Quello che Finetta trovava irritante in sua madre non era la mancanza d’amore, ma piuttosto l’odio conclamato. La mancanza d’amore era facile da spiegare: sua madre aveva amato di più altre persone, il suo amore era circoscritto, ne aveva una quantità determinata da distribuire. Ma il suo odio era senza fine. Finetta aveva provato in mille modi a capire, ma aveva quarantaquattro anni ed era stanca. Era una cosa impossibile da spiegare e lei doveva accettarlo.
Verso sua figlia non provava molto, sia dell’uno sia dell’altro. Non l’amava e non la odiava. Provava un sentimento ambiguo verso di lei e il suo modo di essere; verso la sua presenza, per come si pettinava o serviva il tè. Sua figlia era una sconosciuta che si comportava da sconosciuta; era qualcosa che passava lasciando ben poche tracce, diversamente da suo figlio, per il quale provava un amore così paralizzante da riuscire soltanto a sorvegliarlo, costantemente, che fosse presente o no. A volte si domandava se aveva importanza, la modalità in bianco e nero in cui funzionava il suo cuore; ma cosa poteva farci? O provava qualcosa oppure non lo provava, e nessuno di questi due sentimenti (né l’ambivalenza né l’adorazione) l’aveva distolta dal compiere il proprio dovere. Li aveva nutriti e lavati entrambi, aveva divorziato dal loro padre e li aveva mandati a scuola il prima possibile, lontano. Erano cresciuti. E adesso si ritrovava nel ruolo per cui era nata e nel quale si sentiva al tempo stesso più e meno a suo agio: quello di accudire sua madre. La casa di riposo si trovava a Hampstead. Da fuori era carina, un grande palazzo di mattoni rossi in una via silenziosa, ma dall’interno era stata eliminata ogni traccia di bellezza: le luci erano sgradevoli, un ascensore non funzionava, c’erano tavoli in formica, letti singoli e lenzuola di nylon. Sua madre se li meritava tutti.
Mentre il bollitore si riscaldava lesse la lettera. Vengo martedì. Non c’è bisogno di dirglielo, anzi meglio di no. Non mi fermo tanto. Prima vuoi che pranziamo insieme? Verso le 13, solito posto? Ian.
Meglio non dirglielo, ma per fare un favore a chi? A lui? A lei? A sua madre? Ovviamente doveva comunicarlo alle infermiere (gradivano conoscere i nomi di tutti i visitatori), ma avrebbe messo le cose in chiaro. Avrebbe messo perfettamente in chiaro che non dovevano dire una parola finché non fosse arrivata lei. Sarebbe stata lei a dire C’è Ian. È venuto a trovarti. Non le infermiere, con la loro stupidità incontinente, perché avrebbero vuotato il sacco come se fosse una notizia eccitante. No. Sarebbe stata Finetta a dirglielo: forse avrebbe dovuto farlo aspettare fuori dalla porta, ma sarebbe stata lei a fare quella rivelazione, con cautela, premura e da una distanza sufficiente a schivare qualsiasi reazione. Sua madre forse la giudicava una tremenda scocciatrice, ma non era né crudele né stupida. Sapeva cosa significava tutto questo. Infilò di nuovo la lettera nella busta, la rimise sullo scaffale vicino al quaderno e prese tazza e piattino dall’armadietto.
Finetta era alta e molto bella. Aveva occhi azzurri con le palpebre un po’ cadenti, come la statua di una Nemesi, e un viso angoloso incorniciato da capelli scuri dolcemente ondulati senza bisogno di bigodini. Se li faceva tagliare all’altezza delle spalle e li portava pettinati all’indietro e fermati da una forcina, come una scolaretta. Era magra come sua madre, con mani eleganti che distoglievano l’attenzione degli uomini dal viso quand’erano alla disperata ricerca di un’altra parte di lei da guardare. Non indossava anelli: il suo matrimonio fallito era stato relegato nell’ultimo cassetto della scrivania.
Il bollitore si mise a fischiare, la teiera era già stata intiepidita sulla cucina economica. Mentre il tè restava in infusione, lei si sedette al tavolo con una trapunta sulle ginocchia e aprì la scatola del cucito. Doveva regalarla a sua madre per Natale, ma l’aveva quasi terminata. Mancava solo un riquadro. Poteva finirla quella mattina e consegnargliela il pomeriggio. Probabilmente ormai era meglio non aspettare date fatidiche come il Natale o i compleanni: davanti al deterioramento di sua madre erano diventate incerte. Chi poteva sapere se sarebbe sopravvissuta? Meglio finirla e regalargliela subito, prima che la morte le strisciasse ancora più vicina.
Era carina, le pezze erano state ricavate da vecchi vestiti e tende e cucite su una base di lino grezzo. A sua madre avrebbe fatto orrore, ma le infermiere avrebbero pensato che era un’ingrata, continuando a rimettergliela sul letto. Finetta si rallegrò al pensiero della confusione, della dolce prigione in cui sua madre era rinchiusa. Sistemò la trapunta in modo che non continuasse a caderle dalle ginocchia.
Iniziare qualcosa è facile, pensò mentre conficcava uno spillo. Iniziare dà la gioia tipica di quando non si sono commessi errori, di quando il mondo è libero e aperto, di quando non abbiamo detto ancora niente di ciò che poi dovremo rimangiarci, e non esistono rammendi approssimativi. Se la vita fosse fatta solo di inizi, con qualcun altro a occuparsi della difficile parte centrale e dell’orribile fine, sarebbe tutto molto più semplice. E più lieto. La gente non è fatta per cambiare; Dio non l’ha progettata bene. Invece la gente crolla, ma Dio che ne può sapere? È stato lui a combinare il pasticcio. Dio è un trucco inventato da persone troppo spaventate per pensare ad altro. Distese la trapunta sul tavolo. Niente male. Quasi tutti gli errori erano nascosti sotto il cotone stampato.
Si versò il tè e si mise di nuovo al tavolo della cucina, la trapunta sulle ginocchia. L’ago entrava e usciva dal ritaglio di seta rossa punteggiato di fiorellini bianchi e lei non lo perdeva di vista. Era abituata alle punture brucianti degli errori d’ago e sebbene già mille volte in precedenza avesse realizzato patchwork, rammendato calzini e ricucito gonne, ogni tanto si pungeva ancora e faceva sempre male.
Per un momento si fermò, bevve un po’ di tè e tirò su con il naso. Inverno. Che barba. Di notte si gelava, ma neanche di questo sua madre si lamentava. Se solo si fosse comportata normalmente, come tutte le altre donne che affollavano quel posto spaventoso, con fibre di carne impigliate tra i denti e le boule dell’acqua calda premute sulla pancia, che si asciugavano gli occhi lacrimosi con il dorso delle mani artritiche e si tormentavano a vicenda. Ma sua madre si rifiutava di lasciarsi tirare in ballo. Taceva, concentrata, la schiena diritta tranne quando volgeva lentamente gli occhi pieni di lacrime verso la figlia, non riusciva a sorriderle e poi guardava altrove. Non le chiedeva mai come stava, non la ringraziava mai quando Finetta andava in macchina fin quasi in città a comprarle delle calze nuove, non diceva mai un grazie che fosse uno.
Con le caviglie incrociate, un golfino di cashmere buttato sulle spalle e una stufetta elettrica con le tre barre roventi piazzata al centro della cucina, Finetta sembrava un fiore ormai abituato a crescere al buio. La cosa che più le interessava, l’imperativo assoluto che dava una forma alla sua vita, era la precisione. Il tè bevuto prima di mangiare il pane tostato, una trapunta prima di morire, il pranzo annuale con suo fratello. Rigirò la trapunta, annodò il filo e lo spezzò con i denti. L’ultima pezza veniva da una coperta che era stata divorata dalle tarme. A lei non era mai piaciuta. Le ricordava la povertà .
La cucina economica riversava il suo calore lento sulle piastrelle pulite, sulle superfici vuote, sul lavello lucidato. Armadietti, piani di lavoro e pavimento erano di diverse tonalità di marrone chiaro. Finetta aveva scoperto che era un colore molto facile da far sembrare pulito. Prese mezza forma di pane dal portapane, un tagliere da dietro il lavello, un coltello dal cassetto e si tagliò una fetta. Tè, pane tostato, precisione, trapunte, sua madre, e ogni tanto il pomeriggio, quando non aveva niente da fare, preparava il fudge (ormai ne aveva scatole piene che non riusciva a smaltire): quelle cose la tenevano occupata. Da bambina aveva l’album degli uccelli. Allora era tutto più facile: i suoi pensieri non avevano sviluppato i profili taglienti che avevano ora, l’idea sottile ma insistente che avrebbe capito più cose, se solo li avesse messi in pratica. Quand’era bambina erano singoli ritagli isolati che lei sostituiva facilmente con l’immagine di un pettirosso. Adesso doveva distogliere bruscamente lo sguardo se voleva evitare di vedere quel che i suoi pensieri si portavano dietro. Ma era forte. Non si sarebbe lasciata tirare in ballo. Non serviva a niente.
In piedi vicino al piano di lavoro, si imburrò la fetta di pane. E poi era troppo vecchia per arrabbiarsi. Avrebbe tanto voluto che quei sentimenti scomparissero. Non ne aveva alcun bisogno e da parte loro era molto maleducato, nella sua cucina tranquilla, pensare di potersi intromettere mentre lei doveva vestirsi e prepararsi per un giorno normale con solo una piccola imperfezione. Avevano cominciato a interferire sempre di più, infilandosi dentro finché le era sembrato normale trovarseli al di qua della porta, seduti sul pavimento della cucina, accovacciati ai piedi della sedia. Presto sarebbero riusciti a raggiungere la camera da letto. E a quel punto per tenerli a bada avrebbe dovuto prendere un sonnifero.
Aveva passato la vita a credere che le cose potessero essere classificate, divise con forbici e nastro adesivo, etichettate e fissate senza rischiare che un’immagine prendesse di nascosto il sopravvento sulle altre. Aveva avuto la pagina di sua madre, dove lei era Ordinata, Solenne, Tranquilla fino a rasentare la Fede religiosa. Sulla pagina di sua zia c’erano le Buone Maniere, le Chiacchiere Divertenti e i Pettegolezzi. Con suo padre era Carina e Allegra, con suo fratello Indifferente e Stoica: e tutto aveva funzionato sorprendentemente bene fino a quando non era cresciuta ed era uscita di casa. Ma da adulta, il sovrapporsi di innamoramenti, bambini e divorzio aveva reso opachi quei ritagli e quand’era tornata alle pagine aveva scoperto che i colori si erano mischiati. Ora chi poteva essere per suo fratello? Perché con sua madre non funzionava più fare l’Ordinata? Era come se la sopravvivenza fosse un debito da saldare sottoponendosi a un esame spaventoso. Non voleva separare quelle immagini appiccicate tra loro. Non voleva guardare. Avrebbe dovuto dire a sua madre di andare a quel paese, ma era posseduta da una bambina con i codini e un album degli uccelli che cercava di versare il tè senza spanderne una goccia. E che ne era stato della lealtà ? Eppure tornava, una settimana dopo l’altra, a occuparsi di quella vita in via di dissolvimento come se le avesse mai offerto calore. Suo fratello diceva che era una scema, eppure più invecchiava più giovane diventava. Era stata benissimo per quarantaquattro anni rifiutandosi di lasciarsi influenzare da alcunché. Perché cominciare ora? Ma come tutto il resto dell’infanzia, che la sorprendeva strisciandole alle spalle, sentiva che questa cosa sfuggiva al suo controllo.
Si strofinò con l’angolo del palmo il petto, avrebbe voluto metterne il contenuto nel lavello con la tazza, lavarlo e far scorrere via l’acqua. Ma ovviamente non poteva. Doveva stringere i denti, salire di sopra e vestirsi. Tenne ben stretto il manico del coltello mentre sciacquava la lama sotto il getto bollente.
In bagno si esaminò la faccia. Pensò che tutto sommato poteva andare, e si sfiorò le labbra con la punta delle dita. Lo pensava sempre, mentre si allontanava dalla propria immagine riflessa. Può andare. Sapeva di essere stata molto bella, e lo sapeva come se fosse un dato di fatto riportato in un volume della London Library. Lo dicevano tutti e gli uomini, be’, la occhieggiavano, ma lei vedeva solo qualcosa di appuntito e affilato. Vedeva gli occhi di sua madre e la bocca di sua madre, e avrebbe voluto che non fosse così.
Mentre faceva scorrere l’acqua nella vasca credette di sentir suonare il telefono. Chiuse i rubinetti e aprì la porta del bagno, ma la casa era immobile e silenziosa come sempre. Niente. Chiuse la porta e riaprì i rubinetti. Si spogliò, appese il golfino di cashmere allo schienale della sedia sul cui sedile mise, attentamente ripiegata, la camicia da notte. Riconoscente, entrò nell’acqua profonda e calda. Grazie a Dio avevano fatto riparare lo scaldabagno. L’acqua era bollente. Ma proprio mentre rilassava la testa all’indietro e l’acqua la inghiottiva, il telefono ricominciò a squillare.
Maledizione, pensò, mentre agitava l’acqua con le gambe e usciva dalla vasca. Si mise intorno un asciugamano e scese di sotto, le spalle umide, le punte dei capelli gocciolanti.
Dalla sua poltrona vicino alla finestra, Enid fissava gli alberi che si piegavano, ondeggiavano e minacciavano di scrollarsi di dosso i piccioni che c’erano appollaiati. La sua immagine riflessa nel vetro sembrava quella di uno spettro. La luce accentuava la pelle raggrinzita, le guance cadenti, la maniera in cui la bocca si era assottigliata. Le mani, conserte in grembo, lasciavano intravedere le ossa ed erano contorte e tremanti, dando un’impressione sbagliata.
Cercava di non pensare a sua sorella. Ce la stava mettendo tutta. L’aveva cancellata quasi completamente, si era liberata quasi del tutto di lei, ma quella mattina era tornata fuori, in superficie, come un relitto, presente come se fosse lì nella stanza: la Joan viva e vegeta che forse, da qualche parte, viveva e vegetava ancora. Enid riusciva quasi a sentire il suo odore di tabacco turco, gin e un accenno d’acqua di lavanda, riusciva quasi a vedere le ossa sfacciate che le spianavano il viso, gli occhi tondi come globi, le palpebre pesanti aperte su isole azzurre con un cuore nero. Uno di questi giorni non sarebbe stato soltanto un ricordo, ma le sarebbe apparso proprio il suo spirito, venuto a scusarsi.
Però ora era un ricordo, e sebbene chiudesse gli occhi e li riaprisse, sebbene fissasse gli alberi e contasse i piccioni e scommettesse con se stessa su quale sarebbe volato via per primo, sua sorella si sovrapponeva a tutto il resto, velandolo come un fantasma di cui non riusciva a liberarsi.
Le sue dita giocherellavano con un anello che portava alla sinistra; uno smeraldo circondato da diamanti su una fascia d’oro scuro. Voluminosi e d’età indefinita, come pezzi di legno arenatisi su una spiaggia, i gioielli luccicavano sulla pelle che aveva perso il grasso ed era diventata del colore della sabbia schizzata di fango. Una volta, anche dopo che Joan le si era messa contro, Enid era stata giovane e bella; sempre più giovane e bella di Joan, e forse questo era il motivo più futile. Solo questo. A dimostrarlo aveva anche un ritratto dipinto da Augustus John; la testa appena girata, la mano a metà di un gesto, come se fosse sul punto di dire qualcosa. Infatti era proprio così, anche se non ricordava cosa. Il quadro l’aveva seguita nei traslochi, da un corridoio all’altro, ed era finito lì, su un comodino della Hawthorne Christian Science House.
Premette i pollici contro la parte superiore delle orbite, facendosi venire il mal di testa. Avrebbe voluto smettere di pensare a lei. Come il televisore del piano di sotto, che sparava a raffica immagini di soldati americani nel soggiorno squallido della casa di riposo, Joan aveva trasformato una pianura stanca in un teatro di guerra. La rabbia dormiente e il dolore ossessivo si erano svegliati e si erano messi a urlare, il male si era palesato in tutto il suo splendore e i pensieri di Enid erano diventati furie, un campo di battaglia pieno di sangue e trincee. In giorni come quelli era impossibile passare da un lato all’altro della mente senza cadere in un buco, inciampare in un osso scheggiato o strapparsi la gonna sul filo spinato; era il suo Vietnam, o la sua Gallipoli; una carneficina, nel suo cervello, che non era in grado di fermare.
Qualcuno bussò alla porta.
«Enid?» Era Carol, una delle infermiere. La grassa Carol con gli occhi da maialino, venuta a spazzolarle i capelli e a ripulirla, a prepararla per la visita settimanale di Finetta.
Sua figlia veniva sempre di martedì ed era molto esigente riguardo a come veniva trattata Enid: notava i più piccoli dettagli, come una smagliatura nelle calze o se le avevano limato le unghie. Enid non capiva perché si prendesse tanta briga. Se puntava all’eredità , non era rimasto niente; Finetta avrebbe dovuto essere la prima a saperlo. Giocherellò con l’anello e si mise a farl...