Parità in pillole
eBook - ePub

Parità in pillole

Impara a combattere le piccole e grandi discriminazioni quotidiane

  1. 208 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Parità in pillole

Impara a combattere le piccole e grandi discriminazioni quotidiane

Informazioni su questo libro

Perché Parità in pillole? E che cosa contengono queste pillole? Per rispondere alla prima domanda, basta guardarsi attorno. Viviamo in una società "a gradini" che ancora oggi offre opportunità diverse a soggetti con caratteristiche differenti: non solo a uomini e donne, ma anche a bianchi e neri, persone etero- e omosessuali e via dicendo. Siamo talmente abituati a vederci attorniati da queste situazioni di privilegio e discriminazione che talvolta non le riconosciamo neppure come tali o le consideriamo "normali". Ma siamo sicuri che, a prescindere dalla nostra personale condizione di privilegio, possiamo vivere sereni in un mondo in cui una donna, a pari mansioni e competenze, guadagna meno di un uomo, o dove chi non risponde a canoni estetici più o meno espliciti si vergogna e magari non trova nemmeno lavoro, o dove un uomo non può permettersi di essere emotivo? Ecco, quindi, il senso di questo libro: offrire uno strumento per costruire rapporti paritari e porre le basi per una società davvero inclusiva, dove tutti, anche coloro che stanno in posizioni di potere, possano trarne beneficio e vivere meglio. A questo scopo - passiamo ora al contenuto delle pillole -, l'autrice Irene Facheris esamina una a una le discriminazioni più diffuse (dalla rape culture al sessismo benevolo, dalla omobitransfobia al classismo) per invitare tutte e tutti a diffondere attivamente una sensibilità nuova. Perché - come spiega Facheris - "il personale è politico" ovvero, se il mio problema è diffuso, non è più solo mio e insieme possiamo affrontarlo più efficacemente. E, solo insieme, scopriremo quanto la parità possa renderci felici.

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2020
Print ISBN
9788817144469
1

IL CONCETTO DI PRIVILEGIO

Illustrazione: appunto con scritto “Ricordati di controllare il tuo privilegio”
Tutti noi abbiamo dei problemi. Non c’è individuo che possa dire di non avere questioni aperte, difficoltà da affrontare, grane da risolvere. Indipendentemente da quanto sia in salute, benestante, amato. E se abbiamo un problema, qualcosa che ci tiene svegli di notte, il fatto di essere in salute, benestanti, e amati non fa scomparire le nostre preoccupazioni o il nostro dolore.
Questo va detto subito: quando si soffre, si soffre a prescindere da quanto ci si possa trovare in una condizione di agio.
Ricordo bene quanto stavo male, da piccola, quando per qualche ragione litigavo con i miei genitori, ricordo la preoccupazione di non riuscire a tenere il passo con tutte le lezioni che seguivo per il mio corso di laurea, ricordo la paura quando a sedici anni ho rischiato di morire per una peritonite non diagnosticata, ricordo ogni delusione d’amore. In tutte quelle situazioni, sono stata male. E il mio malessere per me era importante, era totale.
Ma devo tenere conto anche di un altro pezzo della realtà: litigavo con i miei genitori perché sono cresciuta in una casa con entrambi i genitori, mi preoccupava tenere il passo con i corsi universitari ma non ho mai dovuto preoccuparmi di pagare la retta, ho rischiato di morire ma sono stata ricoverata in un ospedale nel quale, due ore dopo essere entrata, ero già in sala operatoria (e non ho dovuto sborsare una lira), l’amore mi ha delusa molte volte ma non sono mai stata insultata o picchiata perché per strada tenevo la mano al mio ragazzo.
Se guardo il quadro completo, non posso fare a meno di considerare i miei tanti privilegi.
Questo significa che non ho il diritto di stare male? Certo che ce l’ho! La mia esperienza soggettiva è valida, è sacra, sentire dolore è un mio triste diritto. Ammettere di avere dei privilegi non toglie importanza alle mie esperienze personali, solo mi dà la possibilità di essere utile ad altri, che magari hanno meno privilegi di me.

PILLOLA

Ognuno di noi, per quanto possa essere discriminato,
è privilegiato rispetto a qualcun altro.
Sono una donna che vive in Italia, per strada me ne hanno dette di tutti i colori, dal «Ciao bella» al «Quanto prendi?». Ogni volta ci sto male, ogni volta mi sento sporca, in colpa, piena di vergogna, come se avessi fatto qualcosa per meritarmelo. È tremendo e so che moltissime donne possono capirmi. Però, ad esempio, non hanno mai pensato di me che fossi una “facile” per il colore della mia pelle, le mie origini non sono mai diventate un feticcio per uno sconosciuto. Questo perché ho il privilegio di essere bianca. Le mie amiche nere, oltre a provare tutte le cose che ho provato io, ne hanno provate anche altre, sempre terribili, solo per il fatto di essere donne nere.
Come faccio a non tenere a mente una cosa così importante? Come faccio a non pensare che, proprio in quanto bianca, sarebbe bene che io spendessi qualche parola per essere d’aiuto a chi non è bianco e quindi non ha questo privilegio?
Anche essere eterosessuale è uno dei miei privilegi. Certo, i parenti potranno dirmi che il mio ragazzo non gli piace e che non devo portarlo a casa perché non è il benvenuto. Ma nessuno penserebbe mai di cacciare di casa me, né di picchiarmi o rinnegarmi. Nessuno mi direbbe mai «preferirei vederti morta che con lui». Quella che per la mia esperienza sarebbe fantascienza è realtà per moltissimi miei amici che fanno parte della comunità LGBTQ+. Come faccio a non ripetere ogni volta che posso che «l’amore è amore», se so che le persone che non lo pensano sono più portate ad ascoltarlo se lo dico io, eterosessuale e quindi percepita come più vicina a loro?
Naturalmente i privilegi non sono colpe, evitiamo perciò di prendere la via del masochismo per cui «sono nata nella bambagia e per questo ora devo soffrire, per non correre il rischio di essere ingrata».
Non ho scelto di nascere bianca, così come non ho scelto di nascere eterosessuale: è capitato, non è un mio “merito” così come non è una mia “colpa”. Ma è una mia responsabilità usare questa fortuna casuale per dare una mano a chi è nato senza gli stessi privilegi. Ricordandomi sempre che il mio privilegio non rende meno veri i miei sentimenti e meno profondo il dolore che posso provare per le mie vicende personali.
Posso stare malissimo per cose che sono capitate a me personalmente e avere comunque un privilegio. Chi ha dei privilegi non è immune alle sofferenze, semplicemente ha una carta da giocare per lenire, almeno in parte, quelle degli altri.
Non deve diventare una gara a chi soffre di più, non è quello il senso. E comunque, chi è il genio che vuole vincerla, questa gara?

PILLOLA

Giacché sei stato fortunato, hai la responsabilità di usare
la tua fortuna per aiutare chi non l’ha avuta.
Bisogna però stare attenti a non eccedere nel senso opposto, cominciando a credersi i salvatori del mondo solo perché si ha un privilegio. Perché se è vero che nessuno sceglie di essere bianco ed eterosessuale, allora non possiamo trattare queste nostre caratteristiche come se fossero un merito e soprattutto non è il caso di pensare a noi stessi come a degli eroi ogni volta che ci battiamo per gli altri. Se vediamo qualcuno che ha bisogno di aiuto e noi siamo nelle condizioni di aiutarlo e lo facciamo, non siamo dei supereroi: siamo degli esseri umani decenti. Dovrebbe essere il minimo sforzo richiesto, non un gesto eclatante, da applaudire. Anche perché c’è il rischio che poi non si parli più di come fare per evitare che ricapitino situazioni del genere, ma solo di quanto siamo stati bravi noi. Se le nostre azioni vengono lodate fino a spingerci sotto i riflettori, nessuno presterà più attenzione alla persona che abbiamo aiutato, che invece deve essere al centro del discorso. E se noi, che in quanto privilegiati abbiamo il potere di dire: «Scusate, invece di parlare di me, possiamo parlare di lui, che mi sembra più importante?» non lo facciamo, non abbiamo come obiettivo quello di aiutare gli altri, siamo solo a caccia di complimenti. Comprensibile, ma per nulla utile.

Sessisti si nasce

Quando faccio certi discorsi, soprattutto online, ricevo moltissimi complimenti.
«Oh, Irene, vorrei essere come te! Sei un esempio! Non ti meritiamo!»
Sono frasi che saziano il mio ego, ma in fondo so bene quanto non rispecchino la realtà.
Trovo che mettere una persona su un piedistallo sia pericoloso, non solo perché non potrà fare altro che deluderci, ma anche perché corriamo il rischio di cominciare a pensare che non riusciremo mai a essere come lei, perché lei è evidentemente perfetta, lo è sempre stata, non può che essere così.
D’altra parte, qualunque obiettivo, se percepito come irraggiungibile, semplicemente smette di essere perseguito.
Per questa ragione ho cominciato a pubblicare su Instagram alcuni post scritti tanti anni fa su Facebook. Avete presente quella notifica terribile che ogni tanto ti dice: «Guarda che cavolate scrivevi sei anni fa oggi»? Ecco, ogni volta che ci clicco sopra mi vergogno come una ladra.
Frasi sulle “vere donne”, sull’importanza di essere formose perché «le ossa diamole ai cani», filippiche denigratorie nei confronti di ragazze sessualmente libere.
Le leggo, divento rossa, poi faccio uno screenshot dal telefono e lo pubblico su Instagram con la data di quando l’ho scritto. La didascalia che aggiungo è quasi sempre la stessa: questo l’ho scritto io tot anni fa, se ce l’ho fatta io a cambiare, ce la possono fare tutti.
Perché lo faccio? Perché voglio che le persone capiscano che non si nasce pensando già tutte le belle cose di cui ci occuperemo nel libro, non in questa società.
In questa società si nasce sessisti.
Il sessismo, ci dice Treccani, è un «termine coniato nell’ambito dei movimenti femministi degli anni Sessanta del Novecento per indicare l’atteggiamento di chi (uomo o donna) tende a giustificare, promuovere o difendere l’idea dell’inferiorità del sesso femminile rispetto a quello maschile e la conseguente discriminazione operata nei confronti delle donne in campo sociopolitico, culturale, professionale, o semplicemente interpersonale».
Il sessismo è ovunque attorno a noi, dal collega che insinua che abbiamo ottenuto il lavoro grazie ad altro che non siano le nostre competenze, alla pubblicità che per venderti qualsiasi cosa (uno yogurt, un paio di jeans, un’auto…) utilizza una donna seminuda in posizioni sessualmente esplicite.
Il sessismo è quel meccanismo che ci porta a fare battute obsolete, scontate e di cattivo gusto con il pilota automatico. Volete un esempio? Non dobbiamo andare troppo lontano.
Nel 2015 ho pubblicato sul mio canale YouTube un video dove recensivo il film tratto da Cinquanta sfumature di grigio, il primo libro della serie.
Sperando (per voi) che non abbiate visto il film, vi riassumo la trama per darvi un po’ di contesto.
Anastasia è una giovane laureata, poco incline alla vita sociale, timida, vergine.
Christian è un trentenne ricchissimo con dei problemi di possessività che crede che praticare il BDSM (bondage, dominazione o disciplina, sadismo e masochismo) voglia dire dare ordini alle donne decidendo per loro quando debbano mangiare, spogliarsi o mordersi il labbro, nonostante queste non siano d’accordo con le modalità.
Si incontrano per puro caso e lei scambia i problemi di lui (intendiamoci, il BDSM non è un problema, ma quello di Christian non è BDSM) per desiderio di protezione e lo trova sexy.
Arriva la scena della loro prima volta, lui la spoglia (perché a quanto pare se sei una ragazza timida non sei in grado di toglierti i jeans – e come sempre grazie per questa rappresentazione del genere femminile) e in controluce si vedono i peli sulle cosce di lei.
Io, in quel momento, do il peggio di me.
«Ma insomma, è mai possibile che giri una scena di sesso e non ti depili, ti avranno pur avvertita del giorno in cui avreste filmato quella scena, come ti viene in mente di non depilarti…»
Non contenta, faccio partire un hashtag: #pelisullecosce.
L’hashtag comincia a girare, sia nei commenti sotto al video sia su Twitter, tutti e tutte si fanno delle grandi risate denigrando i peli sulle cosce dell’attrice. A ripensarci, sento il bisogno di sotterrarmi dalla vergogna. Ora, a distanza di anni, dopo aver studiato, seguito corsi di approfondimento e soprattutto dopo avere ascoltato l’esperienza di tante donne, so dare un nome a quell’hashtag e cioè body shaming (ce ne occuperemo più avanti, da pagina 86 in poi). Ho fatto della comicità spicciola usando come espediente il corpo di una donna, sostenendo (neanche troppo velatamente) che avrebbe dovuto vergognarsene. Un’onta terribile che difficilmente laverò via, eppure ai tempi mi sembrava una battuta normalissima. Perché? Perché sono cresciuta in una società che molto di frequente utilizza il corpo delle donne come punchline (dicasi punchline la parte finale della battuta, quella che scatena la risata), perché pare che tutti e tutte possano mettere bocca sul corpo delle altre donne, perché così si è sempre fatto, perché sessisti si nasce.
È un po’ come quando acquisti un pc con un sistema operativo già installato.
Di solito, non ti fai troppe domande, cominci a usarlo e basta. Magari in futuro ti renderai conto di quanto sia diventato obsoleto e lo aggiornerai, oppure dovrai farci talmente poche cose che nemmeno ti renderai conto di poter avere una macchina superiore a costo zero, semplicemente riavviando e lasciando al pc il tempo di installare i nuovi programmi.
Certo che l’ultimo sistema operativo è migliore del primo messo in commercio, ma non è che tu hai scelto il primo perché ti piaceva di più, è che… quello c’era! Gli aggiornamenti, i miglioramenti, arrivano con il tempo.
Con le idee sessiste, funziona allo stesso modo. Io non mi sono mai fermata a pensare: “Perché credo che una donna debba depilarsi?”, semplicemente, quello era il mio sistema operativo e con quello provavo a lavorare. Ho capito che quei pensieri non erano realmente miei quando li ho messi in discussione e li ho messi in discussione quando mi sono accorta che le performance del pc nella mia testa non erano più sufficienti per fare le cose che avevo bisogno di fare.
Allora, e solo allora, ho deciso di prendermi del tempo per… aggiornarmi.
E adesso, tornare indietro sarebbe impossibile.
Qualche anno dopo, una mia amica di dieci anni più giovane di me mi ha chiesto di poter riutilizzare quell’hashtag, con un significato diverso. Era estate e il suo pensiero è stato: se una donna vuole depilarsi, che si depili. Se vuole tenersi i peli, che se li tenga. Dei vostri #pelisullecosce siete libere di decidere per voi stesse. Sono stata molto contenta di questo nuovo significato dato all’hashtag, che mi ha confermato due cose: la prima è che c’è sempre un modo per rimediare a errori di questo tipo e la seconda è che le nuove generazioni ci salveranno.

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Parità in pillole
  4. Premessa
  5. 1. Il concetto di privilegio
  6. 2. Il personale è politico
  7. 3. Il femminismo
  8. 4. Discriminazioni quotidiane
  9. 5. Molestie
  10. 6. Discriminazioni sul lavoro
  11. 7. Intervallo: sorellanza a tutti i costi?
  12. 8. E gli uomini?
  13. 9. Linguaggio
  14. 10. Che altro c’è?
  15. Chi sono e perché ho voluto scrivere questo libro
  16. Copyright