Il calcio è musica. Il massimo è quando una partita diventa un concerto di calcio. Il samba carnevalesco delle brasiliane, la Marsigliese trascinante delle francesi, la marcia trionfale (esagero un po’) delle olandesi. Perché una squadra è orchestra o banda, il pubblico è coro, il gioco ha un ritmo, un’azione può anche essere un assolo. Un giorno Stefano Braghin, direttore generale della Juventus Women, ci disse più o meno così: “Voi sembrate una banda, perdipiù una banda di paese, ma senza passione. E invece dovete essere come Freddie Mercury e i Queen, e riempire gli stadi… Che cos’è che non va?”. Lo spartito, gli strumenti, gli orchestrali? Il calcio è musica. E il massimo è quando una partita diventa un concerto di calcio. A proposito di Freddie Mercury, ecco una delle sue frasi, che potrebbe essere anche calcistica: “Si può essere ciò che si vuole. Basta trasformarsi in tutto ciò che si pensa di poter essere”. Eccone un’altra, e anche questa potrebbe essere calcistica: “Se devi fare una cosa, falla con stile”.
Se qualcuno osasse inserire qualche mia frase – un aforisma, un’intuizione, una perla di insospettabile saggezza – in un libro dedicato alle citazioni, rileggendo quanto scritto finora, mi verrebbe da dire: la fatale “Si vede che doveva andare così”, la sintetica “Passione? Passione”, la chilometrica “Gioco a calcio perché voglio ubriacarmi di finte, uscire dai tunnel, saziarmi di gol, fantasticare sui cross, affidarmi ai calci d’angolo, perdermi per un dribbling, saltare gli avversari/le avversarie, votarmi all’attacco e squarciare una difesa, aggredire gli spazi, galoppare in una prateria e correre in porta”, o forse, più semplicemente, “Gioco a calcio perché sono una donna”. Ma esistono sentenze, dichiarazioni, citazioni molto più profonde e struggenti, più intelligenti e sorprendenti delle mie.
Per esempio/1: “Per essere il numero 1, devi allenarti come se fossi il numero 2”, Maurice Greene, atletica, velocità, ma va benissimo per qualsiasi sport.
Per esempio/2: “Chi vince festeggia, chi perde spiega”, Julio Velasco, pallavolo, ma anche questa è una regola valida dovunque e comunque.
Per esempio/3: “Ma quali sacrifici? I sacrifici veri li fanno gli operai”, Duilio Loi, pugilato, io dico sempre i minatori, io dico anche i muratori, come mio padre, ma potrei dire tutti quelli che lavorano senza poter/saper amare il proprio lavoro, e per una come me che ama giocare, il calcio è un privilegio enorme.
Non posso non citare Muhammad Ali, il più grande: “I campioni non si fanno nelle palestre. I campioni si fanno con qualcosa che hanno nel loro profondo: un desiderio, un sogno, una visione”, desiderio e sogno sì, visione no, però io aggiungo che si fanno anche nelle palestre, sui campi, in allenamento, i campioni – quelli che resistono nel tempo – sono quelli che si allenano di più, a cominciare da Cristiano Ronaldo.
Stradaccordo con Diego Abatantuono, l’attore: “Grembiule nero e fiocco azzurro. Per un bambino milanista il primo giorno di scuola è un trauma”, e lo fu anche per me, che milanista non sono mai stata. E soprattutto con Manuel Vázquez Montalbán, lo scrittore: “Un centravanti senza palle è come una frittata di patate senza uova”. Eh sì: ci vogliono. Lo diceva, senza mezzi termini, anche Fiona May: “Divido gli atleti in due categorie: i cagasotto e quelli con le palle. I cagasotto sono quelli che in allenamento fanno i numeri, ma poi in gara non riescono a rendere; quelli con le palle rispondono sempre presente alle gare che contano”. Hai ragione, Fiona, è proprio così: vie di mezzo non esistono.
Poi ci sono anche gli errori, gli strafalcioni, le sgrammaticature. Lo dico subito: a me scappa di dire guardialinee invece di guardalinee, come se li considerassi più guardie e guardiani che osservatori o scrutatori. Ma c’era un allenatore che diceva “il calcio d’angoli”, chissà perché al plurale. E un altro che sentenziò: “Ho strinto il campo”. A me fa morire dal ridere Martina, perché è così veloce che le parole le scivolano via: una volta, invece di dire “come se camminassi sulle uova”, inventò “come se corressi sulle patate”; e un’altra volta, invece di “sfondi una porta aperta”, ingigantì il concetto con “sfondi un muro aperto”. C’è chi dice “reking” invece di “ranking”. Niente in confronto a Lisa Alborghetti, che una volta, davanti a Sara Gama, si esibì nel latinismo “ergo sum”. Sara, che sa tutto, anche il latino, le domandò che cosa volesse dire. Lisa, con tutto il candore di cui dispone, le tradusse: “Vado via”. Eh no, Lisa, “ergo sum” significa “dunque sono”. Lisa scoppiò a ridere, Sara rideva già, e noi pure.
Negli strafalcioni del calcio primeggia il Trap, Giovanni Trapattoni. “Abbiamo ritrovato il nostro filo elettrico conduttore”, “Bisogna costruire mattoni per essere solidi come il cemento armato”, “I giocatori sono liberi di fare quello che dico io”. Io dico che Trapattoni è un genio, un genio della comunicazione, il suo linguaggio arriva, colpisce, segna, magari in maniera scioccante, divertente, surreale, ma centra il bersaglio. “In questa squadra c’è ancora molto petrolio da estrarre”, “In quel momento della partita eravamo un po’ come il serpente con la coda in bocca” e la suprema “In vita mia sono stato fortunato. Quando sono arrivato davanti al passaggio a livello, la sbarra era sempre alzata. Forse sono stato io a inventare il Telepass”. Irraggiungibile.
Dopo Cabrini, il c.t. della Nazionale è diventata Milena Bertolini, che avevo già avuta come allenatore al Brescia.
Il secondo di Bertolini era Attilio Sorbi, da giocatore anche nella Roma e nel Bologna, da allenatore adesso all’Inter femminile. Con Sorbi era impossibile non andare d’accordo: ha qualità e capacità umane da vendere. E lui apprezzava che io, dopo l’allenamento, mi fermassi in campo per migliorare i dettagli. Anche lui, come Cabrini, era alla prima esperienza nel calcio femminile, e ne rimase conquistato. Diceva/dice che è più puro, più umile e per questo spiazzante, sorprendente, commovente. La cosa che più mi piace di Sorbi è che lui sostiene che un insegnante deve imparare molto dai suoi allievi, e che lui ha imparato moltissimo anche da noi. Perché le ragazze si impegnano, si donano, con attenzione, dedizione, caparbietà, ci provano sempre e danno sempre il massimo. La distanza da altre nazioni europee e nordamericane è ancora notevole, con gli Stati Uniti – dove il calcio è nettamente il primo sport fra le donne, addirittura materia scolastica – la distanza è addirittura siderale, ma anche grazie a tecnici come lui, Sorbi, questo divario si sta finalmente riducendo. Anche Sorbi, almeno una volta, mi ha spiazzato: è stato quando mi hanno riferito di un suo commento in cui mi definiva l’essenza del calcio femminile. Troppo buono, Attilio.
“Ma Nino non aver paura di sbagliare un calcio di rigore” canta Francesco De Gregori. Sarà anche vero che “non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore”, sarà anche vero che “un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia”. Ma un calcio di rigore – tra i sinonimi di rigore: obbligo, condanna, pena, precisione, esattezza… –, almeno visto dalla parte di chi lo esegue, equivale a un gol. Io ho calciato quattro rigori, e tra errori e parate li ho falliti tutti e quattro. Dev’essere un record, anche se al contrario, un antirecord, un controrecord, uno srecord, un record negativo mio, ma un record positivo (bisogna sempre cercare il lato positivo, vero?) per i portieri. Insomma, ci rido su, ma sarebbe da piangere. Così, se non altro, nel leggere i miei gol, state tranquilli: sono tutti arrivati su azione. Il calcio di rigore è il massimo dell’uno contro uno, anche se hai gli occhi – e il fiato, e i battiti del cuore – di tutti addosso. Giuro: io mi ci metto, e ce la metto tutta, ci provo e riprovo, un po’ per divertimento e un po’ per impegno, per sfida – vorrei rimediare a questa piccola sconfitta personale, una piccola sconfitta di personalità (mi viene addirittura da pensare: dove tiro, tiro, tanto me lo para) –, per passione.
Passione? Ma sì: passione.
Il rigore è un esercizio di precisione e decisione, freddezza e anche saggezza, abitudine e libidine, ci sono una saturazione di adrenalina, una tracimazione di protagonismo, un senso della responsabilità che galvanizzano (o paralizzano) il calciatore. Sarebbe bello entrare anche nella psicologia del portiere, la sua capacità di innervosire fino a ipnotizzare il diretto avversario, la sua abilità nel leggere il tiro, prevederne la direzione, misurarne la forza, la sua metamorfosi che tende a ingigantirlo fino a occupare tutta la porta o a minimizzarsi fino a far entrare anche un cucchiaio. Di quei pochi lunghi secondi che trascorrono dal fischio dell’arbitro all’effettuazione del penalty (penalty è il calcio di rigore in inglese: significa sia pena sia penalità sia penalizzazione) si potrebbero scrivere libri. E ne sono stati scritti. Il più affascinante si intitola Il rigore più lungo del mondo e comincia così: “Il rigore più fantastico di cui abbia notizia è stato tirato nel 1958 in un posto sperduto di Valle de Rio Negro, una domenica pomeriggio in uno stadio vuoto”. Osvaldo Soriano, scrittore argentino, raccontava quel penalty durato una settimana, precisamente dal momento in cui venne fischiato contro la Estrella Polar a tempo scaduto da un arbitro pusillanime – l’infrazione non c’era stata – a quando venne battuto da un attaccante del Deportivo Belgrano la domenica successiva. Fu così gigantesca la confusione sugli spalti per quella evidente ingiustizia che dovette intervenire l’esercito per calmare i tifosi dell’Estrella e rispedirli a casa. Bisogna sapere che era l’ultima partita di campionato, che l’Estrella era una squadra da sempre di bassa classifica e che il Deportivo era una squadra da sempre campione, che l’Estrella stava coronando una stagione miracolosa perché aveva un punto di vantaggio proprio sul Deportivo. E quella settimana infinita tra un fischio arbitrale e l’altro, in cui nessuno poté evitare di pensare a quel rigore e di calibrarvi il proprio destino, fu dovuta a motivi di ordine pubblico. E il tribunale della Lega decise di far giocare i venti secondi restanti della partita dopo una settimana. In pratica: far tornare le squadre in campo, far tirare il rigore e chiuderla lì. Non vi voglio svelare il finale. Il calcio di rigore è sempre un giallo, un thriller, una scarica di brividi.
Se il rigore è un giallo, un thriller, un noir, il cross – a modo suo – è molto di più: è un quadro: si pennella. Il cross è un canto: e incanta. Il cross è una poesia: si recita, anche a memoria, a occhi chiusi. In corsa, magari dopo una lunga corsa, sul primo palo, sul secondo, leggendo la difesa avversaria, prevedendo i movimenti delle compagne, calibrato come una palombella, teso come una rasoiata. Non è facile. Non è per niente facile. Ma è invitante, e può essere decisivo. Con un cross come si deve, fare gol è quasi inevitabile.
Il dribbling è acrobazia, volteggio, funambolismo. È forza fisica. È rapidità, agilità, frenesia. È finte e controfinte. Più che poker, è scherma. Due fiorettiste in pedana sono come due calciatrici in campo: un attimo di studio, poi attacco e difesa, con la differenza che nel calcio c’è il pallone e si sa chi attacca e chi difende, nella scherma sono tutt’e due attaccanti e difensori, tutt’e due difensori e attaccanti. Il dribbling regala l’immediata superiorità numerica: si schiude un uscio, si spalanca un cancello, si apre un mondo. Più che guardie e ladri, direi cowboy e indiani, carovane e praterie, vedi la porta e cerchi di arrivarci il più velocemente possibile. Il segreto sta nella finta. Garrincha, ala destra ai tempi del Brasile di Pelè, aveva la finta incorporata: una gamba più corta, ubriacava il terzino, lo confondeva, gli faceva incrociare le gambe, e poi scappava.
Il contropiede è una figata, vivrei solo di quello: riconquista del pallone, difesa alta, spazio infinito. È aria fresca. Il contropiede – adesso si usa di più ripartenza, ma è la stessa musica – è frenesia, fuga, evasione. Velocità.
Il pallonetto è un’intuizione. Il cucchiaio è un atto di presunzione o un eccesso di sicurezza, però coraggioso e bello, per i portieri è una beffa, in allenamento lo proviamo ma per ridere. Il tunnel è una sfida, chi lo esegue se ne vanta, chi lo subisce si arrabbia, in sé e per sé è un numero di abilità. Il colpo di tacco è un colpo di classe, il gol con un colpo di tacco è indimenticabile, anch’io, amichevole a Zurigo nel 2019, era l’unico modo per ricevere e deviare, spiazzare, un gesto spontaneo, istintivo, dovuto. E poi il catenaccio: noi italiani, tatticamente, in difesa siamo i più bravi, indispensabili attenzione, lucidità, armonia, penso ai tagli, e non mi si dica che il catenaccio è triste, la verità è che vince chi prende meno gol, tant’è vero che il primo comandamento del calcio è non prenderle.
Dicevo della velocità. Il calcio richiede velocità: nei pensieri, nei movimenti, nelle azioni. Il massimo è quando si è così veloci da giocare e trovarsi a occhi chiusi (oppure il contrario: che si è così veloci proprio perché si gioca e ci si trova a occhi chiusi). La velocità è la mia caratteristica. Credo di averla ereditata da mio padre. Lui era veloce, ma a quattro ruote. Leggeva «Quattroruote». E s’innamorava delle macchine, le cambiava come se fossero figurine, passando da un genere all’altro, ne dava dentro una e ne tirava fuori un’altra, e correva, correva gimcane. Se le ricorda tutte, le sue macchine. E le recita come se fosse la formazione della squadra del cuore. Nell’ordine: Abarth 112, ed era il 1977, poi Fiat 131, due Renault 5 Alpine, Golf GT, Renault 5 Alpine Turbo, Toyota fuoristrada Land Cruiser, Ritmo 105, Toyota BJ, Jeep Cherokee, Nissan Patrol fuoristrada, Tipo 2000, Lancia Delta integrale, un’altra Nissan Patrol, Ulisse, Pajero sette posti, Croma, Bmw X3, Jeep Kangaroo, più un furgone più altre per la mamma o per il lavoro. Spericolato, da solo, ma giudizioso, con i figli. Mio fratello ha ereditato questo amore per la velocità: ma con un’Ape o uno scooter o una macchinina i possibili danni erano più limitati. E io? Una Stilo ereditata dal papà, una Grande Punto ereditata da mio fratello, una Bravo, una Nissan Juke e adesso una Ypsilon nera della Juve. Con prudenza. Ma in auto o a piedi, è come se avessi sempre vissuto sulla corsia di sorpasso.
Squadra. Per me: Bricherasio, Torino, Brescia, Juventus, più la Nazionale, anzi, le Nazionali considerando Under 17, Under 19 e la Nazionale maggiore. La squadra è famiglia, una famiglia, una famiglia allargata. È banda, orchestra e coro. Fa gruppo e spogliatoio. È campo e panchina, titolari e riserve. È tutti per uno e uno per tutti, totale undici, senza contare le altre, pronte a entrare in partita. Ma ci vuole lo spirito giusto – lo spirito di squadra –, saper stare insieme, unite, solidali. Squadra è dare per poter ricevere, è pronto soccorso, mutuo soccorso, è essere e non solo avere. Squadra è collettivo, sostantivo collettivo e filosofia collettiva. Don Milani diceva: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia”. Se si sostituisce politica con calcio, o con altri sport, ecco che cosa significa fare, essere, diventare una squadra. Una squadra si crea, si costruisce, si consolida. Una squadra è la dimostrazione che uniti si vince (ma anche si pareggia o si perde). Una squadra è il noi, è il plurale maiestatis. Una squadra è dare del noi anche a me e a te, è dare del voi o del loro alle avversarie. Una squadra è cadere e risorgere, ma insieme, è vincere e perdere, ma ancora insieme, è collegare condividere compartecipare, ma sempre insieme. Una squadra è alleanza e complicità, e la complicità è più di una semplice alleanza, perché è un’alleanza più intima, più segreta, e per questo più magica, vincolata da un patto. Patto? No, da un legame. Legame? Sì, da un legame, da un vincolo, che si esprime attraverso codici verbali e gestuali, sonori e silenziosi, insomma, di amicizia. Una vittoria di squadra non è una vittoria divisa per il numero dei giocatori, ma è una vittoria moltiplicata per il numero dei giocatori, ed è questo che fa la differenza. Per questo non esiste nulla di meglio di una squadra, di una vera squadra, ed è per questo che amo lo sport di squadra, ti/mi regala quel senso di appartenenza, di proprietà, di complicità che altrove, ciao.
Certe squadre sono preghiere: Sarti Burgnich Facchetti (la grande Inter) Tagnin Guarneri Picchi (qui un bel respiro per il gran finale) Jair Mazzola Peirò Suarez Corso. Una volta si recitavano così: portiere e terzini, la mediana con lo stopper e il libero che sono scomparsi, l’attacco che comprendeva le due ali, le due mezzali e il centravanti o il centrattacco (archeologia calcistica, però quelle definizioni mi piacciono, un po’ come dire legionari e centurioni, fanti e cavalieri). Adesso, con il 4-3-3 o il 4-3-1-2 o il 5-3-2, e con le formazioni che cambiano a ogni partita, insomma, sarebbe diverso, e certe preghiere/formazioni non si recitano più. Le formazioni sono memoria: Bacigalupo Ballarin Maroso (il grande Torino). Si può cominciare dal portiere: Gilmar Djalma Santos Nilton Santos (il Brasile mondiale nel 1962, e Djalma e Nilton non erano fratelli). O dalla fine: Menti Loik Gabetto Mazzola Ossola (il grande Torino), o la più musicale Garrincha Didi Vavà Pelè Zagallo (lo stesso Brasile del 1962). Può valere addirittura come due poesie: Combi Rosetta Calligaris (Juventus, ma anche l’Italia mondiale nel 1934), oppure Zoff Gentile Cabrini (Juventus, ma anche l’Italia mondiale nel 1982). La mia poesia preferita? Bonucci Barzagli Chiellini, il tridente di difesa.
L’undici più amichevole? Ovvero la squadra delle mie amiche del cuore (5-3-2, prudente): Federica Russo; Francesca Coluccio, Jessica Bergantin, Cecilia Salvai, Francesca Sampietro, Stefania Zanoletti; Michela Franco, Martina Rosucci, Lisa Alborghetti; Daniela Sabatino, Stefania Tarenzi.
L’undici più valoroso? Ovvero le donne che hanno fatto la storia, non del calcio, ma dell’umanità (formazione classica): Maria; Eva, Cornelia, Madame Curie, Anna Frank; Giovanna d’Arco, Rosa Parks, Anna Magnani, Teresa di Calcutta; Rita Levi Montalcini, Margherita Hack.
L’undici più forte? Ovvero le donne più forti affrontate da avversarie (andiamo con il 4-3-3): Schult; Carpenter, Fischer, Houghton, Majri; Henry, Marozsan, Kumagai; Marta, Miedema, Gabbiadini.
L’undici più maschile? Ovvero gli uomini della mia personalissima squadra (per l’occasione adotto uno spregiudicato ma non troppo 4-3-3): Buffon; Zanetti, Maldini, Puyol, Roberto Carlos; Davids, Pirlo, Iniesta; Messi, Ibrahimović, Cristiano Ronaldo. Che ne dite? Potrebbe andare?
La partita perfetta non esiste, il risultato perfetto neppure, basta la vittoria, basta e avanza. Ma ci sono partite speciali, storiche, memorabili. Italia-Germania 4-3 ai Mondiali del 1970, lì successe di tutto, non devo stare qui a ripetere quell’altalena di gol, quella giostra di emozioni, tanto più che io non c’ero, ma chi c’era, chi la può raccontare, spiega che da quel giorno la sua vita è cambiata, e in meglio (parlo del versante italiano). Real Madrid-Barcellona 0-3 del 2005, gol di Eto’o e doppietta di Ronaldinho al Santiago Bernabeu, il primo gol del Gaucho saltando Sergio Ramos come un birillo, dribblando Helguera come un paletto, evitando Roberto Carlos come un fiorettista e gelando Casillas sul primo palo, il secondo gol paralizzando il povero Sergio Ramos e spiazzando Casillas sul secondo palo (e prima del match, pare che Ronaldinho avesse telefonato ai suoi compagni, anche nel cuore della notte, svelando che sarebbe stato il suo ultimo derby, il suo ultimo Clásico, e non era vero). Barcellona-PSG 6-1 del 2017, la inimmaginabile Remuntada, perché l’andata era finita 4-0 per i francesi. Juventus-Atlético Madrid 3-0 del 2019, con una tripletta di Cristiano Ronaldo.
C’è una partita di calcio che non si può/non si deve dimenticare, e che resta insuperabile. Si disputò il 24 dicembre – la vigilia di Natale – del 1914. In piena Prima guerra mondiale. Il conflitto era cominciato il 3 agosto, quasi cinque mesi prima, quando la Germania dichiarò guerra alla Francia. Il coinvolgimento si allargò, i combattimenti si estesero, il fronte si stabilizzò lungo una linea che partiva dal Mare del Nord e finiva in Svizzera. Già un milione di morti. Con l’avvicinarsi delle feste, le prime richieste di tregua, anche da parte del Papa, ma nessuna azione ufficiale. Senonché, alla vigilia di Natale, nelle Fiandre, vicino a Ypres, i soldati tedeschi cominciarono a decorare le trincee e a cantare inni natalizi, e i soldati britannici risposero a gesti, parole e no...