Mar di Sicilia, maggio 2006
È scomparso l’orizzonte. Cielo e mare si mischiano nell’oscurità che si stringe intorno, sempre più cupa. Il vento flagella le onde che schizzano, facendo tremare le gambe anchilosate dai crampi e dal freddo. Il pianto disperato di un neonato s’intrufola tra le grida della natura, peggiorando le cose.
Sul fondo dello Zodiac si è creata una piccola pozza oleosa di sale e carburante, che oscillando mi brucia le caviglie e penetra negli scarponcini che mi ha regalato baba. Se penso a lui, divento ancora più debole. Mi sforzo di concentrarmi sui dettagli intorno, la mente impaurita e imprevedibile. Fisso il salwar kameeza incollato alle cosce gelate. Respiro l’odore acre del mio vicino, che risale dalle narici fino al centro della fronte.
È uno dei pakistani. Ci hanno calato dal ponte della Fortitude in questo gommone, facendoci scivolare sulla fiancata del mercantile come quei grossi parabordi panciuti. Io però non ero rimasta nella stiva, al buio, per settimane. Mi hanno guardato col rancore che si riserva ai privilegiati, quando le cose vanno male. Non potevano sapere perché non ero insieme a loro. Non conoscono la mia storia.
Comunque la loro ostilità è durata un attimo, perché poco a poco il peso del nostro gruppo si aggiungeva a quello dei dieci sul gommone, che si sono messi a protestare: lo Zodiac sprofondava sempre di più e il mare cominciava a sputarci dentro. Gli altri migranti non ci volevano a bordo, ma è bastata una sfuriata dell’uomo col coltello per farli tacere.
Sono salpati dalla Libia o dalla Tunisia, non ho capito. Da un posto che si chiama Zuwarah. Non so che gli è successo prima che ci raccattassero in mezzo al mare, ma a guardarli stanno peggio di noi. Sono sparsi intorno in posizioni contorte e innaturali, abbandonati come cadaveri. Hanno facce svuotate, simili a maschere, col bianco degli occhi che luccica sulla pelle nera incrostata di sale.
Ce n’è uno senza maglietta, magrissimo, con la schiena rigata da ferite tumefatte. Se ne sta sdraiato con la pancia contro il tubolare gonfiabile e ogni tanto gira la testa verso di me, le palpebre si sollevano e i suoi grandi occhi vacui mi fissano. Sto in attesa, aspettando che mi dica qualcosa, ma lui perde le forze e si spegne.
Ci sono tre donne, oltre a me, afflosciate dalla stanchezza. Una tiene in braccio il neonato che non smette di piangere; un’altra è acciambellata intorno alla propria pancia, assalita dal panico a intervalli regolari; sembra che stia per partorire. Supplica Zara, sedutale accanto, di aiutarla. L’amica le posa una mano sulla fronte sudata e ripete il suo nome: «Kira, Kira, Kira». Zara ha una faccia vivace, con gli zigomi sporgenti e un piccolo naso dritto. Da sotto il turbante variopinto, mi lancia un’occhiata avveduta e indifferente che mi fa sentire ancora più sola, se possibile. Mi sembra che i suoi occhi mi vedano dentro, ma qui quello che provo non conta.
Ci sono due ragazzini che avranno la mia età , forse anche meno. Le loro lunghe gambe sono ripiegate contro il corpo, sullo scafo; sono unti e lambiti dal gasolio come isole nere. Con bottiglie di plastica tagliate, raccolgono l’acqua sul fondo per gettarla fuori bordo e tengono lo sguardo fisso sull’orizzonte, che perde definizione anche nelle nostre menti.
Il silenzio è carico dell’umiltà che riporta alle origini, a quello che ci è familiare e che stiamo abbandonando. Ecco, insieme al sole cala la realtà , spariscono le oasi e ci ritroviamo nei nostri deserti. Allora il mio isolamento in mezzo a questa gente con cui non ho nessun rapporto, il pianto del bambino che sembra un malaugurio, l’unghia di luce che s’inabissa nella pozza nera del mare, tutte queste cose insieme fanno affiorare in testa le formule di Dio.
Ma è come ripetere le tabelline. Quando ho smesso di crederci?
Levitiamo e ci abbattiamo sui cavalloni che s’inseguono. È un terrore monotono, come i giorni di guerra a Kabul. Oltre al fragore del mare e al ronzare alienante del motore, percepisco una quiete nuova intorno a me. Anche il neonato tace. Dei raggi di luna freddi come neon si posano sulla scia di migranti addormentati sul gommone. Ce n’è uno che vomita fuori bordo, poi si raddrizza e chiude gli occhi per un minuto. È di nuovo scosso dai conati. Allora resta accucciato con la testa protesa e ricomincia.
Lo scafista imbalsamato al timone fissa lo sguardo torbido sulla bussola. Quello che mi fa paura, invece, col coltello stretto tra le cosce e la lama rivolta verso di noi, ha conquistato un posto asciutto per allungarsi. Sta russando e mi irrita. Ho lo stomaco strizzato in un pugno, infilo una mano nella custodia di plastica sotto il vestito. Spezzo un biscotto e lo porto discretamente alle labbra; le briciole scendono a fatica lungo la gola secca, mischiandosi al sale e alla nausea costante.
Si chiamano Butter Puff, i biscotti. Il capitano della Fortitude mi ha lanciato il pacchetto quasi vuoto nel momento in cui stavo per lasciare la nave. L’ho preso al volo, sentendomi come il leone scheletrico dello zoo di Kabul, cui tiravano i resti di qualsiasi porcheria. Immagino che il capitano li tenesse nella cabina di comando da un po’ perché sono tutti molli.
L’uomo senza maglietta trema. Gira la faccia con le guance incavate verso di me, il bianco degli occhi che risplende come la prima stella della sera. Mi chiedo cosa ci sia, dietro i suoi tratti sfiniti: se ha ancora sua madre, una moglie che spera che arrivi da qualche parte, dei figli piccoli, magari un fratello gemello cui è andata meglio. So che dovrei conservarlo per me, ma gli do il resto del biscotto. Lo afferra e lo divora, lasciando fuoriuscire dei pezzetti dalle labbra aride. Deve aver finito le sue provviste da un pezzo, se mai ne ha avute. Allora, finalmente, sento la sua voce: «Gli portiamo la forza!».
Stendo le labbra in un sorriso, per non scoraggiarlo. Abbracciato al tubolare con le spalle ferite e tremanti, non sembra possedere nessuna forza. Però parla molto forte: «È la seconda volta che ci provo. Ne ho visti affogare tanti. Non importa a nessuno. Se non affoghiamo e ci prendono, ci rimandano in Libia, di nuovo in prigione. Perché ci trattano da nemici, fanno nuove leggi contro di noi. Ci chiamano clandestini, ci frustano e ci umiliano, ma non riusciranno a fermarci».
C’è qualcosa di sbagliato nello sfinimento di quest’uomo. Mi sembra pazzo. Lentamente allunga un braccio e raccoglie acqua di mare nel palmo, portandola alla bocca. Lo sanno pure i bambini che l’acqua salata fa morire di sete. Per impedirgli di bere, scuoto la sua mano. Ha i polpastrelli lisci, gonfi, bollenti come salsicce. Il ribrezzo mi fa ritrarre di scatto. Lui dice: «Bisogna bruciare le nostre impronte, per ricominciare».
Zara ci sta osservando dal lato opposto dello Zodiac. D’un tratto scosta il vicino muovendo il suo sedere carnoso, dice: «Vieni qui, tesoro, quello è scemo».
Io non oso alzarmi. Se cado in mare, nessuno mi ripesca. Basta un movimento sbagliato. Mi piacerebbe stare accanto a lei, però. Rimango a pensarci, valutando il tappeto umano che ci separa.
Poi Kira grida. Ha una voce cavernosa, vibrante di dolore, forse di paura. Qualcosa che mi fa venire la pelle d’oca.
Zara dice: «Oh cazzo, questa partorisce!».
Nessuno intorno sembra averla sentita. Sul gommone regna l’apatia, se non l’indifferenza. Lei non si dà per vinta: «Aiutatemi a farla stendere!».
Ma nessuno si muove.
«Aiutami!» Si aggrappa al vestito della donna col neonato in braccio, che scuote il capo risoluta. Non è disposta a lasciare il suo bambino. Intanto Kira si lamenta a intervalli sempre più regolari. Le acque devono essersi rotte da un po’, colate in un piccolo mare di gasolio. Zara si affanna per trovare il modo di farla sedere con il bacino al di sopra di quella pozza scura, la schiena contro il tubolare.
Finalmente i due ragazzini reagiscono, si spogliano dei logori giubbotti salvagente e ci fanno scivolare sopra Kira. Zara si volta verso di me: «Aiutami tu».
La sua voce ha perso energia, la richiesta somiglia a una supplica. Allora mi alzo facendo attenzione a non perdere l’equilibrio, ma le gambe indolenzite non reggono e mi accuccio sullo scafo immergendo la mano in quel liquido viscido in cui galleggia una mela marcia. Avanzo a tentoni, cercando di non calpestare nessuno, anche se sono costretta a tenermi a una testa lanosa e un paio di volte i miei scarponcini provocano guaiti di dolore.
Quando la raggiungo, dice: «Laviamoci le mani». Ci sporgiamo oltre il bordo e la schiuma sollevata dall’imbarcazione mi avvolge le braccia, schizzandomi in faccia e sul petto. È tiepida, ma il vento la rende gelida sulla pelle. Anche se non è il freddo a farmi tremare, ma il timore di quello che sta per succedere.
Dico: «Sei capace?».
«L’ho fatto a Misurata, con Kira eravamo in prigione insieme. Succedono cose…» Il suo tono ambiguo sembra celare un sottinteso. Poi mi afferra per le spalle e dice: «Ha solo sette mesi; quando esce, accompagnalo!». Annuisco piena d’inquietudine, e lei continua: «Grazie a Dio ci sei tu, gli uomini hanno paura dei parti».
Il che non è del tutto vero, perché quando, istruita da Zara, mi posiziono tra le gambe divaricate di Kira, intorno a noi gli uomini girano su se stessi, in silenzio e lentamente, trasformando questo squallido gommone in un campo di girasoli notturni. Anche i due ragazzini, mentre fanno del loro meglio per tenere la donna sollevata dal fondo dellos cafo, protendono la faccia verso la luna crescente. Oltre alla delicatezza del gesto c’è un’intenzione comune, probabilmente una preghiera. Avevo scambiato il pudore per indifferenza.
«Adesso spingo» dice la donna, risoluta, con la faccia bagnata di sudore.
Il suo corpo si contrae, la bocca si apre e ne esce un grido diverso da prima, meno spaventoso. È lo sforzo che diventa voce. Intanto Zara l’accompagna, esercitando sul ventre delle pressioni simili a un massaggio cardiaco.
Io sono inginocchiata nell’acqua, fradicia, con le mani a coppa a pochi centimetri dall’oscurità tra le sue gambe. Respiro il suo odore intenso e dolciastro, quello acre del carburante. Mi sembra che passi un’eternità , prima di sentire il piccolo cranio tra i palmi tremanti. È scivoloso, coperto di lanugine.
«Eccolo!» urla Zara. Le sue mani s’intrufolano tra le mie, sfiorando i contorni del neonato. «Spingi, Kira, spingi!» E Kira, sfinita, fa ancora uno sforzo. Il cranio mi ruota tra le mani e lo sorreggo, tastandolo fino a toccargli le spalle. Il piccolo scivola fuori come un agnello, seguito dal cordone e da un flusso di liquidi che si riversano nel gommone.
È davvero minuscolo. Per proteggerlo dal vento, srotolo il chador che mi copre il capo e lo avvolgo rapidamente. Poi sento il suo grido. Però c’è qualcosa di sbagliato: una sensazione che resterà di un’intensità insopportabile anche nei ricordi. Il corpo sembra troppo pesante per quanto è piccolo.
Di nuovo, quel vagito. Inorridita, volto la testa verso il lamento. Perché non sta succedendo tra le mie mani. A urlare è il neonato in braccio a quell’altra. Quello che sorreggo, avvolto nel chador, non si muove. Non fiata.
Le donne mi guardano, illuse da quello che deve apparire loro ancora come un miracolo. Io non ho il coraggio di parlare. Tendo il bambino a Kira, che forse ha già capito, perché lo prende con riluttanza. Se lo posa sul petto e comincia a singhiozzare. La cosa strana è che non sembra sorpresa. Sembra piangere la fine di un’altra tragedia.
Quando si calma, dice: «Zara, io non sono cattiva. Però non la volevo, questa memoria».
La ragazza col turbante annuisce, togliendole il fardello dal grembo. Gli uomini sono rimasti voltati. I girasoli notturni hanno la testa china, malgrado la luna abbagli il cielo come un sole.
Lo scafista al timone, forse l’unico testimone maschile di quello che è avvenuto, si allunga verso il tubolare per scuotere il compagno. Quello si sveglia, bestemmiando nella loro lingua. Poi di malavoglia cede il suo coltello e prende posto al timone, mentre l’altro, senza una parola, si accuccia per proteggersi dal vento e scalda la lama con la fiamma di un accendino. Poi si alza e con passi decisi attraversa i corpi sullo scafo, venendo verso di noi.
Le donne gridano terrorizzate. Io mi scanso e lui si mette al mio posto. Con un gesto secco, come un marinaio recide una cima, prende il cordone tra le dita e lo taglia.
Questo piccolo fagotto senza vita, avvolto nel chador blu notte che mi accompagna dall’inizio del viaggio a Kabul, ha un potere misterioso. È un avvenimento innaturale e ingiusto, eppure sembra avere un effetto benefico sul nostro sconforto. Le donne piangon...