora la mamma.
Ma la lettera H come iniziale al signor Gingols proprio non è mai andata giù. È una lettera muta, sfugge via ai più distratti, non si fa mai sentire e perfino i più zelanti si dimenticano di pronunciarla. Occupa spazio nei quaderni e nell’alfabeto ma è una lettera destinata a essere dimenticata. E questo a Gin Gingols è sempre dispiaciuto. La lettera H lasciamola ai verbi avere, noi concentriamoci sui nomi.
È sempre difficile dare un nome a chi si ama, perché il nome che decidiamo è la nostra prima azione verso di lui, il nome è un regalo, è il primo regalo che facciamo, e i primi regali è giusto che siano meravigliosi.
Perché dentro i nomi non ci sono solo una melodia e una vibrazione, ci sono significati forti, ci sono degli auguri, delle energie misteriose, ci sono dentro storie e geografie, e a volte dentro i nomi, ci troviamo anche delle risposte.
Ad esempio, prendi Barbara: è un nome di origine greca e significa balbuziente, e giù per la discesa di Cascinare, ci abita una certa Barbara che, guarda tu la coincidenza, balbetta.
Cecilia viene dal latino Caecilia e significa cieca e guarda caso la signora Cecilia vicino alla piazzetta di Castellano, sotto la valle di Diego Scarpastrana, ha degli occhiali così spessi che i suoi occhi visti da fuori sembrano due lune piene.
I nomi si devono scegliere con cura, dice sicuro di sé Gin Gingols, che come mestiere scrive storielle per la rivista “Rivedere il vento” e lui di parole è un vero intenditore, ogni giorno sceglie con dedizione le migliori, per poter dire sempre la cosa giusta.
E quindi Nahuel niente, Oliver non se ne parla, Adan per carità del cielo e Harlo ha l’H iniziale.
Lucilla e Gin sono sempre stati come il giorno e la notte, come l’alba e il tramonto, i pesci e gli uccelli, gli alberi e le gambe, come il mare e il cielo e come la medaglia e la sua altra faccia.
Ma c’è una cosa più forte dell’essere contrari su tutto, ed è l’essere innamorati. È da sempre risaputo, qui a Colle Taccone come negli altri paesi, che uno dei più chiari segnali dell’amore è quello di venirsi incontro.
Ed è così che nasce il nome Noah. Papà Gin e mamma Lucilla prendono le iniziali di tutti i nomi che piacciono a loro e li uniscono: Noah.
E questo è il significato vero del suo nome, Noah: l’amore si viene incontro.
Aparte l’episodio del grido contento, la famiglia Gingols è una famiglia che pratica molti bisbigli. Fuori dalle mura di casa non si sente mai un urlo, mai un rimprovero, mai una rabbia. Si parla a bassa voce dentro casa; i sussurri, se si presta molta attenzione alle orecchie, sono parole che riescono a farsi sentire bene.
Durante la colazione a volte non si dicono neanche una parola, fanno tutto con gli occhi, si capiscono così. Mi passi la marmellata? Mi versi ancora un poco di latte? Intere domande poste con lo sguardo. Anche gli occhi hanno un alfabeto, dice Lucilla, bisogna dare loro il giusto spazio per parlare e la mattina sembra fatta apposta per allenarsi a guardare il mondo negli occhi.
La giornata inizia e la voce ha bisogno di qualche ora in più per svegliarsi bene, ha bisogno di scaldarsi con il tè, di un po’ di zucchero e un bel bicchiere d’acqua fresca, questa è la ricetta per avere in bocca parole sempre dolci.
In casa Gingols le frenesie di Colle Taccone non riescono a entrare. In casa Gingols esiste un tempo a parte e su questo tempo a parte, Noah, giorno dopo giorno, cresce secondo il suo ritmo.
Impara a vivere la vita nel modo tranquillo della sua famiglia: a muovere i primi passi in giardino, a osservare il sottile movimento che fa un fiore quando si dedica al vento, a raccogliere la frutta dall’albero, a riconoscere l’uva acerba da quella matura, a giocare con la sua ombra, ad aiutare la mamma nelle piccole faccende di casa, a dire le sue prime parole.
Noah non sta mai fermo con lo sguardo, ama guardarsi attorno, ama farsi catturare lo sguardo dai colori, contemplare gli oggetti intorno a lui e sorridere a caso, gli piace toccare tutto, annusare e parlare alle cose che prende in mano.
Sembra vivere tra le nuvole, eppure non è mai del tutto assente, spesso si apparta, sì, ma riesce sempre a farti capire che è presente.
È nato la notte delle stelle cadenti, racconta sua nonna Susi, una notte in cui si presta molta attenzione al cielo, e questo spiega il suo carattere sereno e assorto.
E Noah giorno dopo giorno cresce seguendo il suo spazio.
Impara a vivere la vita attraverso i punti di vista speciali della sua famiglia: impara non solo ad attraversare la strada ma anche a guardare il cielo. Glielo insegna papà Gin. Prima di tutto devi guardare in basso, per vedere se le tue scarpe sono allacciate, poi devi guardare in alto per vedere se passa qualcuno e già che ci sei guarda se anche oggi il cielo è meraviglioso, poi guarda a destra e a sinistra per vedere se passano le macchine, se non passa nessuno, via libera, attraversa.
Noah dice che non serve guardare il cielo prima di attraversare, che le macchine in cielo non esistono, che è sufficiente guardare a destra e a sinistra. Ma papà Gin quel giorno dice una cosa che a Noah rimarrà nel cuore, per sempre.
«Il fatto che fino a oggi non sia mai passato nessuno dal cielo non significa che non passerà mai. Se una cosa non esiste ancora non significa che non esisterà.
Guardare a destra e a sinistra prima di attraversare, Noah, lo fanno tutti, perché tutti hanno esperienza di quello che è già accaduto, ma guardare il cielo è un gesto tant...